sabato 22/02/2020
La sindrome di Hybris affligge il leader
di Daniela Ranieri
Leggete questo ritratto: propensione narcisistica a vedere il mondo come un’arena nella quale esercitare potere e ricercare la gloria personale; zelo messianico e convinzione di essere chiamati a grandi azioni; istrionismo; disprezzo degli avversari e di chi lavora secondo prassi consolidate; eccessiva autostima sconfinante col senso di onnipotenza; perdita del senso della realtà e isolamento; tendenza a parlare di sé in terza persona; irrequietezza, incoscienza, impulsività. A chi vi fa pensare?
Sono i sintomi della Sindrome di Hybris, definita dal medico e politico inglese David Owen e dallo psichiatra Jonathan Davidson sulla rivista Brain nel 2009, che colpisce maggiormente i politici (ne soffrivano Neville Chamberlain, Margaret Thatcher, George Bush e Tony Blair). Non siamo psichiatri, motivo per cui non ci azzardiamo a fare diagnosi, ma è evidente che nel caso in questione la dimensione psicologica, ma diremmo persino ghiandolare, travalica quella politica (del resto non serve essere Michelangelo per fare un identikit in commissariato). Dando per scontato che il soggetto non agisce sulla base di secondi fini (aumentare il proprio potere per farsi leggi ad personam, per esempio) e che non abbia bisogno dello stipendio da senatore (come s’è premurato di informarci), allora deve esserci un impulso interiore che lo sospinge verso il centro della scena politica, da cui aveva giurato di ritirarsi e dove del resto non mancherebbe a nessuno. Potrebbe essere proprio la hybris, per gli antichi greci la tracotanza che spinge a sfidare gli dèi, la smisurata ambizione già accertata ai tempi in cui gli riuscì di mettersi a capo del governo avendo vinto solo le elezioni come sindaco e le primarie del Pd, situazione legittima e prevista dalla Costituzione attuale, che vuole ancora modificare (ma ora la priorità è eleggere direttamente un fantomatico “sindaco d’Italia”, non più riempire il Senato di sindaci e consiglieri regionali).
Il soggetto non ha alcuna visione politica: è sé stesso la sua visione politica. Ha portato nella politica italiana lo storytelling, un dispositivo mutuato dal marketing con cui si crea consenso offrendo una versione persuasiva, seduttiva e falsa della realtà; lui era lo sbloccatore, quello che non si faceva fermare dalle minoranze e dai “ricatti dei partitini”.
Qualcuno parla nel suo caso di delirio narcisistico; ma il narcisismo non è, come si crede comunemente, l’adorazione di sé, bensì un dispositivo per il quale “l’amore rifiutato torna a sé sotto forma di odio” (Christopher Lasch). Egli si sente rifiutato dal popolo di cui voleva essere un caposcout illuminato, una specie di condottiero-principe rinascimentale (“Non siamo stati capiti”, ripeteva all’indomani del referendum perso). Ha fondato un partito personale insieme ai soliti 4 o 5 adepti, convinto di avere un consenso stratosferico da sbattere in faccia al partito che non ha apprezzato la sua reggenza salvifica. Era una proiezione egotica, la stessa che gli impedisce oggi di guardare in faccia la realtà del 4% a cui è dato. I sondaggi sulla fiducia nei leader lo danno sotto a Salvini, Meloni, Conte, Zingaretti, Di Maio, Santori (!), Berlusconi e persino Calenda e Toti. Senza nessuna dissonanza cognitiva, trasforma quel 4% e una truppa di senatori fedeli in un’arma di ricatto. Non gli importa niente della prescrizione (stanti le note vicende famigliari). Gli importa di finire nei trend topic del giorno, incutere timore per le sue mosse imprevedibili, tenere sotto scacco chi è più potente di lui con rivendicazioni demenziali o assurde.
Gli esperti lo chiamano “delirio scacchistico” (descritto da Reuben Fine ne La psicologia del giocatore di scacchi): come gli scacchi “servono come strumenti di gratificazione alle fantasie di onnipotenza”, così la politica serve ad alcuni come sfogo passionale e mezzo per la gratificazione personale.
In Tv ha di nuovo attribuito l’ostruzionismo di cui si sente oggetto al suo “caratteraccio”. Anche questa è una proiezione egotica, oltre che un vezzo antifrastico. Non gli è ancora chiaro che nel suo caso il brutto carattere si somma all’inadeguatezza politica e alla provata inaffidabilità. Ai tempi gloriosi propugnava la disintermediazione: il rapporto tra il leader e il popolo non doveva conoscere attriti ma solo progressivi innamoramenti. Da qui le reprimende contro gli intellettuali e i professoroni, capaci di “defascinare” il leader con l’esercizio del logos. Ora che non ha più nessun popolo se non i fan di Twitter, va avanti a colpi di querele contro chi mette in dubbio il suo equilibrio (dunque non la sua buona fede) e si gioca la residua reputazione bruciandosi sull’altare dell’Ego, spaccando tutto quel che gli riesce. È “l’impulso di Erostrato”, quell’Erostrato di Efeso che appiccò il fuoco al tempio di Artemide solo per il desiderio di passare alla storia.
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