martedì 31 maggio 2022

Bignami



A destra del nuovo padrone del club più titolato della galassia, un bignami di ciò che il destino riserverà alle povere avversarie!

Simpatia

 


Ogniqualvolta parla mi provoca un eczema alla zona scortale, portandomi ad apprezzare altri che al suo confronto si trasformano in geni della lampada; a questo giro ha detto che lor signori hanno difficoltà a spremere giovani come nei bei tempi andati perché hanno nel reddito di cittadinanza un "competitor", che tradotto equivale a dire "da quando date 500 euro alle persone in affanno, non riusciamo a schiavizzare più nessuno!"
Bonomi è un coacervo di pusillanimità, un compendio di tutte quelle forbici sociali che divaricano sempre più le classi lavorative, vedasi lo stipendio del nipotino John che è pari a quello di milleduecento a lui sottomessi.
Bonomi può permettersi di dire tali nefandezze perché il tempo politico che ci è concesso attualmente è retto da uno che spremette come un limone il popolo greco, infischiandosene di dignità e socialità; l'accozzaglia che lo sorregge al governo è un mix di tutte quelle visioni del mondo che dovrebbero essere combattute e non riesco a capacitarmi di come partiti quali il PD e M5S perseverino ad appoggiarlo. Probabilmente ciò deriva dal fatto che il partito di Ronf Letta dista anni luce da qualsiasi ragionamento di sinistra e il Movimento attualmente retto da una persona perbene, si è trasformato strada facendo in una scatoletta di tonno.
Gentaglia del tipo di Bonomi non è il massimo per garantire la tenuta democratica del paese, in quanto instillano nei pochi ancora non del tutto sonnacchiosi, sentimenti d'ira e di mugugno che potrebbero trasformarsi via via in qualcosa di più temibile, visto quanto è oramai palese il divario tra le caste esistenti in questa nazione.
Si assiste con gelida nonchalance al lancio mattutino di brioche sfamanti il popolino, tra sghignazzi e prese per i fondelli tipiche del personaggietto in questione; la domanda che viene spontanea, al netto dell'intortamento in sinapsi scientemente elargito da media di proprietà, irroranti di nulla menti oramai prossime alla glaciazione, è una ed una sola: fino a quando sopporteremo cotanto dileggio?

Alessandro teorizza

 

Draghi ci manipola. Deve nasconderci che è impegnato ad allungare la guerra
di Alessandro Orsini
La manipolazione dell’opinione pubblica è fondamentale nella lotta per il potere. Tutti i governi dispongono di una squadra di esperti in questa materia delicata. Siccome la manipolazione dell’opinione pubblica nelle società libere è più difficile rispetto alle dittature, i manipolatori democratici sono una merce ambita dai governi occidentali. Le tecniche (i mezzi) che conducono alla manipolazione (il fine) sono numerose. Per ragioni di sintesi, le distinguo in due grandi categorie: brutali e raffinate. Un esempio di tecnica brutale è l’uccisione o l’intimidazione dei giornalisti. Una volta eliminati, i raggiri del governo potranno circolare senza opposizioni.
Le tecniche raffinate sono una questione più complessa perché richiedono tre condizioni di base. La prima è una popolazione molto impreparata in materia di sicurezza internazionale. Se le persone non conoscono i meccanismi di innesco della prima e della seconda guerra mondiale, saranno indotte facilmente a ripetere gli errori del passato o a non riconoscerli. La seconda condizione è una grande quantità di giornalisti e intellettuali compiacenti. La terza condizione è la velocità con cui i media passano da una notizia all’altra: una velocità che internet ha esasperato. Il passaggio vorticoso da una news all’altra non concede agli studiosi il tempo necessario per smascherare le manipolazioni dei governi. Proviamo con un esempio suddiviso in tre fasi: 1) un certo governo avvia un tentativo di manipolazione dell’opinione pubblica; 2) qualche intellettuale se ne accorge e lo denuncia; 3) ma la notizia è stata già scalzata da una nuova notizia e gli studiosi si ritrovano a gridare nel deserto. Questo schema si trova anche nel modo in cui il governo Draghi ha appena manipolato l’opinione pubblica in Italia. Nella prima fase, Draghi ha rifornito l’Ucraina di alcune spaventose macchine di morte che sono gli obici FH 70 con una canna di 12 metri in grado di sparare proiettili fino a 30 km di distanza. Il tutto è stato secretato perché Draghi sa che gli italiani sono contrari all’invio di armi pesanti. Nella seconda fase, il governo Draghi ha depositato un finto piano di pace che ha monopolizzato le attenzioni dei media per circa sette giorni. Così facendo, Draghi ha incassato un duplice risultato. Da una parte, ha compiaciuto la Casa Bianca appoggiando la sua politica di sirianizzazione della guerra in Ucraina; dall’altra, ha incassato il consenso degli italiani, a cui si è presentato falsamente come un promotore di pace. Il 27 maggio Maurizio Molinari ha addirittura lodato Draghi su Repubblica scrivendo che: “Draghi, nei suoi continui tentativi alla ricerca della pace per l’Ucraina, ha telefonato a Putin”. Nella terza fase, Draghi è stato smascherato anche dalla portavoce del ministero degli Esteri russo, Marija Zakharova, che ha detto: “Non potete con una mano fornire armi all’Ucraina e con l’altra presentare un piano per una soluzione politica”. La manipolazione è manifesta, ma la notizia del piano di pace dell’Italia è già superata da un’altra notizia e non c’è tempo per riflettere. Altro che piano di pace: Draghi è dalla parte di Biden, che intende inviare gli Mlrs (Multiple Launch Rocket System) che sparano razzi da 300 chilogrammi con una gittata fino a 300 km. Se gli ucraini utilizzassero quelle armi per colpire il territorio russo, come suggerisce Boris Johnson, le probabilità che la guerra in Ucraina si internazionalizzi aumenterebbero considerevolmente.

Ecce Marco!

 

Armiamoli e morite
di Marco Travaglio
Quanto tempo perso, quanti morti, distruzioni, orrori, profughi e prigionieri in Ucraina, mentre l’Europa si svenava e si scannava per le sanzioni alla Russia (ma soprattutto a se stessa) e le armi a Kiev, la lobby militare ingrassava e il mondo tremava per il doppio spettro della guerra nucleare e della fame. Dall’attacco criminale russo abbiamo buttato quasi 100 giorni a ripetere chi era l’aggressore, come se qualcuno ne avesse mai dubitato e quel mantra servisse a salvare una sola vita; a linciare come “putiniano” chiunque cercasse le cause storiche per non ripetere gli errori e le vie d’uscita dalla mattanza, fosse Orsini, Spinelli, Caracciolo, Kissinger o il Papa; a illudere gli ucraini – contro l’evidenza e la matematica – di una vittoria totale e finale sulla Russia che, complici il cancro e altri malanni, ci avrebbe servito su un piatto d’argento la testa di Putin; a menarcela su quanto sono buone, pacifiche e devote all’autodeterminazione dei popoli le democrazie occidentali, attaccate dal Nuovo Satana (anzi Hitler) per le loro preclare virtù, ergo “con Putin non si tratta” perché ogni negoziato sarebbe una “resa”. Insomma: “Armiamoli e morite”.
Ora, dopo quasi 100 giorni e migliaia di morti, la dura legge dei fatti riporta tutti alla realtà. Zelensky – finalmente libero dal ricatto nazista del battaglione Azov – ammette: “Non credo che potremo riprendere l’intero nostro territorio con l’esercito. Se decidessimo di farlo, perderemmo centinaia di migliaia di vite. Meglio la diplomazia”. Cioè mette sul tavolo della trattativa non solo la Crimea (occupata senza proteste dai russi nel 2014), ma anche il Donbass (ormai in mano russa, come la striscia Sud sul mare d’Azov). E accetta il principio “territori in cambio di pace” che, se fosse stato ben consigliato (cioè non consigliato da Biden e Johnson) e l’avesse accettato prima, gli e ci avrebbe forse risparmiato la guerra (o almeno evitato di fornire alibi alle fregole belliciste di Putin); e ora lo costringerebbe a sacrifici ben più lievi. Il 19 febbraio Scholz lo pregò di dichiarare la neutralità e la rinuncia alla Nato in un mega-accordo di sicurezza con Putin e Biden per evitare l’invasione: Zelensky rifiutò e cinque giorni dopo partì l’attacco russo. Ora l’ex premier giapponese Shinzo Abe conferma che, se si fosse indotto Zelensky a dare larga autonomia al Donbass (come da accordi di Minsk) e a rinunciare alla Nato, la guerra si sarebbe evitata. Ora è inutile piangere sul latte (e il sangue) versato. Ma a patto di non perdere più tempo (cioè vite e territori): se l’Italia, l’Ue e la Nato tengono tanto all’autodeterminazione dei popoli, propongano un referendum nei territori occupati dai russi per far decidere ai cittadini – non a Putin, Zelensky e Biden – con chi vogliono stare.

L'Amaca

 

Chi lo ama lo segue
DI MICHELE SERRA
Parlandone come di una fiction (per il semplice fatto che lo è), la puntata nella quale il protagonista, Gianluca Vacchi, viene accusato da alcuni domestici di averli costretti a ballareper manifestare giubilo e benessere su Instagram, mi è sembrata irresistibile: una spietata satira dell’epoca.
Essendomi perso tutte le puntate precedenti, e senza dubbio anche le successive, non posso giudicare la serie nel suo complesso. Ma so che ha milioni di affezionati, e che il copione (Vacchi che danza, Vacchi che ride, Vacchi in motoscafo, Vacchi in piscina, Vacchi che lustra i tatuaggi con il Sidol, Vacchi che fa fitness per essere sempre più Vacchi) ha una sua fissità ipnotica, degna di un certo cinema impegnato degli anni Settanta nel quale non succede mai niente, ma il pubblico è convinto che si stia sviscerando la condizione umana. Allo stesso modo il narcisismo social, pur rimanendo, scientificamente parlando, una turba psichica, lascia intendere di essere una forma di avventura esistenziale, anche se non si capisce quale. E la gente abbocca.
Una sola cosa mi sento però di dire: chi ha visto tutte le puntate precedenti, ovvero i follower di Vacchi, non ha nessun diritto di interferire nella trama, lamentando la crudeltà del datore di lavoro, o viceversa difendendolo dall’ingratitudine dei sottoposti. I soli veri mandanti di Vacchi sono loro, che hanno costruito l’idolo ammonticchiando miliardi di clic per seguire un tizio che segue solamente se stesso. Non hanno alcun diritto di giudicare Vacchi. È il loro specchio. Il loro doppio. Lo hanno creato loro. Se lo meritano così com’è, se lo tengano così com’è.

lunedì 30 maggio 2022

Michelone


di Michele Serra

Per me è un grande onore essere stato scelto come portavoce dall’Unione Cinghiali Romani, che mi ha affidato una dichiarazione ufficiale. E’ un momento storico, per la prima volta in televisione non parlano solo cani e porci, ma anche i cinghiali.
 
