giovedì 16 ottobre 2025

Haug!




Wilmaaaa!

 

Quando 40 anni fa eravamo i Flintstones e non lo sapevamo…




Costernato

 



Scanzi evidenzia

 


Post di Andrea Scanzi 

Sono giorni che ascolto insistentemente Fiume Sand Creek, tratto dal disco dell’indiano, e La domenica delle salme. Il primo fa pensare al genocidio, il secondo alla morte mentale e morale dell’Italia. Ci aggiungi Sidun e hai conferma che De André aveva visto tutto.
Leggo ora l’ultimo intervento di Ricciardi in parlamento (sempre rigorosamente minuscolo).
“I palestinesi saranno i pellerossa del XXI secolo. Non avranno un loro Stato ma vivranno nelle riserve e saranno forza lavoro per i casinò di Gaza. Questo lo può evitare solo la politica che si è mobilitata contro quel massacro.
“Il piano Trump non è di pace perché li non c’era una guerra, c’era una aggressione a una popolazione inerme. È un massacro compiuto con la complicità degli Usa prima di Biden e poi di Trump, perché qui nessuno è innocente.
Chi esalta questo piano non può dimenticare i 700 mila coloni che occupano la Cisgiordania protetti dal governo israeliano”.
Infine citando uno striscione dedicato alle vittime del nazifascismo che è nella frazione di Forno, sulle Apuane, da cui Ricciardi viene, il deputato ha detto: “Su quello striscione c’è scritto ‘Avete seppellito tutti ma non sapevate che eravamo semi’. Ora sta a noi che quei semi non muoiano e crescano nuovamente. Questa è davvero la domenica delle salme con i segni di una pace terrificante”.
Ricciardi mi ha rubato l’intervento.
Scherzi a parte: (purtroppo) sono parole perfette.

Così è!

 



Natangelo

 



Libro saggio

 

La guerra è merda, dolore e affari
DI PINO CORRIAS
“Ogni cannone fabbricato, ogni nave da guerra, ogni razzo, equivale a un furto ai danni di chi ha fame e non viene nutrito, di chi ha freddo e non viene vestito”
Per quarant’anni, Jacques Charmelot – francese nell’altro secolo, romano d’adozione in questo – si è portato la vita in spalla dentro a tutte le guerre del mondo per raccontarle con l’inchiostro del reporter.
Ha scoperto due cose nel suo viaggio al termine della nostra notte, passando dall’Africa ai Balcani, dall’Afghanistan al Medio Oriente: che la guerra è una sola, sempre la stessa. Cataste di morte, spavento, rovina, pianto. E che è sempre identico anche il suo odore nauseabondo dei corpi vivi e di quelli macellati nelle trincee, nelle buche delle esplosioni, sui campi di battaglia, e lungo le baracche e le latrine nelle retrovie infestate dalle malattie dei corpi e quelle dell’anima. Ed è nauseante pure il cinismo con cui le guerre vengono maneggiate dalle élite degli eserciti, dai titolari del potere, delle ideologie, dei fatturati, dei media, mettendo in campo un dio e una bandiera contro il dio e la bandiera di un nemico, la menzogna di un torto o quella di una vendetta, ma sempre per spartirsi, alla fine del massacro, il potere della vittoria e gli affari della ricostruzione, perpetuando il diritto di uccidersi fino all’ultimo uomo sul campo, all’ultimo ideale da imbracciare.
La propaganda racconta le marce colorate delle belle uniformi in fila, le fanfare, il patriottismo, le vittorie. Ma non è l’eroismo la trama di cui è fatta la guerra, ma il brulicare dei parassiti sui combattenti e sui civili in fuga, la nausea, il vomito, la diarrea che colpiscono i soldati, le spaventose infezioni che li sfigurano. E poi l’odore.
La rivelazione, per Jacques Charmelot che è stato corrispondente di guerra di France Press, l’agenzia che ancora oggi ha sedi e redazioni in 150 Paesi nel mondo, è iniziata tanto tempo fa, nel 1983, un ospedale senza luce di notte, pieno di spazzatura e topi e lamenti e singhiozzi umani, costruito nel cuore nero dell’Africa, in Ciad, proprio sopra il proprio specchio capovolto: la fossa che raccoglie il sangue e la merda dei feriti, gli scarti dei corpi, i liquami. L’odore è densità d’aria che brucia gli occhi e la gola. Ma è anche il lampo di una scoperta che si accende, quella che i vivi e i morti, dentro a una guerra, galleggiano insieme su un mare di escrementi, compresi quelli della retorica, degli inganni, delle promesse. L’ospedale, gli spiega uno dei chirurghi militari, nella pausa tra un’amputazione e l’altra, l’hanno costruito in fretta e malamente, non c’è stato il tempo di separarlo dalla sua discarica. Dunque l’uno sull’altra. “Questa immagine non mi ha mai più abbandonato”, scrive Charmelot in questo libro pieno di verità, finalmente, a cominciare dal titolo La guerra è merda, che arriva nel momento più utile (e drammatico) per fare un po’ di chiarezza dentro al buio in cui stiamo precipitando, 52 guerre in corso nel pianeta, il riamo di tutti contro tutti, l’incubo nucleare non più così lontano a minacciare il mondo, le macerie di Gaza a soffocarci con le sue fosse comuni, le macerie dell’Ucraina che crollano di notte in notte, i fuochi che a ondate divorano il Medio Oriente, i suoi forzieri, i suoi arsenali allineanti e pronti a divorare l’ultima tregua che è sempre la penultima. Specialmente oggi nel pieno disordine, anche mentale, della nuova era intitolata a Donald Trump e alla sua America marziale che assedia lo Stato di diritto e in fin dei conti la democrazia residua d’Occidente, con l’invenzione suprematista del nemico interno, l’alibi ossessivo della sicurezza nazionale, la clamorosa crescita delle spese militari, che gli Stati Uniti hanno raddoppiato dai 531 miliardi di dollari del 2000 ai 1.060 miliardi di oggi.
Una corsa al riarmo che è diventata infezione virale anche in Europa, enfatizzando gli allarmi, inventandoli se occorre, per moltiplicare gli investimenti di una difesa che mai come adesso si prepara alla guerra. Le armi, annota Charmelot, “non si moltiplicano solo nei discorsi pubblici, anche nel cemento e nell’acciaio”. Nel solo comparto delle munizioni, la produzione annuale europea è passata in tre anni da 300 mila a 2 milioni di pezzi. E le aree occupate dalle fabbriche di armi – misurate confrontando migliaia di foto satellitari – sono triplicate nello stesso arco di tempo.
Il libro è storia di conflitti e insieme biografia dell’autore. Dopo l’Africa, nel 1985, gli è toccata la sede di Teheran, negli anni finali di Khomeini ma non del khomeinismo, in tempo per raccontare i massacri della guerra con l’Iraq di Saddam Hussein, le ondate dei giovani volontari mandati lungo le sponde dello Shatt el-Arab a sminare i campi coi loro corpi per proteggere il successivo passaggio dei carri armati. Ha incontrato i volontari della rivoluzione islamica, giovani soldati sfigurati, amputati, ciechi, che ancora non avevano perso la fede nella santa guerra. E solo vent’anni dopo gli è toccato registrare la disillusione dei veterani, come in ogni altro teatro di guerra che ha visitato: Beirut, Kabul, Baghdad. Ma specialmente nell’America della Never Ending War dove i veterani sono addirittura 18 milioni, reduci dai Balcani, dalle guerre del Golfo, dalla Libia, dall’Afghanistan, dalla Somalia. Uomini e donne che al 96 per cento – secondo i report medici – soffrono della sindrome da stress post traumatico, depressione, afasia, incubi. Senza contare il prezzo imposto a mogli, mariti, figli, famiglie intere, imprigionate anche loro, come danni collaterali. Perché la guerra è una malattia che non passa. È una droga che dà assuefazione. Ti riempie la vita quando sei al fronte. Te la svuota quando torni ai silenzi di quella civile. Al punto che ti serve altra droga o alcol o psicofarmaci per renderla abitabile.
La guerra è la macchina della follia umana. L’eroismo è l’alibi della crudeltà. L’onore una menzogna. Il resto lo ha detto il vecchio presidente statunitense Dwight D. Eisenhower: “Ogni cannone fabbricato, ogni nave da guerra, ogni razzo, significa un furto ai danni di chi ha fame e non viene nutrito, di chi ha freddo e non viene vestito”. Era il 1953, in piena Guerra fredda. “Questa è l’unica verità plausibile – scrive Charmelot – Farcela dimenticare è il lavoro dei guerrafondai. Ricordarlo è il nostro”.

