sabato 8 febbraio 2020

Il solito


Saremo nazionalpopolari, Sanremo leggiadri, ma il Festival attizza in me uno strano sentiment, quasi come andare ad una fiera paesana alla ricerca di un componente indispensabile per il lancio di un missile. Quello che avverto è indirizzabile al grande tema: di quanto cioè conti la visibilità e il soldo. È vero che dai tempi di Michelangelo, avido come pochi, il capolavoro, l’indicibile, l’atto artistico afflosci la propria unicità dietro alla bramosia del denaro. Insomma parli di opere e si moltiplicano le bancarelle. La fiera, si la fiera discografica, i ruttologi intenti ed attenti alle verticali di Krug salmonate, lo sconforto che pare assalire chi vorrebbe, pretenderebbe, ascoltare musica, auscultando se stesso. 
Sanremo è paesano, specchio, parassitismo, leggerezza, l’imbolsire dei gusti soavi quaggiù canuti. Tutto è tritato, liofilizzato per la spartizione a venire. 
Dai non pensiamoci più; non facciamoci seri. Sono solo canzonette diceva il cantastorie. Intorno però, al solito, squali affamati tentano di monetizzare, sbiadendo, candeggizzando ogni cosa. Non ci curiam di loro.

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