“Noi cinghiali romani condanniamo con fermezza il comportamento scorretto di una minoranza, che ruba le borse della spesa alle signore anziane. Si tratta di poche mele marce, metafora che usiamo con qualche dubbio perché non avete idea di quanto siano buone le mele marce.
 
Ma la grande maggioranza dei cinghiali a Roma si comporta con senso civico, dando un contributo decisivo allo smaltimento dei rifiuti. E sopporta con dignità le manifestazioni ostili e discriminatorie degli umani, che ci fotografano e ci filmano, con urla di raccapriccio in sottofondo, come se fossero arrivati gli zombie. Non siamo mostri, siamo maiali selvatici. Avete frequentato troppo i social e troppo poco i boschi, per capire come funziona il mondo.
 
Fino agli anni Novanta in Italia eravamo meno di centomila e vivevamo tranquilli nel bosco e nella macchia. Ogni scrofa partoriva, una sola volta all’anno, tre o quattro porcellini. Poi qualche genio della caccia ebbe l’idea di incrociarci con il maiale domestico e con i nostri cugini dell’Est Europa, specie molto più prolifiche di noi. Adesso, a causa dell’ibridazione, partoriamo due volte all’anno almeno dieci porcellini per volta. Noi non sappiamo far di conto, ma evidentemente neanche voi. Perché il risultato del vostro brillante intervento è che in Italia siamo diventati circa un milione e mezzo.
 
Poi avete abbandonato i campi. E la selva, che è il nostro habitat, si è estesa. E avete moltiplicato i vostri rifiuti, tonnellate di proteine, carboidrati, zuccheri parcheggiati in mezzo alla strada. Chiedetevi come mai preferiamo Roma a Stoccolma.
 
Ci chiamate specie infestante. Senti chi parla. Parlate tanto di Intelligenza Artificiale ma non siete neanche capaci di regolare le nascite. Presto sarete dieci miliardi. Per quanto ci riguarda, noi eravamo in quantità ragionevole e stabile, in equilibrio con l’ambiente. Siete voi che avete forzato la natura per avere più prede da impallinare.
 
Chissà se la pandemia vi ha insegnato qualcosa. Se modificate gli equilibri naturali, con la cecità e la fretta degli ingordi, ne pagherete il prezzo. Se affondate le vostre ruspe nella selva, dalla selva usciranno, in fila indiana, i virus e i piccoli mammiferi che ne sono i vettori. Se moltiplicate per venti gli esemplari di una specie, come avete fatto con noi cinghiali, la peste suina avrà venti volte più possibilità di diffondersi.
 
Quando ci vedete comparire sbarrate gli occhi, ma selvatico non vuol dire strano, o alieno. Selvatico dire che la vita sulla Terra non obbedisce a voi umani. Obbedisce alle leggi della natura. Nascere e prosperare è la regola, e vale per tutti gli esseri viventi del mondo, dagli infinitamente piccoli, come i virus, agli infinitamente affamati, come noi cinghiali.
 
Avete presente il grande cerchio della vita? A giudicare dalle vostre facce quando ci vedete comparire, si direbbe che no, non lo avete presente. Eppure è facile: tutto è connesso, la vita e la morte, la città e la foresta, la buccia di anguria che tracima dal cassonetto romano e il cinghiale che va a mangiarla. Solo voi umani, sempre più spesso, ci sembrate sconnessi.  
 
- Michele Serra 

Paragoni

 


domenica 29 maggio 2022

Livella



La livella pioggia che blocca la gara farà infuriare i cummenda stretti come sardine ad esternare il loro effimero potere. Godiamo molto nel sapervi incazzati e probabilmente sbeffeggiati da qualche madame Curie che vi starà chiedendo il perché non abbiate comprato il bel tempo! Tiè!


Signor Vacchi



La vicenda del Signor Vacchi - lo chiamo così benevolmente perché dall’alto dei suoi 22 milioni di follower deve avere per forza rispetto perché altrimenti, Dio non voglia, saremmo difronte ad un dato triste ed inconfutabile, che in giro vi siano 22 milioni di coglioni - mette in risalto una forma di schiavismo, oramai agevolato verso la normalità, di questo capitalismo deviato e pericoloso: la sudditanza pagata molte volte in nero di esseri umani verso il loro “badrone”. Badanti, maggiordomi, marinai, cuochi, factotum, antepongono alla loro dignità i voleri a volte folli dei loro datori di lavoro, i quali, più sono danarosi più tendono a schiavizzarli. Il Signor Vacchi è un totem in materia e sarebbe bello, ma il fato sempre più appare come loro amico e protettore, un giorno vederlo danzare mentre pulisce i bagni di un’anonima stazione di periferia. Con ancora molti follower a gustarne le evoluzioni coreografiche!

Grandissimo Carletto!

 


Sacrificio, umiltà, modestia ed esperienza Questa Champions è il capolavoro di Carlo
di Arrigo Sacchi
Ancelotti ha fatto un capolavoro. Non era tra i favoriti in questa Champions League e invece ha avuto il coraggio e la forza di vincerla. E sulla sua strada ha eliminato il Psg, il Chelsea, il Manchester City e il Liverpool, cioè il Gotha del calcio mondiale. Il Real Madrid di Carletto (e di suo figlio Davide, aggiungo) non era probabilmente la più forte squadra sulla carta, ma ha dimostrato di essere il gruppo che aveva più spirito di sacrificio, più umiltà, più modestia e più esperienza.
Il Liverpool, certamente sfibrato dalla lunga lotta con il Manchester City per la Premier League, ha dominato nel primo tempo, ha creato diverse occasioni, ma ha trovato di fronte a sé un Courtois monumentale. E poi, minuto dopo minuto, il Real è venuto fuori. Carletto è stato molto intelligente: sicuramente sapeva che gli inglesi non erano al top della condizione atletica, ha scelto di partire prudente, di farli sfogare per avere un
vantaggio nella ripresa. È stato un allenatore tattico che, conoscendo le forze dei suoi ragazzi e quelle del nemico ed essendo conscio di non potersela giocare sul piano del ritmo e della velocità, ha deciso di puntare sulla saggezza, sull’attenzione difensiva e sulla voglia di sacrificarsi dei suoi campioni. I quali lo hanno ripagato, perché tutti avete visto le rincorse di Modric, di Benzema, di Kroos. Mi viene da dire che il Real Madrid ha giocato all’italiana, ma questo era l’unica strada possibile per arrivare al successo.
Alla fine della partita ho ammirato la stretta di mano di Klopp a Carlo: un gesto da vero signore, nel quale ho letto la stima profonda dell’uno nei confronti dell’altro. Il capolavoro di Carlo non sta soltanto in questa Champions League, ma nell’aver conquistato la Liga, nell’aver saputo creare un gruppo coeso, partecipe, sempre pronto al sacrificio. Erano andati via diversi giocatori da Madrid, nell’estate scorsa, di sicuro non si pensava di vincere il trofeo più importante.
E invece Carletto è stato un vero e proprio mago. Aiutato dai suoi collaboratori, dai dirigenti, da un ambiente che trasmette entusiasmo, è stato capace di superare autentici squadroni e di raggiungere la gloria. E lo ha fatto, Carlo, con la sua dote principale: l’umanità. Se ha conquistato quattro Champions League da allenatore, due con il Milan e due con il Real Madrid, un motivo c’è, e questo motivo sta nell’atteggiamento che lui ha nei confronti del calcio, dei giocatori,d egli avversari, dei tifosi, dei dirigenti. È una bella persona, e con questo credo di aver spiegato tutto. In questa stagione, che non si annunciava semplice, è stato bravo a sfruttare il massimo di quello che aveva a disposizione. È la sua caratteristica: ovunque vada, vince. Anche questo è un dettaglio (per niente piccolo) sul quale riflettere. Vedere i giocatori del Real Madrid difendere in quel modo, con quello spirito di gruppo e con quella determinazione, è un’anomalia (considerati la storia e lo stile del club) e, nello stesso tempo, una lezione per molti: si arriva lontano soltanto se assieme si superano tutti gli ostacoli. Carlo e i suoi ragazzi non li hanno superati: se li sono mangiati, nel corso di una stagione davvero spettacolare e della quale tutti i tifosi del Madrid saranno orgogliosi. Grandi! Di più: immensi. In questa vittoria ci sono valori morali che devono essere evidenziati e che dovrebbero essere alla base di ogni progetto sportivo.

