martedì 4 gennaio 2022

Daniela e i giovani

 

Mattarella, la retorica che distrugge i giovani
DI DANIELA RANIERI
Nella speranza di non irritare l’ufficio stampa del Quirinale e di non attirarci, su sua imbeccata irridente, gli insulti dei corazzieri stampa+social, ci permettiamo una piccola critica su un passaggio del discorso di fine anno del Presidente Mattarella. Ricordando i giovani incontrati in questo settennato (“giovani che si impegnano nel volontariato, giovani che si distinguono negli studi, giovani che amano il proprio lavoro… giovani che emergono nello sport, giovani che hanno patito a causa di condizioni difficili e che risalgono la china imboccando una strada nuova”), Mattarella li ha esortati facendo sue le parole della lettera ai giovani del professor Pietro Carmina, vittima del crollo di Ravanusa: “Infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordetela la vita, non adattatevi, impegnatevi, non rinunciate mai a perseguire le vostre mete… caricatevi sulle spalle chi non ce la fa… Vi prego: non siate mai indifferenti, non abbiate paura di rischiare per non sbagliare”. Parole poetiche sulla pagina, che calate nella realtà contengono una retorica insidiosa. L’idea che le cose per i giovani vadano male perché non si sporcano le mani e non rischiano abbastanza è uno dei capisaldi dell’ideologia ultraliberista, di più: ne è il software di funzionamento. Che l’inazione giovanile dipenda esclusivamente dalla loro volontà, e non dal fatto che un sistema sociale impedisce loro di “mordere la vita” perché è stato costruito a loro scapito, è un alibi che la classe dirigente gioca a suo favore per mantenere inalterati gli attuali rapporti di forza. Rapporti che le élite hanno disegnato negli ultimi 40 anni nella illusione (ma sarebbe meglio dire nella frode) che le forze del mercato, lasciate a sé stesse, avrebbero stabilito il peso sociale di ciascun individuo, inserito dentro un flusso di poteri che esso è perfettamente in grado di governare semplicemente “volendolo”.
È una ideologia manipolatoria e fallace costruita sulla grande impostura del “merito”, che ultimamente sposa la stucchevole retorica della “resilienza”. Che ne è dei giovani non meritevoli, che non emergono negli studi perché magari studenti-lavoratori? Che ne è di coloro che non possiedono resilienza, la qualità dei materiali di assorbire gli urti senza rompersi, perché sono esseri umani e non pezzi di PVC?
Se i giovani sono impietriti, respinti, impotenti, è perché la scuola è stata distrutta da anni di riforme aziendaliste; perché le condizioni di partenza non sono affatto uguali per tutti e l’assetto sociale cristallizza le disuguaglianze invece di ridurle. La retorica della resilienza presuppone che i giovani falliscono se non sono abbastanza assertivi, competitivi, performanti. Sono loro che non sanno risalire la china, perché il sistema sarebbe perfettamente in grado di sostenerli. In questo modo ogni disuguaglianza è stornata e messa in capo al carattere e al temperamento di ciascuno. Eppure la “docilità” dei giovani è andata bene al potere, quando sono stati costretti ad accettare la cosiddetta alternanza scuola-lavoro (che consiste nel farli lavorare gratis negli autogrill o simili, per proiettarli meglio nello sfruttamento futuro) o il Jobs act, con cui è stato distrutto lo Statuto dei Lavoratori.
Il loro volontariato è stato usato dal potere per stabilire che il sacrificio dei giovani non andasse mai pagato, idea che è stata esportata agli stage e ai tirocini, spesso indistinguibili dal lavoro dipendente, e infine anche al lavoro parcellizzato.
Che il merito non funzioni lo prova un dato: quanti laureati ci sono tra runner, corrieri, etc.? E i padroni, quelli che ce l’hanno fatta, si sono affermati per via di un superiore talento, o, invece, hanno potuto “imboccare una strada nuova” contando su capitali di partenza, fortuna dinastica, capacità di rischio? Intanto aumentano i lavoratori poveri, cioè persone che pur lavorando non hanno i mezzi per vivere dignitosamente; e dovrebbero anche amare il loro lavoro? All’elogio del mettersi in gioco e della voglia di fare segue sempre l’esplicita o implicita colpevolizzazione di chi “sta sul divano”, dei “bamboccioni”. È la retorica dello spaccarsi la schiena, secondo Renzi, che il reddito di cittadinanza lo chiama “di criminalità”, mentre gli altri danno per scontato che lo prendano i lavativi, i vili che “non rischiano”. L’esortazione di Mattarella ai giovani avrebbe dovuto essere accompagnata da un appello reciso ai “datori di lavoro” a pagarli meglio e ai politici affinché non facciano riforme anticostituzionali e stabiliscano per legge un salario minimo; altrimenti il vuoto delle parole rimbalza contro una struttura micidiale. Infine, non sono i giovani a doversi caricare sulle spalle chi non ce la fa: è lo Stato che deve farsi carico dei più deboli. I performanti si tutelano da soli; gli sfiancati, i poco entusiasti, i non resilienti che non mordono la vita, chi li tutela?

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