mercoledì 26 ottobre 2022

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Meloni scivola sul merito, il trastullo delle élite (che diceva di odiare)

DI DANIELA RANIERI

Intitolando il ministero dell’Istruzione, oltre che all’Istruzione stessa, anche al Merito, il governo Meloni ha raggiunto tre risultati. Ha dato subito prova di provincialismo: mentre nel mondo anglosassone, dove è nato, il concetto di merito è stato criticato e infine dismesso come sinonimo di impostura ai danni dei deboli, lei recupera questo trastullo delle élite neo-liberiste, che diceva di avere in odio, per darsi un’allure di prestigio. Inoltre, si è data la zappa sui piedi. Nella scuola deve valere il merito che evidentemente non vige in Parlamento e al governo, dove siede gente come Santanchè, ministra del Turismo perché titolare del merito di possedere lo stabilimento balneare dei vip; se vigesse la meritocrazia invece che la democrazia, la stessa Meloni non sarebbe lì, essendo solo diplomata. Il terzo risultato è culturale, e dunque più esiziale. Scartare i candidati meno “performanti”, valorizzare i presunti competenti e le eccellenze: sono tutte parole d’ordine che dalla fabbrica e dal terziario hanno conquistato la società, la politica e, in un inarrestabile cupio dissolvi, la scuola.

Favorire i meritevoli è già un dovere costituzionale dello Stato. L’art. 34 recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Quell’inciso – anche se privi di mezzi – è fondamentale; è, si può dire, il cuore dell’articolo; vuol dire che il diritto di laurearsi e specializzarsi è di tutti, e che se qualcuno non nasce con un capitale finanziario, culturale e relazionale spendibile, è compito della Repubblica rendere la sua condizione pari a quella di chi invece nasce con quel vantaggio. Il problema è che in una società iniqua, le condizioni impari all’inizio del percorso scolastico non vengono sanate in seguito, ma confermate, se non (come dicono tutti gli studi, da ultimo il rapporto Caritas) addirittura peggiorate. Al contrario di quanto ha detto Meloni ieri alla Camera, chi nasce in una famiglia povera da genitori non scolarizzati non progredirà negli studi, anche se meritevole (e come si sa, le borse di studio non bastano per tutti). Il gioco è truccato in partenza. Perciò: o l’intitolazione è pleonastica (non è scontato che ogni ministero faccia applicare la Costituzione? È come intitolare il ministero del Lavoro alla “Fondazione della Repubblica”) o è truffaldina.

Meloni è scivolata contro uno spigolo che dovrebbe farle male. “Merito” è una parola neo-liberista. I politici rampanti alla Blair e gli emuli come Renzi (che si riempiva la bocca col merito mentre impostava la rottamazione sul disprezzo per i “professoroni”) ne hanno fatto una bandiera, in assenza di una visione politica che mettesse la giustizia sociale al centro del suo orizzonte. Nel 1958 Michael Young scrisse L’avvento della meritocrazia, una distopia ambientata nel 2033 in cui il merito al potere è il fantasma totalitario di una società ingiusta e classista. Blair, insipiente com’era, fraintese Young, che nel 2001 dovette spiegargli sul Guardian che il suo libro era una satira e lo diffidò dall’usare la parola “meritocrazia” in senso positivo.

Da noi il merito è stato spacciato come un rimedio contro i privilegi della “casta”, quando è l’esatto contrario: è, come dice il Papa, una legittimazione etica della disuguaglianza.

Meloni e il ministro Valditara (vicino allo stratega dell’ultradestra trumpiana Steve Bannon e ai Legionari di Cristo, relatore della immonda riforma Gelmini) applicano la bollita logica mercatista all’istruzione per inculcare nei discenti fin dall’infanzia i principi di una società competitiva (ricorderete le tre “i” della Moratti, ministra di Berlusconi: Inglese, Internet, Impresa). Si stabilisce che il migliore su piazza vada premiato grazie allo stigma razziale del privilegio genetico e/o sociale. Ma chi decide cos’è il merito? Secondo quali criteri? Le università d’èlite sfornano meritevoli rampolli del ceto alto, spesso i più furbi. Gli studenti-lavoratori, con un curriculum meno brillante rispetto ai loro colleghi più fortunati, sono costretti a farsi sfruttare dalle start-up o a consegnare pizze per pochi euro in base alle leggi fatte dai meritevoli al potere.

Dovrebbe insospettire Meloni che la trovata dell’intitolazione del ministero sia piaciuta a gente come Calenda (è strano se uno come lui, entrato giovanissimo in Ferrari perché Montezemolo era un amico di famiglia, difende i privilegi dei figli di papà?) e ai renziani, spietati darwinisti sociali che si battono contro il Reddito di cittadinanza perché chi è povero non soffre abbastanza. Una vera destra sociale si occupa di chi resta indietro. Meloni invece adotta la logica del capitalismo per cui tutto deve essere monetizzato, anche il talento e i natali fortunati. Evidentemente un conto è criticare l’egemonia delle élite su Twitter, un altro capire chi conviene favorire quando si è al potere.

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