Inedito

 

A Venezia
Gita a San Marco
la chiesa giullare
che sa d’Oriente
In questo secondo racconto lo scrittore rievoca una sua passeggiata in laguna, con i libri di Ruskin come guida: il giro in gondola, i canali che sono strade, l’arrivo alla basilica E tutt’intorno “ la lentezza, il silenzio, la grazia” riservati non solo ai ricchi e ai “ sognatori” ma anche agli abitanti più umili.

di Marcel Proust
Mentre leggevo queste pagine su Venezia, nella mia camera entrava il sole, inondandola per metà. E di lì a poco mi alzavo dal letto, camminavo sul sole adagiato nella mia stanza, scendevo le scale di marmo dove le porte chiuse male lasciavano passare, dagli spifferi, la fresca brezza marina di quelle calde giornate, e giunto davanti al blu del Canal Grande, sul quale lo sguardo si attardava, si riposava, si rapiva, si incantava, come una guancia ancora tiepida del sonno recente si riposa, si attarda, si incanta su un morbido cuscino, si arrivava alla porta dell’albergo, con i tre scalini di cui i primi due erano di volta in volta ricoperti dall’acqua oppure sgocciolanti, perché se da altre parti si abita in riva al mare, qui invece si abita in mare. I palazzi sono magnifici, e la domenica come carrozze, sulla piazza grande della città in festa, si affollano le gondole. Saltate in gondola e diciamo: «Palazzo dei Dogi, San Marco», dove i vostri amici vi aspettano già con i libri. Perché sin dalla vostra infanzia nei giorni di sole conoscete il piacere di dire: «Vi raggiungo», a giorno [fatto], quando l’appuntamento è sicuro, e la strada da percorrere da soli, per ritrovare gli [amici] partiti in anticipo, straripante della pienezza della felicità di una bella giornata, [sia] che si debba seguire il fiume, dove si sentono saltare i pesci e affollarsi intorno a una mollica di pane i girini, dove nei prati circostanti insieme alle margherite si accalcano i ranuncoli, e che ci sia da far scricchiolare il ponticello passandoci sopra, e da camminare nel profumo dei biancospini che, quando uno prova ad annusarli, non sanno più di niente, sia che scivolando in gondola … (la frase è incompiuta, N.d.T) Qui non passerete davanti al pasticcere, non attraverserete la strada per andare all’ombra. Ma il gondo-liere, portandovi verso dove gli avete chiesto, vi dirà indicandoveli: «Palazzo Foscari». A emergere dall’acqua blu, quando li accostate, li costeggiate, e poi li superate in gondola saranno proprio quelli che hanno esaltato i vostri sogni come Anna Karenina o Julien Sorel. Ma quelli non avete potuto conoscerli. Questi invece, protagonisti dei romanzi di Ruskin, da qualche parte esistevano, proprio qui dove siete giunti, in questa strada senza negozi, senza calessi, senza pavimentazione e dovete passarci davanti la sera per andare a cena, o prima di cena per andare a trovare qualcuno.

Naturalmente tutte queste parole: «la gloriosa architettura privata di Venezia», «il glorioso palazzo Foscari », avevano un fascino che non ritrovate qui, quando il gondoliere vi dice indicandovelo: «Palazzo Foscari». Ma un giorno «Foscari», detto dal gondoliere, mentre lo costeggiate in gondola prima di andare a fare visita a qualcuno al Grand Hotel, non sarà meno poetico dell’altro Foscari, quello di prima, che eravate deluso di non ritrovare, «il capolavoro di quella gloriosa scuola di architettura privata di Venezia»; poiché ci sono momenti della nostra vita che la percezione sensibile, la tirannia del presente, l’intervento dell’intelligenza, il reticolo delle cose da fare, il susseguirsi dei desideri egoisti, ci impediscono di vivere, ma che ridiventano gloriosi quando giunge finalmente il giorno della resurrezione.
Scendevo le scale di marmo tutto incappottato, con sottobraccio il plaid da buttarmi sulle spalle in gondola e i libri di Ruskin, e partivamo come per un viaggio per mare, prendendo il largo sul canal grande a colpi di remo, nel blu, sotto il sole, inspirando la brezza, per approdare a qualche tempio emerso dalle acque dove si ormeggiava la gondola. Certi altri giorni andavano ad aspettarci a San Marco e io partivo per le stradine che sembravano un corridoio interno del cortile dell’hotel talmente le case, una vicina all’altra da entrambi i lati, erano attaccate e avevano poco l’aria di stare dalle due parti di una strada. A Venezia i canali sono le strade. Ed è in questo forse che Venezia sorprende di più, per il fatto che altrove i canali, per quanto numerosi, sono canali che attraversano la città. A Venezia non sono canali, sono strade d’acqua, con tutta la caratterizzazione sociale che la parola strada implica. Le diverse attività della vita subiscono dunque la trasposizione che questa particolarità implica. Uscire vuol dire navigare. Non solo passeggiare davanti all’acqua come sulla banchina di un fiume, su una spiaggia o in riva al mare, ma proprio mettere il piede, direttamente uscendo dalla porta, nella gondola. Dove finisce la soglia comincia la strada ossia l’acqua, e la soglia è perennemente schizzata, lavata, inondata, riemergendo nell’ora del reflusso per poi essere di nuovo ricoperta dall’acqua crescente. La gondola non serve solo a passeggiare ma a circolare, alla vita più attiva, più povera, più frettolosa, malgrado il suo lusso che è solo apparente dato che serve a tutto e a tutti.
Il medico fa il giro delle visite in gondola, la casalinga va a fare la spesa, l’impiegato fa le sue commissioni. E con la lentezza, il silenzio, la grazia che sembrano riservati alla pigrizia dei ricchi o al tempo libero dei sognatori, la gondola porta i bagagli al treno, la carne della macelleria all’hotel, il criminale che è stato appena arrestato in galera. Esiste dunque la gondola scolatoio dell’insalata. E c’è anche la gondola carro funebre, visto che i funerali raggiungono per forza il cimitero sull’acqua; i parenti e gli amici che lo seguono piangendo lo seguono in gondola.

E così è l’idea di città a essere singolare a Venezia, più ancora dell’aspetto della città. I fondatori di Venezia non donarono solamente al mondo un’opera d’arte incomparabile. Crearono una nuova forma sociale abbastanza diversa dalla precedente idea di città da poter essere considerata un luogo di agglomerazione e soprattutto una forma di funzionamento sociale nuova. L’idea di togliere al mare e ai suoi canali il senso che da tempo immemorabile vi veniva attribuito, e che noi ancora oggi vi attribuiamo, di elemento intermedio il cui attraversamento, che serva alla pesca, al viaggio, alla scoperta, alla guerra, resta momentaneo, e di conferire loro il senso sociale fino ad allora indissolubilmente legato alle strade, di luogo in cui si va da una casa all’altra, dai fornitori, dagli amici, a messa, al Consiglio, in prigione, al cimitero, è un’invenzione assolutamente geniale in quanto implica una capacità di astrarsi dall’esistente per creare dal nulla. Noi stessi per svecchiare l’idea comune dell’originalità di Venezia (questa città tutta divisa in sezioni da canali) e per cercare di ristabilire la sua vera originalità non siamo forse obbligati a tentare di dare alla nostra mente un po’ di quella stessa forza, che i Veneziani del resto ci inculcano in qualche modo, cosicché facciamo infinitamente meno fatica di loro e abbiamo infinitamente meno merito? Dunque visto che tutto il senso e la personalità della strada vengono [alterati] (e profondamente trasformati dalle necessità dell’elemento così opposto alla terra in cui si imprimono), le strade di Venezia sono in qualche modo decerebrate da ciò che è costitutivo della strada, e somigliano a strade come i morti somigliano agli uomini. Dalle finestre dell’hotel non riuscite a credere di non affacciare su una chiostrina piccola piccola, e che quest’amalgama di case che hanno tutte l’aria di dipendere dalla vostra, di formare un tutt’uno, sia una strada. Ciò che per strada è di tutti, e separa dunque come estranei coloro che abitano case diverse e sono separati dalla strada, che è impersonale, che è di tutti, qui sembra non esistere e le finestre hanno tutte l’aria di orribili parti annesse dell’hotel.
Con il plaid sottobraccio, e i miei Ruskin in mano, arrivo a San Marco che mi sembra diversa da una chiesa quanto Venezia da una città. La personalità della chiesa, costituita, delimitata, apprezzabile in altezza si estende in larghezza, innalzandosi pochissimo dal suolo, e il Dio che sappiamo essere il nostro Dio, ma che sembra quasi un giullare pascià d’Oriente, è collocato così poco in alto rispetto a noi che ci tocca far rifluire le onde di marmo che vengono a spianarglisi intorno e seguire altrove la personalità dell’edificio, abbracciarne tutta la larghezza, non guardare più in alto ma a destra e a sinistra, distribuire in qualche modo l’altezza inesistente tra le lunghe linee di destra e di sinistra, e sentire la nostra idea di chiesa decapitata ed estesa all’infinito trasformarsi da campanile in facciate, trasporsi, incarnarsi in questo monumento nuovo, festivo, basso, tutto in larghezza. E dentro la chiesa, quando in fondo in fondo scorgeremo Nostro Signore con l’aria effeminata, orientale e bizzarra, con il suo gesto trasformato in una posa da grasso siriota equivoco, sentiremo come possano cambiare i segni delle medesime disposizioni morali e come faremmo fatica a riconoscere in esseri di razza diversa gli equivalenti delle cose che chiamiamo distinzione, bontà, coraggio, semplicità, finezza, tatto, nobiltà e a cui corrispondono in quelli del nostro sangue dei segni talvolta simulati, talvolta ingannevoli ma esteticamente certi.

sabato 28 maggio 2022

Quel che scrisse De Masi

 

A proposito del precedente articolo di Massimo Fini, ecco l'articolo di Domenico De Masi, per agevolare la vostra opinione in merito. 


Le società libere di essere infelici

I PARADOSSI DEL PROGRESSO - Un lungo opulento periodo di pace, gli scossoni delle crisi del capitalismo, la pandemia e poi la guerra: nonostante tutto non stiamo imparando a ridurre le diseguaglianze

DI DOMENICO DE MASI

Non credo, a differenza di Esiodo, che ci sia stata in tempi lontani una mitica età dell’oro; né credo, con Pasolini, che la società rurale abbia offerto ai nostri antenati alcuni millenni di serena convivialità contadina; neppure credo, come Adriano Olivetti, che si possa creare una comunità felice in una fabbrica gremita di catene di montaggio.

Ho potuto godere in prima persona i vantaggi offerti dall’industria e condividere le speranze con cui, dopo la Seconda guerra mondiale, abbiamo imboccato l’esperienza post-industriale. Ne ho tratto la consapevolezza che questo in cui viviamo non è il migliore dei mondi possibili, ma è certamente il migliore dei mondi esistiti finora.

E spiego perché.

