Travaglio a TPI: “Il giornalismo non è libero perché nelle redazioni sanno già cosa si aspetta il padrone”
di Giulio Gambino
Il giornalismo in Italia è libero?
«No».
Perché?
«Vale la famosa battuta: “In Italia si vendono più giornalisti che giornali”. Non è mia purtroppo, non ricordo chi l’abbia detta».
Ma sono i giornalisti che si vendono o gli editori che impongono la linea (e quindi i giornalisti li emulano)?
«È come la domanda che si faceva ai tempi di Tangentopoli, sei un corruttore o sei un concusso? Di Pietro con la sua praticità risolse la questione con la dazione ambientale. Qui c’è una censura ambientale che si respira nell’aria».
A te è mai capitato che qualcuno ti abbia censurato?
«Con me nessuno si è mai permesso, e quando ne avvertivo le avvisaglie me ne andavo, oppure venivo cacciato perché non obbedivo. Non ho esperienza di censure negli ultimi 13 anni, da quando cioè lavoro in proprio al “Fatto”, però ormai credo che nella stampa mainstream non ci sia più nemmeno bisogno di dare ordini o di imporre veti dai piani alti. Nei piani medio-bassi si sa già quello che si aspetta il padrone e si anticipano gli ordini, che non arrivano nemmeno perché ormai sono inutili».
Perché oggi il giornalismo ha sempre minore credibilità?
«Per una serie di concause. Per esempio il fatto che non esista un solo grande editore che abbia come unico interesse di fare un buon prodotto e di venderlo. O il fatto che la politica sia così mischiata all’economia e che i grandi gruppi economici siano così disastrati e assistiti dallo Stato: tutti famosi liberali-liberisti sempre col cappello in mano davanti a Palazzo Chigi a chiedere provvidenze pubbliche in cambio di soffietti a quasi tutti i governi, o almeno a quelli che fanno i loro interessi e quelli delle loro lobby».
Siamo anche il Paese dove politici e giornalisti fanno l’una e l’altra cosa in scioltezza…
«Non è un caso che gli unici governi che hanno avuto contro la gran parte dell’informazione sono stati il primo governo Prodi e i due governi Conte. per il resto l’establishment e i suoi giornali sono sempre stati governativi, chiunque ci fosse a palazzo Chigi. Dopodiché non è affatto escluso che all’interno di questo mondo ci siano poi singoli giornalisti che cercano di fare il loro mestiere, di resistere, ma nella somma finale finiscono nei resti».
Quali sono oggi i giornali che reputi liberi?
«Non sono nessuno per dare dei giudizi. Ma è un fatto che gli unici giornali che non appartengono a editori “impuri” sono Il Fatto Quotidiano, La Verità, TPI e Il Manifesto, che però ha un problema: i soldi pubblici dai quali in parte dipende».
Quale ritieni che sia la differenza tra il Fatto e gli altri giornali tradizionali?
«È semplice: nessuno ci dice cosa dobbiamo scrivere e cosa no. Ogni volta che decidiamo di prendere una posizione non abbiamo nulla da guadagnarci né da perderci. Hanno provato in tutti i modi ad attribuirci padroni o padrini, ma non sono mai riusciti a trovarne mezzo. Abbiamo le nostre idee, dalle quali dipendono le nostre posizioni politiche. Chi si avvicina di più alle nostre idee ha il nostro plauso, chi è più lontano delle nostre idee ha la nostra riprovazione».
Qualche esempio?
«Mi sono fatto l’antinfluenzale e tre dosi di vaccino anti-covid, ma qualche imbecille diceva che ero un no vax soltanto perché, da liberale, sono contro l’obbligo vaccinale e ritengo che ciascuno debba sottoporsi a un trattamento sanitario consultando il suo medico, non il suo governo. Noi – che siamo tanto 5Stelle-contiani secondo qualche imbecille – se i 5Stelle votano a favore delle armi in Ucraina, diciamo che sbagliano, perché siamo contrari. I 5Stelle danno non so quanti voti di fiducia al governo Draghi, E noi abbiamo sempre detto che non avrebbero neanche dovuto entrarci».
Cosa ne pensi di chi ti dice queste cose?
«Non me ne importa assolutamente niente. Anche il condizionamento psicologico di chi non scrive una certa cosa per evitare una certa accusa non mi tange. Non me ne frega nulla di quello che dicono di noi. Tanto le accuse le inventano comunque, anche se fai il bravo. Noi siamo sempre stati anti-putiniani – e continuiamo a esserlo, ovviamente – eppure ci sentiamo dare lezioni di anti-putinismo da Repubblica, che fino a 5 anni fa pubblicava un inserto mensile a cura della propaganda del Cremlino con quelle – non saprei come definirle – fellatio a Putin, al suo regime, al patriarca Kirill. Purtroppo io mi ricordo tutto…».
