Zelensky: la (brutta) fiction come un reality dell’Ucraina
IL BIVIO - Il presidente sta affrontando la guerra con gli strumenti che possiede: la comunicazione emozionale, le doti di attore e l’esercito addestrato dalla Nato
DI DANIELA RANIERI
C’è stato un momento del tutto straniante, se non agghiacciante, nella fiction Il servitore del popolo andata in onda lunedì sera su La7: quando al professore diventato presidente dell’Ucraina per acclamazione social impersonato da Volodymyr Zelensky presentano il sosia che lo sostituirà nelle cerimonie e “morendo colpito da un cecchino”.
Lì l’ovvio travaso tra finzione e realtà è stato totale, un gioco di specchi e di identità video che, nel giorno delle immagini del massacro di Bucha, sembra ribaltare la massima di Marx. In questo caso la Storia si è ripetuta sì due volte, ma la prima come farsa – la fiction, appunto, in cui uno sconosciuto piccolo-borghese diventa presidente per nessun merito se non un video in cui sbraita contro la corruzione; la seconda come tragedia, quella che sta vivendo il popolo ucraino. Eppure in questa tragedia spira ancora qualche refolo di farsa, o almeno di rappresentazione, a cui Zelensky non ha rinunciato nemmeno sotto le bombe, chiamando il suo popolo a resistere coi video su Instagram, stressando al limite la comunicazione che l’ha reso idolo delle masse televisive.
L’eroizzazione della figura di Zelensky ne rende oggi impossibile l’analisi. Parlare criticamente della genesi del fenomeno Zelensky, non partecipando così alla sua eroizzazione, espone automaticamente all’accusa di essere filo-Putin. E la messa in onda della fiction (chissà se si può dire che è di una bruttezza rara, o se si viene inseriti nella lista di proscrizione tra i collaborazionisti di Putin), in cui egli è una figura simpatica e popolare, dovrebbe corroborare la narrativa del figlio del popolo che si ritrova a esserne capo e sfodera la sua abilità di comandante nell’ora più buia. Eppure, a ben vedere, rende il servizio peggiore al presidente ucraino, e il docufilm andato in onda subito dopo, Zelensky – The story, rovescia ogni eventuale intento celebrativo: il comico che ha fatto “morire dal ridere un Paese intero” nella versione ucraina de La sai l’ultima e ha vinto Ballando con le stelle vestito come Elvis, il re del comedy show e delle gag con battute volgari, peti, balletti in tacchi a spillo o nudo, è lo stesso che, eletto presidente in un partito che porta lo stesso nome della serie tv, si recherà nel Donbass per imporsi come capo militare e risollevare il morale delle truppe. È lo stesso che ha mostrato su YouTube il conflitto in quelle terre, fino ai giorni in cui sotto ai colpi d’artiglieria dei russi dirà, videoselfandosi: “Ho dormito solo 3 ore, nevica ed è quasi primavera. La guerra è come questa primavera: triste. Ma la supereremo”. Il Napoleone fuori di testa che vuole invadere la Russia, personaggio di un suo telefilm, si trasforma – restando lo stesso e mutando di segno – nell’eroe che esorta il suo popolo alla resistenza contro Putin.
Zelensky è diventato presidente perché ha aderito perfettamente, senza scarti, al suo personaggio di finzione. Si candida la sera di Capodanno, promettendo in un video lotta alla corruzione e lanciando slogan di plastica: “Non farti rubare il futuro”. Sfonda lo schermo, trascinandosi dietro la scia del suo carisma finzionale: “Non è una trovata pubblicitaria, vado fino in fondo”. Gira il Paese in autobus, come tutti i politici-comunicatori smart e post-ideologici. “È un volto nuovo”, dicono le vecchiette per strada, “metterà fine alla corruzione”, dicono i giovani. Sottopone alla macchina della verità i membri del suo partito accusati di corruzione, in diretta Facebook.
La campagna viene girata come una serie Netflix e postata sui social. Una potenza di fuoco inesorabile: puro carisma mediatico, esibizione virale della spontaneità, smargiasseria, trasmissione diuturna del sé, da reality show. Sfida Poroshenko allo stadio Olimpico di Kiev, e vince col 73% dei voti.
Mentre sale la tensione bellica nelle regioni russofile e la Crimea è già in mano russa, lui estenua la politica del selfie, diventando un influencer del proprio brand (in questo, è un Renzi che ce l’ha fatta). Dopo due anni e mezzo di guerra nel Donbass la gente comincia a sospettare che il fenomeno Zelensky sia un bluff, che sotto lo spettacolo non ci sia nulla. Viene coinvolto in due scandali: nel 2019 Trump gli avrebbe chiesto di indagare sugli affari in Ucraina del figlio di Biden in cambio di aiuti militari, e nel 2021 i Pandora Papers rivelano che i proventi della società di produzione della sua fiction sono nascosti in paradisi fiscali e conti off-shore. Fa discutere il suo legame con un oligarca ucraino in esilio per appropriazione indebita, proprietario del canale che manda in onda la serie tv, ritenuto il suo burattinaio.
Per risalire nei sondaggi, radicalizza la sua novità. Smette di parlare russo nei territori occupati (prima diceva di “pensare meglio in russo”). Dice in mondovisione: “La determinazione dell’Ucraina di diventare membro dell’Unione europea e della Nato è la priorità della nostra politica estera”, ciò che indurrà Putin a dire che l’Ucraina guidata da Zelensky è “l’anti Russia”. Non è solo uno scontro tra eserciti per il controllo territoriale: la politica videosocial di Zelensky si scontra col totalitarismo autocratico di Putin, che si pone a difesa dei valori tradizionali russi contro il nichilismo occidentale. Sono due mondi che si fronteggiano, due civiltà opposte.
Se Putin non avesse attaccato l’Ucraina, Zelensky sarebbe rimasto un caso di studio di come l’equazione “telespettatori/utenti dei social = popolo” sia una legge fisica dell’Occidente de-ideologizzato. Di fronte all’orrore e alla minaccia nucleare, Zelensky si è imposto come comandante-storyteller: collegato coi parlamenti dei vari Paesi ha adattato il suo discorso alla storia di quel popolo. Cita Shakespeare al Parlamento inglese, il Muro di Berlino al Bundestag, Genova bombardata (per fortuna non la Resistenza, come fanno in tanti) con l’Italia, fino all’inaudito: l’Olocausto alla Knesset, il Parlamento israeliano. La sua richiesta della no-fly zone, cioè dell’inizio della terza guerra mondiale, si inserisce in questa narrazione esorbitante e progressiva, tutto sommato anestetizzata dall’ipertrofia dell’immagine. Il nazionalismo è annacquato in un generico amor di Patria: il 19 marzo Zelensky dichiara “eroe dell’Ucraina” il maggiore Prokopenko, comandante di un distaccamento speciale del battaglione nazista Azov.
La dialettica fiction-realtà brucia sé stessa e gli eventi; tutto evapora nell’effimero regno del prodotto visuale. Capitato in qualcosa di enormemente più grande di lui, Zelensky sta affrontando la guerra e gli eccidi russi con gli strumenti che possiede: la comunicazione emozionale, le doti di attore e l’esercito addestrato dalla Nato. Il popolo lo segue, come quando era un divo della tv. È tutto autentico ma anche tutto mediatico, orribile e spettacolarizzato; solo i cadaveri per strada sono veri, stupiti nell’irreversibilità.
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