Mai prima d’ora il pianeta era stato abitato da quasi otto miliardi di esseri umani, in gran parte istruiti, informati, interconnessi, che ogni mattina si svegliano e cominciano a pensare, ogni sera si addormentano e cominciano a sognare. Mai prima d’ora il 46% di tutti i Paesi del mondo era stato governato in modo democratico. Mai avevamo avuto tante fabbriche per produrre e tanti supermercati per consumare; mai avevamo prodotto tanti beni e tanti servizi impiegando così poca energia umana. Mai eravamo stati capaci di creare in dieci mesi un vaccino con cui salvare milioni di vite; mai avevamo avuto tanti analgesici per debellare il dolore fisico e tanti psicofarmaci per alleviare la sofferenza mentale. Mai avevamo avuto tante informazioni e così tempestive, tante protesi meccaniche e tanti trastulli elettronici che ci aiutano a non dimenticare, a non annoiarci, a non perderci, aumentando a dismisura la nostra realtà.

Ma non c’è progresso senza felicità e non si può essere felici in un mondo segnato dalla distribuzione iniqua della ricchezza, del lavoro, del potere, del sapere, delle opportunità e delle tutele. Quest’inumana disuguaglianza non avviene a caso, ma è lo scopo intenzionale e l’esito raggiunto di una politica economica che ha come base l’egoismo, come metodo la concorrenza e come obiettivo l’infelicità. Lo aveva già capito molto bene Karl Marx: “Siccome una società, secondo Smith, non è felice dove la maggioranza soffre […] bisogna concludere che l’infelicità della società è lo scopo dell’economia politica. […] Gli unici ingranaggi che l’economia politica mette in moto sono l’avidità di denaro e la guerra tra coloro che ne sono affetti, la concorrenza”.

Il sistema post-industriale in cui ci troviamo a vivere è condizionato da due fattori – progresso e complessità – che pongono innumerevoli sfide al nostro innato desiderio di felicità.

L’idea di progresso, i dibattiti, le speranze e le imprese che ha suscitato, ma anche gli strappi e le vittime che ha provocato, costituiscono uno dei capitoli più affascinanti e terribili della storia umana. Grazie al progresso abbiamo goduto di una così lunga e crescente prosperità da introiettare l’idea che le risorse del pianeta sono infinite e infinita è la possibile crescita del Pil. Tra il 2006 e il 2017 Deirdre Nansen McCloskey ha pubblicato una trilogia di 1.700 pagine dedicata alle virtù, alla dignità e all’uguaglianza borghese in cui il merito di questa crescita è fatta risalire all’innovismo del “Grande Patto Borghese”, cioè al liberismo e al neoliberismo. A suo dire, ognuno di noi si è arricchito del tremila per cento e l’arricchimento si diffonderà a livello mondiale senza corrompere l’animo umano.

Nonostante queste dichiarazioni così imprudentemente gaudiose, anche prima che sopraggiungesse la pandemia del 2020, molti autorevoli studiosi della condizione umana avevano scorto nelle pieghe del tumultuoso progresso tecnologico, tra le righe delle relazioni addomesticate dalle agenzie di rating e dietro la bonaccia di una pace duratura, le minacce di possibili sciagure. Nel 2007 Dominique Belpomme, esperto mondiale di salute ambientale, aveva scritto: “Ci sono 5 scenari possibili della nostra scomparsa: il suicidio violento del pianeta, per esempio una guerra atomica […]; la comparsa di malattie gravi, come una pandemia infettiva o una sterilità che determini un declino demografico irreversibile; l’esaurimento delle risorse naturali […]; la distruzione della biodiversità […] e, infine, delle modificazioni estreme nel nostro ambiente come la scomparsa dell’ozono stratosferico e l’aggravamento dell’effetto serra”.

Mentre il Covid-19 mieteva milioni di vite, gli umani hanno continuato a distruggere la biodiversità, esaurire le risorse naturali, causare la scomparsa dell’ozono e aggravare l’effetto serra.

Per ora sappiamo che, con la caduta del Muro di Berlino, il comunismo ha perso ma il capitalismo non ha vinto perché l’uno aveva imparato a distribuire la ricchezza ma non la sapeva produrre; l’altro ha imparato a produrre la ricchezza ma non la sa distribuire.

D’altra parte, sappiamo pure che ogni progresso fa le sue vittime, che chi promuove il progresso tende a disinteressarsi delle vittime e chi difende le vittime tende a disinteressarsi del progresso.

L’effetto complessivo è una contrapposizione tra due estremi: gli entusiasti acritici che guardano al progresso come “violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo” come diceva il Manifesto del Futurismo; e pessimisti ipercritici che guardano al progresso come causa perversa e irriducibile dello snaturamento dell’uomo. A questi occorre aggiungere tutti coloro che negano l’esistenza stessa di progresso, lamentando che non ci sono più le mezze stagioni.

Leader idioti

 


L'Amaca

 

Fermare il mare con un pettine
DI MICHELE SERRA
Galleggianti sul mare di folla, spesso i calciatori festeggiano alla maniera della folla, insultando l’avversario.
Volendo, ci si può rallegrare della raggiunta simbiosi tra eroi e popolo, però a una condizione: non smettere mai di sperare che i modi dell’esultanza popolare, di qui all’anno Seimila, o Settemila, migliorino nella forma e nella sostanza.
In attesa del passo in avanti (comunemente detto: progresso, o civilizzazione, fair playin termini sportivi) fa tenerezza la pretesa della Procura calcistica di sanzionare il tesserato che sbraita come un boss della curva, come se davvero regolamenti e codici etici potessero ricondurre nel recinto buoi scappati ormai da troppo tempo (è una metafora, non si offendano calciatori, popolo e buoi). Il calciatore pagherà la multa — spiccioli per lui — e tornerà serenamente al suo rosario di vaffa. Allo stesso identico modo, spiccano per la loro inutilità gli sforzi di varie autorità, piccole e grandi, per ristabilire il valore della Forma, dal dress code nelle scuole ai patetici codici etici nei social. È come voler fermare il mare con un pettine. I vecchi argini, quelli pessimi così come quelli buoni, sono travolti, e in attesa che se ne formino dei nuovi, possibilmente più intelligenti e gentili dell’arcigno moralismo del passato, bisogna galleggiare anche noi, come i calciatori, sull’onda inarrestabile degli umori in libertà. Non è un’impresa facile. Bisogna da un lato convivere, almeno in parte, con l’atmosfera della bolgia. Dall’altro, continuare a pensare, con fermezza, e perfino con empatia, che meriteremmo tutti di meglio: calciatori, folla e buoi.

Felicità, capitalismo e Fini

 

Il triste successo del capitalismo
UNA RISPOSTA A DE MASI - Il sociologo scrive delle “società libere di essere infelici”. Ma io credo che ciò sia dovuto all’edonismo straccione contemporaneo, che ormai è stato scambiato per felicità
DI MASSIMO FINI
“Se il comunismo è vittima del suo insuccesso, il capitalismo lo è del suo successo” (Il ribelle dalla A alla Z). In un lungo articolo pubblicato sul Fatto (“Le società libere di essere infelici”, 21.05) Domenico De Masi scrive che “non c’è progresso senza felicità”.
È curioso, strano addirittura, che un sociologo sperimentato come De Masi si infogni in un concetto come quello di felicità che sfugge a ogni catalogazione sociologica. La felicità è un sentimento puramente individuale: “Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità” (Cyrano, Massimo Fini). Se la felicità non è individuabile esistono però dei presupposti per favorire il suo contrario. Stanno tutti nella convinzione dell’uomo moderno, illuminista, progressista, postindustriale, che esista un diritto alla felicità, collettiva e individuale. Per la verità i nostri più immediati progenitori non furono così sciocchi: nella Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776 si parla di un diritto alla ricerca della felicità che però l’edonismo straccione contemporaneo ha introiettato come un vero e proprio diritto alla felicità. E pensare che l’uomo abbia un diritto alla felicità significa renderlo ipso facto, e per ciò stesso, infelice. La sapienza antica, non solo quella raffinata della grecità, ma la più semplice sapienza contadina, a cui De Masi nega diritto di cittadinanza, era invece consapevole che la vita è innanzitutto fatica e dolore, per cui tutto ciò che viene in più è un frutto insperato e ce lo si può godere.
De Masi sembra legare l’ineffabile felicità, se non proprio alla ricchezza, alla possibilità di produrre infiniti, e sempre più allettanti, beni di consumo. Insomma al progresso. E se il progresso, pur con la sua cornucopia di beni, non è riuscito per ora a creare un mondo di persone felici è perché si è realizzato, nel cosiddetto “mondo libero”, attraverso ineguaglianze intollerabili (il sociologo mi perdonerà se semplifico il suo pensiero). Ma è proprio la filiera produzione-consumo su cui si basa il nostro modello di sviluppo a creare sotto l’aspetto del benessere una società attraversata da un profondo malessere.
Partiamo dalle cose più semplici. Ludwig von Mises, uno dei più estremi ma anche dei più coerenti teorici del capitalismo e dell’industrialismo, sostiene, considerandola come cosa positiva, che il progresso del “mondo libero” è basato sulla competizione e quindi sull’invidia. Usando le sue parole: “il vagabondo invidia l’operaio, l’operaio invidia il capofficina, il capofficina invidia il dirigente, il dirigente invidia il padrone che guadagna 1 milione di dollari, chi guadagna 1 milione di dollari invidia colui che ne guadagna 3”. Insomma non c’è mai un momento di equilibrio, di riposo, di pace, di serenità. È la posizione di Silvio Berlusconi che rappresenta al meglio il dramma dell’uomo moderno. E l’invidia non è certamente un sentimento che fa star bene colui che ne è posseduto. Le cose andavano meglio, dal punto di vista psicologico, nella società feudale, premoderna, preindustriale. Quella società era divisa in caste impermeabili. Ma non è colpa mia se non sono nato Re, se non sono nato nobile, quelli partecipano a un altro campionato che non mi riguarda. E quindi io, contadino o artigiano che sia, vivo in un mondo di pari, sia nel di qua che nell’aldilà dove “ ’a livella”, come la chiamava Totò, finisce per eguagliare tutti, anzi è più dolorosa per chi credette di viver bene (“Prelati, notabili e conti / Sull’uscio piangeste ben forte / Chi bene condusse sua vita / Male sopporterà sua morte / Straccioni che senza vergogna / Portaste il cilicio o la gogna /Partirvene non fu fatica / Perché la morte vi fu amica”, Fabrizio De André, La morte).
Ma veniamo alle cose concrete, quantitative, misurabili anche dai sociologi e dagli statistici. Nel 1650, un secolo prima del take off industriale, i suicidi in Europa erano 2,6 per centomila abitanti, nel 1850, con statistiche certamente più accurate, erano 6,9 per centomila abitanti, triplicati, oggi sono mediamente vicini a 20 per centomila abitanti, quasi decuplicati. E il suicidio non è ovviamente che la punta di un iceberg molto più profondo. Nevrosi e depressione sono malattie della modernità. Negli Stati Uniti, il Paese più ricco, più forte del mondo, che gode di rendite di posizione che gli derivano dalla vittoria nella Seconda guerra mondiale, più di un americano su due fa uso abituale di psicofarmaci, cioè non sta bene nella propria pelle. Il fenomeno devastante della droga, nel Medioevo inesistente, in seguito riservato alle élite intellettuali, oggi coinvolge ogni classe sociale, soprattutto i giovani ed è sotto gli occhi di tutti. Sono cose su cui varrebbe la pena riflettere invece di continuare a credere ostinatamente, con l’ottuso ottimismo di Candide, di vivere nel “migliore dei mondi esistiti finora”.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’avanzatissima Europa è la regione del mondo dove avvengono più suicidi, 15,4 ogni centomila abitanti, mentre il Mediterraneo orientale è la regione dove ne avvengono meno. Nella bistrattatissima Africa, che da quando abbiamo cominciato ad “aiutare” per inserirla nei nostri mercati si è ulteriormente impoverita (migrazioni docent), la percentuale dei suicidi è del 7,4 ogni centomila abitanti, la metà di quella europea. In Italia il primato dei suicidi spetta alle regioni meglio organizzate, la Lombardia e l’Emilia-Romagna. Per i disturbi psichiatrici fra le regioni in testa figura sempre la Lombardia insieme alla civilissima Toscana, mentre la Campania, di cui continuamente segnaliamo le disastrose condizioni economiche e soprattutto sociali, occupa il penultimo posto.
C’è quindi del marcio nel “regno di Danimarca”, nel nostro modello di sviluppo che dopo averci promesso, propagandandolo su ogni suo media, uno straordinario benessere, si è rivelato portatore di un ancor più straordinario malessere.
Nella chiusa dell’articolo De Masi mette nella sua lista nera “tutti coloro che negano l’esistenza stessa del progresso”. Io appartengo a questa “colonna infame”. Ma sono in buona compagnia. Joseph Ratzinger, quando era ancora cardinale, ha scritto: “Il progresso non ha partorito l’uomo migliore, una società migliore e comincia a essere una minaccia per il genere umano”.