Il clima è preoccupante: il dibattito è infuocato e sempre più devoto al linciaggio…
«L’Italia era già un Paese praticamente rovinato dal punto di vista della libera informazione, ma poi il cocktail letale Draghi-Pandemia-Guerra ci ha dato il colpo di grazia, con un ulteriore giro di vite che ha vieppiù ristretto le già minuscole feritoie nel muro del pensiero unico. Viviamo in una permanente militarizzazione del pensiero, da Paese di guerra. Fino all’altro ieri non potevi nemmeno dire che il vaccino era una buona cosa ma non ti immunizzava dal contagio, perché il presidente del Consiglio, totalmente incompetente in materia, aveva spacciato il Green Pass per una garanzia di vivere in ambienti immuni dal contagio. Dopodiché mi risulta che, con tre dosi di vaccino, si è preso anche lui il Covid. Me ne dispiaccio, sono felice che sia asintomatico, ma mi auguro che abbia capito che nel luglio dell’anno scorso aveva detto una solennissima sciocchezza. Il guaio è che chi lo faceva notare passava per nemico del popolo e della scienza».
C’entra il cosiddetto pensiero binario?
«Sì, anche se poi non è neanche binario, è monolitico: perché hai due sole alternative, ma se scegli la seconda sei un porco, e non puoi mai discutere, distinguere, sfumare. Guarda cosa è accaduto nel dibattito sulla Francia tra Le Pen e Macron. Un’alternativa diabolica, dove entrambe le opzioni inorridivano un sacco di francesi, ma anche di italiani, me compreso: perché mai era riprovevole astenersi, non scegliere nessuno dei due, cioè – come dicevano gli studenti della Sorbona – «né la peste né il colera». Senza dire di questo provincialismo per cui noi dobbiamo sempre partecipare alle elezioni altrui. Il Pd è una vita che vince le elezioni in America, in Francia, in Germania, però non riesce mai a vincerne una in Italia. Questo è il suo problema. E allora si consola oltre confine, dove non lo conoscono».
Fino a un ventennio fa esisteva una contro-informazione più evidente, anche in Rai se vuoi. Dov’è finito quel pubblico?
«Dal punto di vista della visibilità del pensiero critico, siamo messi molto meglio di allora. All’epoca eravamo comunque prigionieri di un altro falso pensiero binario: il centro-sinistra e Berlusconi, per cui gli anti-berlusconiani dovevano votare il centrosinistra, e poi quando il centrosinistra andava al governo faceva le stesse cose di Berlusconi, solo più educatamente. Nessuna legge di Berlusconi è stata mai cancellata dal centrosinistra. Le prime leggi vergogna del caimano le ha cancellate il governo Conte I, con la spazzacorrotti, il reddito di cittadinanza e il decreto dignità contro il precariato. Un governo che tutti dipingono come governo di destra, quello M5S-Lega, è stato il governo più innovativo e anche progressista (al netto dei decreti sicurezza) che io abbia mai visto. Finché Salvini non si è fatto cooptare dal sistema, ha cominciato a difendere i Benetton, il Tav Torino-Lione e a rinnegare la sua natura anti-establishment, che era stata la sua fortuna…».
Anche la Meloni è succube del sistema?
«Bè il suo asservimento incredibile alle politiche atlantiste parla chiaro. Oggi è presentabile chiunque si metta a 90 gradi davanti a Biden, chi non lo fa è uno stronzo, indegno di governare. per questo c’è il boom dell’astensione: perché chi non si allinea al pensiero unico non si sente più rappresentato da nessuno. Però i non allineati in questi anni hanno avuto molta più scelta rispetto a quella che c’era ai tempi del falso bipolarismo Berlusconi-centrosinistra».
Eppure oggi l’informazione pubblica riflette poco o nulla quello che pensa la maggior parte del Paese…
«Sulla guerra sta esplodendo tutto, con il paradosso di una stampa e una politica al 99 per cento con l’elmetto e la mitraglietta, tutta gente che marcia seduta sul sofà, e poi i sondaggi di un Paese che sta da un’altra parte, per la pace e per il negoziato. in grande maggioranza addirittura contro l’invio delle armi in Ucraina, non solo contro il 2 per cento del Pil in spesa militare. È una ribellione clamorosa rispetto non solo al sistema dei partiti, ma anche al sistema dell’informazione, che è assolutamente speculare a quello dei partiti, quasi tutti a rimorchio della Nato, cioè degli Usa, che stanno cercando di trasformare la guerra criminale, ma regionale, di Putin per il Donbass in una guerra mondiale. E non escludo che ci riescano».
Perché dici?
