sabato 15 settembre 2018

Altra angolazione


Le dimissioni di Nava da presidente Consob viste da un'altra angolazione, quella di Bonanni di Repubblica, il quale si dimentica due cose: il Presidente della Repubblica, silente per antonomasia, non ha detto nulla al proposito, un silenzio assenso. E il mettersi in aspettativa da Bruxelles avrebbe ridotto lo stipendio di Nava di almeno 6mila euro mensili.

L’INDIPENDENZA È IL PECCATO

Andrea Bonanni

Le dimissioni a cui Lega e Movimento Cinque Stelle hanno costretto il presidente della Consob, Mario Nava, segnano un gravissimo salto di qualità nella logica illiberale del populismo al potere. Finora la maggioranza governativa giallo- verde si era dimostrata particolarmente avida nella spartizione dello spoil system, lasciando poco o nulla alle opposizioni. Ma un conto è occupare ingordamente poltrone che competono al potere politico. Ben più grave è costringere alle dimissioni il presidente di una Authority super partes, nominata dal presidente della Repubblica e che deve, per definizione, essere indipendente dalla politica. Più grave ancora se, come nel caso di Nava, lo si fa per un manifesto dissenso ideologico verso la persona e quello che rappresenta.
Quando Di Maio dichiara trionfante «vi prometto che ora nomineremo un servitore dello Stato e non della finanza internazionale» compie un triplo sfregio ai principi democratici. Primo: ignora che la nomina del successore di Nava spetta al presidente della Repubblica e non al governo. Secondo, in puro stile leninista, si arroga il diritto di interpretare «lo Stato » , che invece in questo caso è rappresentato dall’indipendenza dell’Authority che lui ha appena decapitato. Terzo, accusa una autorità indipendente di essere al servizio « della finanza internazionale » solo perché il suo presidente è un funzionario della Commissione Ue, che viene quindi considerata un’entità estranea e ostile quando è un naturale complemento dell’amministrazione italiana.
Questo è un punto particolarmente preoccupante della vicenda Nava. Formalmente, il M5S ha sollevato la questione della sua compatibilità nell’incarico perché l’alto dirigente è stato semplicemente distaccato dalla Commissione europea e non si è dimesso dall’organico dell’esecutivo comunitario. La motivazione è chiaramente pretestuosa, come dimostrano le recenti dichiarazioni di Di Maio intrise di ostilità politica. Inoltre lo stesso Nava ha già ricordato che la correttezza della sua nomina era stata vidimata, oltre che dalla Commissione europea, dalla presidenza del Consiglio, dalla presidenza della Repubblica e dalla Corte dei Conti. Ma la battaglia formale ingaggiata dai populisti che occupano le commissioni parlamentari delle due Camere dimostra che, ai loro occhi, la Commissione Ue, e dunque l’Europa, sono potenziali nemici.
Solo ipotizzando un prossimo scontro frontale e generalizzato tra Bruxelles e Roma, infatti, si può immaginare che un funzionario della Commissione alla testa di una Authority italiana possa trovarsi in una situazione di conflitto di interessi. E ancora, il conflitto nascerebbe soltanto nella presunzione che l’interesse italiano sia rappresentato solo ed esclusivamente dalla posizione del governo, e non da quella della Commissione e dell’Europa. Per esempio nel caso, del tutto ipotetico, che questo governo imboccasse senza una consultazione popolare una strada che conducesse l’Italia ad uscire dall’euro violando i Trattati europei, chi rappresenterebbe meglio gli interessi degli italiani? Roma o Bruxelles?
Mario Nava è un alto dirigente della Commissione europea che si è occupato per gran parte della sua carriera proprio di regolamentazione dei servizi finanziari. La sua competenza è fuori discussione. Il suo obiettivo, dichiarato al momento della nomina, è quello di proteggere il mercato, gli investitori e i risparmiatori dalle troppe pressioni della politica nazionale. Ma proprio questo, evidentemente, è ciò che dà fastidio alla Lega e al M5S che, in un’ottica di rinazionalizzazione dell’economia per sottometterla alla politica, non potevano vedere di buon occhio un difensore della libertà di mercato in un posto che avrebbe potuto ostacolare le loro ambizioni.
Costringendo Nava alle dimissioni perché, come ha spiegato lui stesso, «il non gradimento politico limita l’azione della Consob in quanto la isola e non permette il raggiungimento degli obiettivi » , il governo italiano imbocca la strada antidemocratica già presa da quello polacco e da quello ungherese. Il populismo non può tollerare che esistano, nella compagine dello Stato liberale, altri poteri indipendenti dal potere politico, che lo controllano e che lo bilanciano. Che si tratti della magistratura, delle università, della libera stampa, o anche delle Authorities di controllo dell’economia, questi poteri vengono sottomessi, o combattuti. A Varsavia, a Budapest e adesso anche a Roma. Le dichiarazioni di Salvini sui giudici e di Di Maio sulla stampa sono lì a indicare una strada di cui la rimozione di Nava è solo il primo miglio.

La Ue, per ora, si è limitata a ricordare polemicamente l’importanza che le Authorities siano effettivamente indipendenti dal potere politico. Perché si arrivi anche per l’Italia a impugnare l’articolo 7 contestando la violazione di diritti fondamentali, come avvenuto per Polonia e Ungheria, ancora ce ne vuole. Ma, dopo quelli dell’Onu per il trattamento dei migranti, il governo italiano ha adesso puntati addosso anche gli occhi dell’Unione europea. E sono occhi sempre meno benevoli.

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