Vien così!

 


venerdì 27 maggio 2022

Scoop!




Prendetevi un po' di tempo (Parte 2)


Continua l'articolo di Brooks  


2. Fare una lista dei desideri al contrario

Un modo pratico per attenuare i desideri è semplicemente quello di osservare i consigli che ci stanno trasformando in un Homo oeconomicus insoddisfatto, e poi fare il contrario. Per esempio, molti manuali di auto-aiuto suggeriscono di scrivere, il giorno del proprio compleanno, una lista di cose da fare nella vita per rafforzare le ambizioni terrene. Comporre un elenco di desideri offre una soddisfazione immediata, perché stimola la dopamina. Ma crea attaccamenti, che crescendo creano a loro volta sempre più insoddisfazione.

Ho cominciato invece a compilare una “lista dei desideri al contrario”, per rendere le idee di cui parlo in questo articolo praticabili nella mia vita. Ogni anno, il giorno del mio compleanno, elenco i miei desideri e i miei beni, le cose che Tommaso d’Aquino includerebbe nelle categorie di denaro, potere, piacere e onore. Cerco di essere del tutto onesto. Non elenco cose che in realtà detesto e non sceglierei mai, come una barca a vela o una casa per le vacanze. Piuttosto, cerco le mie debolezze, la maggior parte delle quali – m’imbarazza ammetterlo – prevedono l’ammirazione degli altri per il mio lavoro.

Poi m’immagino tra cinque anni. Sono felice e in pace, la mia vita ha uno scopo e un significato. Faccio un’altra lista delle forze che mi conducono verso questa felicità: la mia fede, la famiglia, le amicizie, il lavoro che svolgo, che è intrinsecamente soddisfacente, significativo e che serve agli altri.

Immancabilmente, queste fonti di felicità sono “intrinseche”: vengono da dentro e ruotano intorno all’amore, alle relazioni e a uno scopo profondo. Hanno poco a che fare con l’ammirazione degli estranei.

Le contrappongo alle cose della prima lista, che di solito sono “estrinseche”, le gratificazioni esterne associate alla lista degli idoli di Tommaso. La maggior parte delle ricerche ha dimostrato che le gratificazioni intrinseche conducono a una felicità molto più durevole rispetto ai riconoscimenti estrinseci.

Rifletto su come le seconde siano in competizione con le prime per tempo, attenzione e risorse. Immagino di sacrificare le mie relazioni per l’ammirazione di sconosciuti, e visualizzo il risultato sul lungo periodo.

Con questo in mente, affronto la lista delle cose da fare. Medito su ogni voce, ammettendo che, pur non essendo un desiderio in sé malvagio, non mi darà la felicità e la pace che cerco. Infine, ritorno alla lista delle cose che mi porteranno la vera felicità e m’impegno a perseguirle.

Data la mia smania per l’ammirazione, mi sono imposto di cercare di prestare meno attenzione a come mi percepiscono gli altri, allontanando questi pensieri quando si presentano. Ho lasciato andare molte conoscenze che in realtà erano legate solo all’avanzamento professionale. Lavoro un po’ meno rispetto agli anni passati. Ci vuole uno sforzo cosciente per evitare di ricadere nel vizio: il tapis roulant mi chiama spesso, e l’occasionale scarica di dopamina mi tenta a tornare alle vecchie abitudini. Ma i miei cambiamenti nel comportamento sono stati per lo più permanenti, e come risultato sono più felice.

Non voglio sostenere che ci sia qualcosa di sbagliato nel visitare il luogo esotico che hai sempre sognato di vedere, o correre una maratona, o spingere in altro modo le tue capacità di fare o creare qualcosa di difficile, nella professione o in altro. Un lavoro percepito più come una missione offre uno scopo; viaggiare può essere intrinsecamente prezioso e piacevole; imparare un’abilità o affrontare una sfida può dare soddisfazione intrinseca; attività significative intraprese con amici o persone care possono approfondire le relazioni. Ma chiedetevi se l’attrattiva dei vostri punti della lista, professionali o esperienziali, derivi soprattutto da quanto vi faranno ammirare o invidiare dagli altri. Queste motivazioni non porteranno mai a una profonda soddisfazione.

3. Ridimensionarsi

Di recente c’è stata un’esplosione di libri che raccomandano di ridimensionare la vita per essere più felici, per liberarsi dai detriti dell’esistenza. Ma non si tratta solo di avere meno cose. Possiamo infatti trovare un’immensa pienezza prestando attenzione a cose sempre più piccole. Il maestro buddista Thich Nhat Hanh lo spiega nel suo libro Il miracolo della presenza mentale: “Quando si lavano i piatti bisognerebbe solo lavare i piatti; il che significa che mentre si lavano i piatti bisognerebbe essere pienamente consapevoli di stare lavando i piatti”. Perché? Se stiamo pensando al passato o al futuro, “non siamo vivi nel momento in cui stiamo lavando i piatti”.

Per molti anni ho avuto un caro amico, una persona di circa vent’anni più anziana di me, con la quale lavorai da giovane. A quarant’anni gli hanno diagnosticato una forma aggressiva di cancro e gli hanno dato sei mesi di vita. Per qualche miracolo sopravvisse a quei sei mesi, e poi ad altri sei, e poi a quasi tre decenni. Però non è mai guarito. Il suo medico gli ha detto che il cancro era un lupo alla porta, in attesa del suo momento. Prima o poi sarebbe entrato, cosa che alla fine ha fatto un paio d’anni fa. Ma i trent’anni di questo assedio non furono un peso. Al contrario, ogni giorno gli ricordavano che dono fosse quel giorno, quindi gli facevano cercare soddisfazione non in obiettivi di vita audaci e pluriennali, ma in piccoli momenti quotidiani di bellezza con le sue amate moglie e figlia.

Qualche anno fa ero a casa sua, a mangiare e bere nel suo giardino, insieme ad alcuni amici. Era il crepuscolo e lui ci chiese di riunirci intorno a una pianta dai piccoli fiori chiusi. “Guardate un fiore”, ci disse. obbedimmo, per circa dieci minuti, in silenzio. A un tratto i fiori si schiusero, cosa che, scoprimmo, facevano ogni sera. Rimanemmo a bocca aperta per lo stupore. Fu un momento di profonda soddisfazione.

Ma ecco quello di cui non riesco a capacitarmi: a differenza della maggior parte delle cavolate nella mia vecchia lista di cose da fare, quella soddisfazione è durata. Quel ricordo mi dà ancora gioia – più di molti dei “successi” terreni nella mia vita – non perché sia stato il coronamento di un grande traguardo, ma perché è stato un regalo inaspettato, un piccolo miracolo. Il principe tralascerà sempre le piccole soddisfazioni della vita, rinunciando a un fiore al tramonto per trovare denaro, potere o prestigio. Ma il saggio non commette mai questo errore, e anch’io cerco di non farlo. Ogni giorno, ho un elemento nella mia lista di cose da fare che richiede la mia completa presenza a un evento ordinario. Spesso ruota intorno alla mia pratica da cattolico, compresa la messa quotidiana con mia moglie e la preghiera meditativa.

Prevede anche delle passeggiate senza dispositivi elettronici, in ascolto solo del mondo esterno. Queste sono cose davvero soddisfacenti.

Mia figlia è partita per l’università pochi mesi dopo la nostra chiacchierata sulla scienza della soddisfazione.

Dopo l’isolamento e le chiusure per il covid-19 – una triste beffa per lei, che era al suo ultimo anno di liceo – ha preso il largo, iscrivendosi a un’università in Spagna. Sono sperduto. Però ci mandiamo diversi messaggi al giorno. Non riguardano quasi mai il lavoro o la scuola. Condividiamo invece piccoli momenti: la foto di una strada piovosa, una battuta stupida, il numero di flessioni che ha appena fatto.