«Lo stiamo vedendo. Questa è una guerra per il Donbass, la manovra su Kiev un diversivo. A furia di inviare armi – violando la Costituzione e per la prima volta nella nostra storia, senza averle mai mandate a nessun altro Paese aggredito che non fosse nostro alleato – finiremo per moltiplicare i massacri e rischiare molto di più l’escalation verso la guerra mondiale, cioè nucleare. Adesso, con la presa di Mariupol, credo che qualcuno stia cominciando a capirlo. Lo capiscono i governi più liberi, quello tedesco e quello francese. Il nostro, insieme alla Polonia, è la Bielorussia degli Stati Uniti. Come ha detto Orsini, Draghi è il Lukashenko di Biden, questo è evidente».
Questo governo serve maggiormente gli interessi Usa?
«Lo abbiamo sempre saputo: una delle ragioni per cui hanno buttato giù Conte è che proseguiva la tradizione della politica estera multilaterale di Moro, Andreotti, Craxi, Prodi. Al suo posto hanno messo l’Amerikano con la K».
A proposito di America, che fine ha fatto quella classe politica e giornalistica fieramente anti-americana, contraria cioè all’appiattimento e alla subalternità verso gli Usa?
«Nella nostra politica estera noi siamo sempre stati nel migliore dei casi multilaterali, nel peggiore dei casi doppiogiochisti. Ricordo quando per obblighi Nato Reagan dovette avvertire Craxi e Andreotti del raid a Sirte per eliminare Gheddafi, dopo avere trovato le impronte digitali del regime libico nella strage aerea di Lockerbie. L’avevano individuato, prepararono il blitz notturno, avvertirono l’Italia, anche perché era coinvolta la base di Sigonella, e Craxi e Andreotti avvertirono Gheddafi e lo fecero scappare. Questi sono gli aspetti deteriori della nostra politica estera doppiogiochista. E poi ci sono gli aspetti migliori: quelli di un Paese che dopo il 1989 ha cominciato giustamente a guardarsi intorno e a capire che i nostri mercati naturali sono quello russo e quello cinese, non certo quello americano che è saturo e concorrenziale. Questo è un ragionamento che faceva Andreotti quando diceva che la Nato avrebbe dovuto sciogliersi insieme al Patto di Varsavia, e che faceva Macron un anno fa, quando parlò della morte cerebrale della Nato».
Chi sta dando il peggio di sé nell’informazione?
«Vedo giornalisti che ritenevo dotati di cervello dire delle cose che credevo si sarebbero vergognati a dire. Sono affascinato dalla rubrica quotidiana dei grandi giornali che non riescono a non parlare di Orsini almeno 10 volte al giorno. Mi domando: ma che gli ha fatto ‘sto Orsini? È vero che ha mostrato la cartina dell’allargamento della Nato a est, ma è una cartina reperibile anche senza Orsini».
Chi ha deciso di prendere Orsini al Fatto?
«L’ho deciso io quando lo stavamo intervistando sul suo primo linciaggio e, in quel mentre, ricevette una telefonata da qualcuno del suo giornale di allora, Il Messaggero, che gli comunicava la non pubblicazione della sua rubrica settimanale che teneva da anni, perché parlava di Ucraina dicendo cose vere, quindi proibite. Mi sono detto: se un professore ha problemi a far conoscere le sue idee, il Fatto è nato apposta per dargli un rifugio, quindi nel caso in cui avesse voglia di scrivere per noi, eccoci qua. Ho fatto con lui quello che abbiamo fatto in questi anni con tutti gli altri censurati. Naturalmente parlo di persone che abbiano dei titoli per parlare, ovviamente. Non siamo una buca delle lettere. Però siamo una specie di accampamento aperto a tutti quelli che hanno qualcosa da dire e non sanno più dove dirlo».
Condividi l’analisi di Santoro sulla necessità di parlare in maniera critica anche dell’Ucraina e di Zelensky?
«È quello che scrivo tutti i giorni, sin dal primo giorno della guerra. Mi sembra il minimo sindacale del giornalismo. Mi è capitato di leggere un pezzo de Linkiesta, dove alla vigilia dell’invasione russa Zelensky era dipinto come un imbecille, un pagliaccio, un incapace: se era considerato un coglione fino al 23 febbraio, può essere mai che sia diventato Churchill dal 24? Fino a quel giorno aveva sondaggi forse anche peggiori di quelli di Biden, e meditava di non ricandidarsi nemmeno alla presidenza. Aveva fallito, in un Paese sempre più corrotto, impoverito e indebitato, e forse preferiva ritirarsi in una delle sue ville in giro per il mondo a godersi le sue cospicue sostanze ben nascoste nei paradisi fiscali (come documentato da molti giornali, anche italiani, sulla scorta dei Pandora Papers). Trovo bizzarro che le stesse cose che si dicevano prima non si possano più dire oggi. Dirle adesso non significa affermare che è stata l’Ucraina ad attaccare la Russia, vuol dire semplicemente fare informazione».