Non so se questo la avvantaggi nel liberarsi dal paradosso dell’insoddisfazione, ma per me è come una medicina. Ogni messaggio è come la serata del fiore – un breve scorcio della visione beatifica del paradiso, forse – che porta una quieta soddisfazione.

Ognuno di noi può cavalcare le onde dell’attaccamento e degli impulsi, sperando inutilmente che un giorno, in qualche modo, otterremo e manterremo la soddisfazione che desideriamo. Oppure possiamo fare un tentativo con il libero arbitrio e la padronanza di sé. È una battaglia che dura tutta la vita contro il nostro essere umano preistorico interiore. Spesso vince lui. Ma con determinazione e pratica, possiamo trovare una tregua dall’insoddisfazione cronica e sperimentare la gioia che è la vera libertà umana.


Prendetevi del tempo (Parte 1)

 

Ecco di seguito un ottimo e lungo articolo di Arthur C. Brooks, studioso di scienze sociali e giornalista americano. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La via della Libertà. 

Questo suo articolo, preso da L'Internazionale, è uscito sull'Atlantic e lo ritengo molto interessante. 

Desiderare di meno 

di  Arthur C. Brooks

In un pomeriggio di primavera del 2021 mi sono affacciato in camera di mia figlia adolescente, aspettandomi di trovarla a fissare distratta la schermata di Zoom spacciata per scuola superiore durante la pandemia. Invece si stava sbellicando dalle risate. Le ho chiesto cosa stava guardando. “È un vecchio che balla come un pollo e canta”, mi ha detto.

Dato che non sono immune alla voglia di guardare qualcuno che si rende ridicolo per quindici secondi di fama sui social network, mi sono avvicinato al computer e mi sono trovato davanti la rock star settantenne Mick Jagger in un concerto abbastanza recente, che gracchiava probabilmente per la milionesima volta il classico dei Rolling Stones (I can’t get no) Satisfaction, un pezzo uscito quando io avevo un anno. 

Un pubblico di decine di migliaia di persone, che sembravano per lo più nate tra il 1945 e il 1980, lo accompagnava con entusiasmo. “Ma sul serio?”, mi ha chiesto, “alla gente della tua età piace davvero?”.  Mi sono offeso, ma ho dovuto ammettere che era una domanda legittima.

“Più o meno”, ho risposto. Non era solo per la musica, e nemmeno la performance, le assicurai. Secondo me, la longevità di quella canzone in particolare – che è al secondo posto nella lista delle “cinquecento più grandi canzoni di tutti i tempi” stilata dalla rivista Rolling Stone – ha molto a che vedere con una profonda verità.

Mentre ci facciamo strada nella vita, le ho spiegato, la soddisfazione – la gioia per aver realizzato desideri o aspettative – è evanescente. Qualsiasi cosa otteniamo, vediamo, possediamo o facciamo, sembra sfuggirci tra le dita.

Ormai ero partito. La soddisfazione, ho continuato, è il più grande paradosso della vita umana. La desideriamo, crediamo di poterla ottenere, la intravediamo e forse per un breve istante la sperimentiamo, poi svanisce. Ma non smettiamo mai di tentare di trovarla e tenercela stretta. “Ci provo, e ci provo, e ci provo, e ci provo”, canta Jagger. In che modo? Con il sesso e il consumismo, secondo la canzone. Costruendo una vita sempre più barocca, costosa e farcita di stronzate.

“Vedrai”, le ho detto.

Avevo smorzato del tutto l’entusiasmo di mia figlia figlia, che ora aveva l’espressione che penso avesse lafiglia di Jean-Paul Sartre. “Quindi la vita è solo una corsa al successo e siamo condannati a un’esistenza insoddisfacente?”, mi ha chiesto. “Che schifo”.

“Sì, fa schifo”, ho risposto. “Ma non siamo condannati”.

Le ho detto che possiamo sconfiggere questo tormento se c’impegniamo a capirlo davvero, e se siamo disposti a fare alcuni difficili cambiamenti nel nostro modo di vivere.

“Tipo?”, chiese lei, strizzando gli occhi con il sano sospetto che deriva dall’essere figlia di uno studioso di scienze sociali e quindi involontario soggetto di vari esperimenti comportamentali.

Ho fatto una pausa. Era una domanda alla quale avevo dedicato molto del mio tempo, non solo a livello professionale ma anche personale, e con risultati alterni.

Anche le persone di grande successo soffrono del problema dell’insoddisfazione.

Ricordo di aver visto una volta LeBron James – il più grande giocatore di basket del mondo – con uno sguardo di pura disperazione dopo che la sua squadra di allora, i Cleveland Cavaliers, aveva appena perso il campionato. In quel momento di sconfitta, tutta la ricchezza e i riconoscimenti del mondo erano carta straccia.

Abd al-Rahman III, emiro e califfo di Cordova nella Spagna del decimo secolo, all’età di settant’anni sintetizzò così una vita di successi mondani: “Ho vissuto cinquant’anni di regno sempre vittorioso o in pace, amato dai sudditi, temuto dai nemici, rispettato dagli alleati. Ricchezze e onori, potenza e piaceri, nulla doveva mancare alla mia felicità”.

E quindi? “Ho attentamente tenuto conto dei giorni in cui ho provato una felicità vera”, scrisse. “Sono quattordici”.

Da osservatore, capisco il problema. Curo una rubrica sulla felicità umana per il mensile The Atlantic e tengo corsi sull’argomento all’università di Harvard.

So che la soddisfazione è uno dei principali “macronutrienti” della felicità (gli altri due sono il piacere e il significato), e che la sua natura elusiva è uno dei motivi per cui la felicità tende a sfuggirci.

Eppure più e più volte sono caduto nella trappola di credere che il successo mi avrebbe appagato. Al mio quarantesimo compleanno scrissi una lista di cose che speravo di fare o raggiungere. 

Erano quasi tutti obiettivi che solo un secchione poteva porsi: scrivere libri e rubriche su argomenti seri, insegnare in una scuola prestigiosa, viaggiare per tenere conferenze, perfino dirigere un’università. Che fossero obiettivi buoni e nobili o meno, erano i miei, e immaginavo che se li avessi raggiunti sarei stato appagato. Ho ritrovato quella lista quando avevo quarantotto anni, e mi sono reso conto che avevo fatto ogni cosa dell’elenco.

Ero stato professore di ruolo. Tenevo conferenze, avevo scritto alcuni libri di successo e curavo una rubrica per il New York Times. Ma niente di tutto ciò mi aveva portato la gioia durevole che mi ero immaginato.

Ogni risultato mi galvanizzava per un giorno o una settimana – forse un mese, mai di più – e poi mi allungavo verso il gradino successivo.

Avevo dedicato la mia vita a salire quella scala. Lo stavo ancora facendo, lavorando dalle sessanta alle ottanta ore alla settimana per realizzare l’obiettivo successivo, con il terrore di perdere quello precedente. I costi di questo tipo di esistenza sono più che ovvi, ma è stato solo quando ho rivisto la mia lista che ho cominciato a metterne in discussione i benefici e a riconsiderare il sentiero che stavo percorrendo.

E voi?

I vostri obiettivi sono probabilmente molto diversi dai miei, e forse anche il vostro stile di vita. Ma la trappola è la stessa. Tutti hanno dei sogni che, se realizzati, promettono dolce ed eterno appagamento. Ma i sogni mentono. Quando si realizzano va bene, per un po’. Poi compare un sogno nuovo.

Il dilemma della soddisfazione di Mick Jagger, e il nostro, comincia con una formula rudimentale: soddisfazione = ottenere ciò che si vuole.

È semplice, e il suo potere è profondamente codificato in noi. Date a una bambina di tre anni la patatina fritta verso cui si stava allungando e vedrete la sua espressione soddisfatta. Poi, dopo qualche secondo, vedrete il ritorno del desiderio. È questo il problema, no? 

È quasi come se il nostro cervello fosse programmato per impedirci di godere di qualcosa a lungo. In effetti, lo è. Il termine omeostasi fu introdotto nel 1926 da Walter B. Cannon, un fisiologo che nel suo libro La saggezza del corpo dimostrava la presenza di meccanismi integrati che regolano la nostra temperatura, così come i livelli di ossigeno, acqua, sale, zucchero, proteine, grassi e calcio. Ma il concetto si applica in modo molto più esteso: per sopravvivere, tutti i sistemi viventi tendono a mantenere condizioni stabili come meglio possono.

L’omeostasi ci mantiene vivi e sani. Ma spiega anche perché le droghe e l’alcol funzionano come funzionano, e non come vorremmo. Mentre la prima dose di una nuova sostanza ricreativa può darvi un grande piacere, il vostro cervello impara subito a riconoscere l’assalto al suo equilibrio e reagisce neutralizzando l’effetto della droga in entrata, rendendo impossibile recuperare la sensazione originale. 

Come spiega benissimo la neuroscienziata Judith Grisel nel suo libro Mai abbastanza: la neuroscienza e l’esperienza della dipendenza, la dipendenza è in parte un sottoprodotto dell’omeostasi: quando, sotto effetto della droga, il cervello si abitua all’incessante rilascio della dopamina – il neurotrasmettitore del piacere, che gioca un ruolo importante in quasi tutti i comportamenti di dipendenza – ne riduce drasticamente la produzione, rendendo necessaria un’altra dose solo per sentirsi normali.

Lo stesso insieme di princìpi regola le nostre emozioni.

Quando si riceve uno shock emotivo – buono o cattivo – il cervello tende a riequilibrarsi, rendendo difficile rimanere “su” o “giù” a lungo. Questo è particolarmente vero per le emozioni positive, per ragioni primordiali che approfondiremo tra poco. È il motivo per cui, quando si raggiunge il convenzionale successo materiale, non se ne ha mai abbastanza. Se fondate il vostro senso di autostima sul successo – denaro, potere, prestigio – correrete di vittoria in vittoria, prima per continuare a sentirvi bene, poi per evitare di sentirvi male.

L’incessante corsa contro i venti contrari dell’omeostasi ha un nome: tapis roulant edonico. 