Vale lo stesso sulla polveriera del Donbass, dove vengono commesse gravi atrocità da entrambe le parti da almeno otto anni…
«Se il battaglione Azov, che dal 2014 fino all’altro giorno era il padrone di Mariupol, è stato denunciato per 8 anni da Onu, Osce e Amnesty International per torture, crimini di guerra, stragi, sevizie, oltre che per quei simpatici simboletti a forma di svastiche e croci uncinate stilizzate sulle divise, perché non ne dobbiamo parlare adesso? Sono diventati improvvisamente buoni anche i nazisti? E Orsini diventa un fascista solo perché ha detto una cosa ovvia, e cioè che per un bambino è meglio vivere sotto una dittatura che morire sotto le bombe? Mi ha ricordato Max Catalano: “È meglio sposare una donna ricca, bella e giovane che una donna brutta, povera e vecchia”. Se non puoi più dire nemmeno le ovvietà perché sennò Gramellini ti dà del filo-fascista e del paraculo, lui che sul servizio pubblico di Rai3, a spese del nostro canone, ha elogiato il comandante filonazista del battaglione Azov paragonandolo ai giusti tipo Schindler, c’è qualcosa che non funziona».
Ritieni che sugli Usa e sulla Nato esista una sorta di auto-censura preventiva?
«Noi dovremmo poter dire tutto, non siamo in guerra, almeno che si sappia. Io non sono belligerante, non sono neanche membro della Nato, non me ne frega niente della Nato. L’ho detto una sera dalla Gruber e Severgnini stava per svenire: “Ma come, Biden è la nostra leadership!”. Io non ho nessuna leadership, penso con la mia testa. “È nostro alleato!”. E chi se ne frega. A parte che alleato non vuol dire padrone, se un tuo alleato sbaglia devi essere libero di dirglielo, altrimenti non stai nella Nato, stai nel patto di Varsavia. E invece sembra di essere a Mosca, con questa bell’arietta di censura, perché ci sono cose che non puoi dire visto che in Ucraina c’è la guerra. Ma chi lo dice, dove sta scritto? Bisogna poter dire tutto, sempre. Altrimenti non si capisce perché c’è questa guerra. E soprattutto, se non capisci perché c’è questa guerra, non riesci a capire come si fa a farla finire, che poi è il vero problema che abbiamo in questo momento».
C’è chi dice che sei uno tra i migliori giornalisti italiani.
«Non esageriamo. Io ho sempre la sindrome dell’impostore. E penso che il degrado generale dell’informazione abbia creato una sopravvalutazione anche nei miei confronti. A me pare di essere abbastanza normale, non credo di fare delle cose straordinarie. Se fossi vissuto in un’altra epoca, se fossi diventato direttore all’epoca in cui i direttori erano Montanelli, Scalfari, Pintor, Feltri, Anselmi, Rinaldi, Furio Colombo, Padellaro, Scardocchia, probabilmente sarei il ventesimo, il quarantesimo».
Sarebbe utile una legge che limiti la possibilità di possedere i giornali ai soli editori puri?
«Certo. dovrebbe proibire a ogni editore di giornale di avere altri interessi se non quelli dell’editoria. A lui e ai suoi parenti stretti, altrimenti riciccia fuori il solito Paolo Berlusconi al posto di Silvio. Ci vogliono anche una legge antitrust e una legge sulle rettifiche e contro liti temerarie. Leggi che alleggeriscano un po’ la pressione sui giornalisti. Se e quando verranno fatte, a quel punto vedremo quanti sono i giornalisti liberi che fanno i servi perché sono costretti dal sistema e quanti invece sono proprio nati così».
Cosa ne pensi dell’Espresso in vendita?
«Passare da De Benedetti agli Agnelli-Elkann a Iervolino: non saprei quale dei tre editori sia peggio. È una bella lotta».
Dopo la direzione al Fatto hai in mente altro, chessò, tipo un programma tv?
«No, macché programma… per fare un programma bisogna che un segretario di partito o un presidente del Consiglio telefoni alla Rai, oppure devi comunque dare delle rassicurazioni a quegli editori impuri. Devi pagare dei pedaggi, non fa per me. E non me ne frega niente. E poi, anche se fosse tutto libero, il mio mestiere non è la televisione. Io la soffro, ci vado perché è utile far circolare le idee e la testata del Fatto, ricordare al grande pubblico che comunque una piccola oasi di libertà esiste. Ma, se dovessi scegliere fra la tv e la carta stampata, non avrei dubbi: carta stampata tutta la vita».