Per quanto veloce corriamo, non arriviamo mai. “A casa io sogno che a Napoli, a Roma, potrei inebriarmi di bellezza, liberarmi della mia malinconia”, scrisse Ralph Waldo Emerson nel suo saggio del 1841 Fiducia in se stessi. “Preparo allora il mio baule, abbraccio gli amici, m’imbarco, attraverso il mare, e infine mi sveglio e Napoli, e lì accanto a me, ecco ancora la dura realtà, il mio triste io, inattaccabile, identico, dal quale ero fuggito via”.

Gli studiosi si domandano se la nostra felicità abbia un valore nominale immutabile o se possa fluttuare nel corso della vita a causa delle circostanze. Nessuno finora ha riscontrato che l’estasi immediata per una vittoria o un risultato possa durare. Per quanto riguarda il denaro, averne di più aiuta fino a un certo punto: si possono comprare beni e servizi per alleviare i problemi della povertà che ci rendono infelici. Ma inseguire in continuazione il denaro come fonte di soddisfazione durevole semplicemente non funziona.

“La natura dell’adattamento costringe gli uomini a vivere su un tapis roulant edonico”, scrivevano gli psicologi Philip Brickman e Donald T. Campbell nel 1971, “li condanna a cercare ulteriori livelli di stimolazione solo per mantenere i vecchi livelli di piacere, senza mai raggiungere nessun tipo di felicità o soddisfazione permanente”.

Eppure, anche rendendosi conto di tutto ciò, è difficile scendere dal tapis roulant. La nostra voglia di avere di più è piuttosto potente, ma più forte ancora è la nostra riluttanza ad avere di meno. Questa è una delle intuizioni che hanno fatto ottenere al professore di Princeton Daniel Kahneman il premio Nobel per l’economia nel 2002, per il lavoro svolto con lo psicologo di Stanford Amos Tversky.

Così provi e riprovi, ma non fai davvero dei progressi verso l’obiettivo. I ricchi continuano ad accumulare molto più di quello che sono in grado di spendere, e a volte più di quello che vogliono lasciare in eredità ai figli. Sperano che a un certo punto si sentiranno felici e sono terrorizzati da ciò che succederebbe se smettessero di correre. Come disse il grande filosofo dell’ottocento Arthur Schopenhauer, “la ricchezza somiglia all’acqua di mare: quanta più se ne beve, tanto più si ha sete. Lo stesso vale per la fama”.

Secondo la psicologia evolutiva, la nostra tendenza a volere di più è perfettamente comprensibile. Per buona parte della storia la fame è stata una minaccia.

Un “ricco” cavernicolo aveva qualche pelle di animale e qualche punta di freccia, perfino una manciata di semi e del pesce essiccato in più. Con questa abbondanza, poteva sopravvivere a un brutto inverno.  Ma i nostri antenati preistorici non volevano solo superare l’inverno, avevano ambizioni più grandi: volevano trovare alleati e partner, con l’obiettivo (consapevole o meno) di trasmettere i propri geni. E come potevano riuscirci? Per esempio, accumulando pelli animali, dimostrando più competenza, abilità e attrattiva rispetto all’essere umano della caverna accanto.

Sorprende quanto sia cambiato poco da allora. Gli studiosi hanno dimostrato che le nostre tendenze all’accumulo persistono nell’abbondanza ed eccedono regolarmente i nostri bisogni. Questo si deve alle pulsioni residuali, un software che opera nei nostri cervelli dall’antichità.

La competizione per l’accoppiamento aiuta a spiegare la nostra strana fissazione per il confronto sociale.

Quando pensiamo alla soddisfazione che deriva dal successo (o dai beni materiali, dalla forma fisica o dalla bellezza), c’è un altro elemento da considerare: il successo è relativo. La soddisfazione richiede non solo che tu corra senza sosta sul tuo tapis roulant edonico, ma che tu corra un po’ più veloce degli altri.

Questo è il motivo per cui le persone con centinaia di milioni di dollari possono sentirsi fallite se i loro amici sono miliardari, e perché gli attori famosi di Hollywood possono essere scoraggiati dal fatto che altri sono ancora più famosi.

In un certo senso sappiamo tutti che il confronto sociale è ridicolo e dannoso, e numerose ricerche lo confermano. In una serie di esperimenti in cui veniva chiesto ai soggetti di risolvere dei puzzle, per esempio, i più infelici erano sempre quelli che prestavano più attenzione a come eseguivano il compito rispetto agli altri. La lieve scarica di piacere che otteniamo facendo meglio degli altri può essere facilmente inghiottita dall’infelicità di fare peggio degli altri. Ma l’impulso ad avere più degli altri, a essere più degli altri, ci muove senza tregua.

Viviamo in un’epoca in cui siamo esortati a tornare alla natura, ai bei tempi andati: nelle diete, nel senso di obbligo verso la comunità e altro. Ma se l’obiettivo è una felicità durevole, seguire gli impulsi naturali non aiuta. Questa è la beffa crudele: la felicità non contribuisce a propagare la specie, quindi la natura non la favorisce. Se confondi la sopravvivenza delle generazioni con la felicità, questo è un problema tuo, non della natura.

Il nostro stato naturale infatti è l’insoddisfazione, punteggiata da brevi momenti di soddisfazione. A voi potrà non piacere il tapis roulant edonico, ma madre natura lo trova fantastico. Le piace vedervi faticare per raggiungere una meta sfuggente, perché chi s’impegna ottiene il bottino, anche se non se lo gode a lungo.

Più partner o partner migliori significano migliori possibilità di sopravvivenza per la prole: questa antica regola è responsabile di gran parte del codice che scorre incessantemente nei profondi recessi del nostro cervello. Non importa se avete trovato l’anima gemella da cui mai vi allontanerete: gli algoritmi progettati per farci avere più compagni (o permetterci di averne di migliori) continuano a macinare, ed è per questo che desiderate ancora risultare attraenti agli estranei. L’istinto neurobiologico – percepito come insoddisfazione – è ciò che ci spinge in avanti.

Ci sono diversi altri esempi di tendenze evolutive che si oppongono alla felicità duratura: uno è soffrire di gelosia nelle relazioni romantiche (Madre natura, mentre c’invita a tradire, vorrebbe anche che stessimo in allerta sul rischio che il partner ci tradisca). Gli studi rivelano come gli uomini, che corrono il pericolo di spendere risorse per crescere inconsapevolmente dei figli non propri, si fissano soprattutto sull’infedeltà sessuale; le donne, che rischiano che il loro compagno si affezioni a un’altra donna– e quindi dirotti risorse verso di lei e relativi figli – rispondono conpiù avversità all’infedeltà emotiva.

Gli insaziabili obiettivi di ottenere di più, avere un successo visibile ed essere il più attraenti possibile portano a oggettificarci l’un l’altro e addirittura a farlo con noi stessi. Quando le persone non vedono in sé molto altro che un corpo attraente, un lavoro o un conto in banca, questo porta una grande sofferenza.

Gli studi dimostrano che l’auto-oggettivazione è associata a un senso d’invisibilità e mancanza di autonomia, e l’auto-oggettivazione fisica nelle donne è direttamente collegata ai disturbi alimentari e alla depressione. L’auto-oggettivazione professionale è una tirannia altrettanto odiosa. Si diventa padroni di sé senza cuore, vedendosi come niente più che un Homo oeconomicus. L’amore e il divertimento vengono sacrificati per il lavoro, alla ricerca di una risposta affermativa alla domanda “sto avendo successo?”. Diventiamo sagome cartonate di persone reali. Nella vita di oggi non ha senso spendere le proprie energie per possedere cinque automobili, o anche cinque paia di scarpe da ginnastica. Però le vogliamo lo stesso. I neuroscienziati hanno esaminato questo problema. La dopamina viene rilasciata in risposta a pensieri di nuovi acquisti, vincite in denaro, maggior potere o fama, nuovi partner sessuali. Il cervello si è evoluto per ricompensare i comportamenti che ci hanno tenuto in vita e hanno aumentato le probabilità di trasmettere il nostro dna.

Per chi ha fede, la soddisfazione ha un altro nome: paradiso.

Molte religioni promettono il paradiso ai credenti.

Raramente riflettiamo con cura su cosa questo comporti – arpe e nuvole? – ma la chiesa cattolica è cordialmente specifica al riguardo. Il cielo ci concede la “visione beatifica”: Dio che si mostra a noi vis-à-vis, facendoci conoscere la sua vera natura ed esaudendo così il “compimento dei più profondi desideri umani, lo stato di suprema, definitiva felicità”. 

O, come scrisse sul paradiso la mistica inglese del trecento Giuliana di Norwich, “tutto sarà bene, e tutto sarà bene, e ogni sorta di cosa sarà bene”. In altre parole, il paradiso è pura soddisfazione che dura.

Perché non sembriamo stare così bene sulla Terra? Il teologo cattolico del duecento Tommaso d’Aquino risponde nella sua magistrale Summa theologiae.

Definisce il problema della soddisfazione come un problema di scopi mal concepiti: idoli che ci distraggono da Dio, vera fonte della nostra beatitudine. Anche per chi non è credente, l’elenco di Tommaso degli obiettivi che seducono ma non soddisfano è verosimile.

Comprende il denaro, il potere, il piacere e l’onore. Come dice Tommaso nel caso del denaro: Nel desiderio delle ricchezze e di qualsiasi altro bene temporale quando tali beni sono posseduti non vengono apprezzati, e se ne desiderano altri. Il che avviene perché quando sono posseduti se ne scorge meglio l’insufficienza. E ciò dimostra la loro imperfezione, e l’impossibilità che in essi consista il sommo bene.

In altre parole, non danno alcuna soddisfazione. Forse Tommaso d’Aquino non riuscirebbe a riempire uno stadio, ma descrive l’origine dell’insoddisfazione jaggeriana molto meglio del vecchio Mick.

Il problema della soddisfazione, quindi, è nel nostro naturale attaccamento a queste cose inadeguate. Se vi suona un po’ buddista è perché lo è. È molto simile alla prima “nobile verità” del Budda: la vita è sofferenza (dukkha, tradotto anche come “insoddisfazione”) e le cause di questa sofferenza sono la brama, il desiderio e l’attaccamento alle cose del mondo. Tommaso d’Aquino e il Budda (e anche Mick Jagger) dicevano la stessa cosa.

Si noti che né Tommaso né il Budda sostenevano che le ricompense terrene sono intrinsecamente malvagie. Anzi, possono essere usate per fare del bene. Il denaro è fondamentale per far funzionare una società e per sostenere la propria famiglia; il potere può essere esercitato per risollevare gli altri; il piacere alleggerisce la vita; e l’onore può richiamare l’attenzione sulle fonti di elevazione morale. Ma se sono fini anziché mezzi, il problema è semplice: non possono dare soddisfazione.

E questo ci riporta alla domanda di mia figlia: siamo condannati, almeno in questa vita terrena, a un’esistenza di continua insoddisfazione?

Se visitate Taiwan, l’attrazione da non perdere è il National palace museum. Forse è la più grande collezione di arte e manufatti cinesi del mondo e contiene circa 700mila oggetti che vanno dal neolitico (più di ottomila anni fa) all’epoca moderna. Se il museo ha un difetto è proprio la sua sovrabbondanza. In una visita se ne può apprezzare solo una piccola parte. Ecco perché, un pomeriggio di qualche anno fa, ho ingaggiato una guida che mi mostrasse alcuni esemplari famosi e mi spiegasse il loro significato. Non sapevo che, con un suo commento, quella persona stava per aiutarmi a risolvere il puzzle della soddisfazione.

Contemplando un’enorme scultura del Budda in giada della dinastia Qing, la mia guida ha osservato sbrigativamente che quello era un buon esempio di come la visione orientale dell’arte fosse diversa da quella occidentale. “In che senso?”, ho chiesto. Ha risposto alla mia domanda con una domanda:

“A cosa pensi quando ti chiedo d’immaginare un’opera d’arte ancora da creare?”.

“A una tela bianca, suppongo”.

“Giusto”, mi ha detto. Molti occidentali tendono a vedere l’arte come creata dal nulla. Ma c’è un altro modo di vederla: “l’arte esiste già” e il compito degli artisti è solo quello di rivelarla. Mi ha spiegato che la sua idea di arte ancora da creare era un blocco di giada non lavorato, come quello che alla fine sarebbe diventato il Budda davanti a noi. L’arte non è visibile finché l’artista non rimuove la pietra che non fa parte della scultura, ma comunque è già lì. Non tutta la filosofia artistica riflette questa distinzione tra oriente e occidente. Michelangelo Buonarroti una volta disse: “La scultura è già completa nel blocco di marmo, prima che io cominci il mio lavoro. È già lì, devo solo scalpellare via il materiale superfluo”.

L’arte rispecchia la vita, e qui giace una potenziale soluzione al dilemma della soddisfazione. In genere, in occidente quando invecchiamo pensiamo di dover avere molto da esibire delle nostre vite, tanti trofei. Secondo molte filosofie orientali, è vero il contrario. Invecchiando non dovremmo accumulare di più per rappresentare noi stessi, ma piuttosto spogliarci delle cose per trovare il nostro autentico sé, e così trovare la felicità e la pace. Il Daodejing, un testo cinese redatto intorno al quarto secolo aC che è il fondamento del taoismo, espone questo punto con eleganza:

Le persone sarebbero soddisfatte della loro semplice vita quotidiana, in armonia e libera dal desiderio. Quando non c’è desiderio, tutte le cose sono in pace. Fresco cinquantenne, quando visitai il National palace museum, la mia vita era ingolfata di beni, traguardi, relazioni, opinioni e impegni. Ci volle l’osservazione della guida del museo per aiutarmi a metabolizzare gli insegnamenti di Tommaso d’Aquino e del Budda – o, in generale, della moderna scienza sociale – e smettere di cercare di aggiungere sempre di più, cominciando invece a togliere cose.

In verità la nostra formula, soddisfazione = ottenere ciò che si vuole, esclude un fattore chiave. Per essere più precisa la formula dovrebbe essere soddisfazione = quello che hai ÷ quello che vuoi.

Tutti i nostri diktat evolutivi e biologici si focalizzano sull’aumento del numeratore, cioè i nostri averi. Ma l’intervento più significativo è sul denominatore, i nostri desideri. Il mondo moderno è costruito su modi furbi per innescare i nostri desideri senza che ce ne rendiamo conto.

Il segreto della soddisfazione non sta nell’aumentare i beni da possedere, perché non funzionerà mai (o almeno, non durerà): è la formula del tapis roulant, non la formula della soddisfazione. Il segreto è gestire i nostri desideri. Gestendo ciò che vogliamo invece di ciò che abbiamo, ci diamo la possibilità di condurre una vita più soddisfacente.

Queste sono state le idee che ho cercato di spiegare a mia figlia quel pomeriggio di primavera. Lei ha ascoltato con interesse, poi ha replicato asciutta:

“Quindi stai dicendo che il segreto della soddisfazione è semplice. Devo solo andare contro diversi milioni di anni di biologia evolutiva”, più l’intera cultura moderna, “e sarò a posto”.

Ovviamente non potevo abbandonare lì la questione.

Uno dei motivi per cui spesso la gente non si fida degli accademici come me è che parliamo sempre di problemi, ma proponiamo raramente soluzioni pratiche. Peggio ancora, spesso ignoriamo il nostro stesso buon senso. Ho conosciuto economisti in bancarotta ed esperti di felicità depressi. Lei però sapeva che per me tutto questo non era solo teoria. Ci eravamo trasferiti due anni prima da Bethesda, un facoltoso sobborgo di Washington, in una piccola cittadina fuori Boston. Mi ero dimesso da una posizione da dirigente per insegnare e scrivere, rinunciando ai miei contatti quotidiani con politici e imprenditori , che in buona parte mi avevano rapidamente dimenticato. Non avevo nascosto il motivo del trasferimento e la mia famiglia era del tutto d’accordo: stavo seguendo il mio stesso consiglio, pubblicato sull’Atlantic nel 2019, per trovare un nuovo tipo di successo e un tipo di felicità più profondo . Quel progetto non riguardava solo la soddisfazione; comportava anche il riconoscimento del fatto che, sul piano professionale, la maggior parte delle persone raggiunge l’apice prima del previsto. Il declino è più rapido, e resistergli è controproducente e in definitiva inutile. Avevo bisogno di scendere dal tapis roulant edonico scambiando effimere scariche emotive professionali per un appagamento più duraturo che sarebbe continuato ben oltre la metà successiva della mia vita. Quando, al di là della mia volontà, i ritmi di vita si sono ulteriormente rallentati durante la pandemia, ho avuto ancora più tempo per pensare a come far funzionare quella transizione.

Per questo ho dato a mia figlia alcuni suggerimenti pratici su come vincere la maledizione dell’insoddisfazione.

Sono tre abitudini che ho elaborato per me e che sono radicate nella filosofia e nella ricerca delle scienze sociali.

1. Da principe a saggio

Uno studioso che propose soluzioni reali ai problemi della vita fu Tommaso d’Aquino. Non si limitò a spiegare l’enigma della soddisfazione: offrì una risposta e la sperimentò in prima persona. Ultimogenito del conte Landolfo d’Aquino, Tommaso nacque intorno al 1225 nel castello di famiglia, in Italia centrale. Fu mandato a studiare nel primo monastero benedettino, a Montecassino. Come figlio minore di una famiglia nobile, ci si aspettava che un giorno diventasse l’abate del monastero, un ruolo di enorme prestigio sociale.

Ma Tommaso non era interessato alla gloria mondana.

A diciannove anni si unì all’ordine domenicano, un gruppo di frati dediti alla povertà e alla predicazione itinerante. Quella, sentiva, era la sua vera identità. Bisognava scalfire la vita di ricchezza e privilegio per poterla trovare. Tommaso si dedicò allo studio e all’insegnamento, stendendo densi trattati filosofici ancora oggi fondamentali. È considerato il più grande filosofo della sua epoca. Ma questo non fu mai il suo obiettivo. Al contrario, considerava il lavoro nient’altro che l’espressione del suo amore per Dio e del desiderio di aiutare il prossimo.

Il Budda ha decifrato il codice della soddisfazione in un modo sorprendentemente simile. Nacque come principe con il nome di Siddhartha Gautama intorno al sesto secolo aC, nella regione che oggi si trova al confine tra Nepal e India. In seguito alla morte improvvisa della madre pochi giorni dopo la sua nascita, suo padre fece voto di proteggere il neonato dalle miserie della vita, così lo tenne chiuso nel palazzo, dove tutti i suoi bisogni e desideri terreni sarebbero stati soddisfatti.

Siddhartha non si avventurò mai fuori dal palazzo fino all’età di ventinove anni, quando, mosso dalla curiosità, chiese a un cocchiere di mostrargli il mondo esterno. Durante il giro, incontrò un vecchio, un uomo segnato dalla malattia e un cadavere in decomposizione.

Rimase turbato da queste visioni, che il cocchiere riconobbe come inevitabili nella vita dei mortali. Poi incontrò un asceta che, attraverso la rinuncia ai beni terreni, aveva ottenuto non la liberazione dalla malattia e dalla morte, ma la liberazione dalla paura di esse.

Poco dopo Siddhartha lasciò il regno e rinunciò a tutti i suoi beni. Seduto sotto un fico, l’albero della Bodhi, diventò il Budda. Trascorse il resto della vita condividendo la sua saggezza con un seguito sempre più ampio, che oggi conta più di mezzo miliardo di persone.

Io non sono Tommaso d’Aquino né il Budda (e il mio attuale incarico a Harvard difficilmente si qualifica come un ripudio della materialità). Tuttavia ho cercato di trarre insegnamento dalle loro vite: la soddisfazione non sta nel raggiungere uno status elevato e conservarlo per la vita, ma nell’aiutare le altre persone, anche condividendo qualsiasi conoscenza e saggezza acquisita. Questo è uno dei motivi per cui ho lasciato una carriera di prestigio per concentrarmi sulla scrittura e l’insegnamento. Se assumerò un altro ruolo di potere nella mia carriera, la mia attenzione sarà su ciò che voglio condividere con gli altri, non su ciò che voglio accumulare per me.