Paese bananiera

 

Parisi è sempre Parisi
DI MARCO TRAVAGLIO
Ingenuamente pensavamo che Orazio Schillaci fosse uno dei pochi ministri presentabili dell’Armata Brancameloni. Essendo docente di Medicina nucleare e non avendo partecipato alla fiera della cazzata col resto della truppa, pareva il curriculum giusto per la Salute. Poi s’è scoperto che ha nominato Giorgio Parisi, fisico e premio Nobel, a presidente della Commissione Antidoping scambiandolo per Attilio Parisi, rettore al Foro Italico e medico sportivo. Ma questo è il meno, perché l’errore è degli uffici che hanno inviato la lettera d’incarico al Parisi sbagliato (ed è una fortuna che non l’abbiano recapitata a Heather, o al prodiano Arturo, o al terzino viola Fabiano, o ai dj Marco e Giampaolo, o all’ex candidato sindaco milanese Stefano, o all’ex capo della Polizia Vincenzo, peraltro defunto). Il peggio è la toppa peggiore del buco escogitata dal ministro per tentare di uscirne. Avrebbe potuto, che so, incolpare la buonanima di Totò Schillaci. Invece ha dichiarato: “Non è mai sbagliato coinvolgere un premio Nobel”. Quindi l’ha fatto apposta. Ma non ha spiegato perché non ha coinvolto Carlo Rubbia, anche lui Nobel per la Fisica, ma pure senatore a vita, ergo più addentro alla politica. A meno che Parisi (Giorgio) sia stato preferito perché, essendo uno studioso del caos, poteva trovarsi più a suo agio in quel circo Barnum. Dov’è stato appena partorito il decreto che stipa nella stessa festa nazionale san Francesco e santa Caterina, in condominio. E dove s’incontrano altri cognomi famosi: Zangrillo (non omonimo, ma fratello del dottore di B.), Arianna Meloni (non omonima, ma sorella di Giorgia), Lollobrigida (omonimo di Gina ed ex marito di Arianna), la Rauti (figlia del più noto Pino), la Bernini (omonima dell’artista), Giuli (omonimo di una porzione del predecessore Sangiuliano, detratti il San e l’ano) e persino Filini (dottore in Scienze politiche e non ragioniere, ma sempre fantozziano).
E meno male che questi sono i “professionisti della politica”, mica come gli “scappati di casa” 5Stelle, da tutti dipinti come bifolchi gaffeur malgrado il record di laureati nei gruppi parlamentari. Ricordate la “scappata di casa” Alessandra Todde che un sinedrio golpista dichiarò decaduta da presidente della Sardegna senza averne il potere, tra i frizzi e i lazzi dei soliti lustrascarpe? Nicola Porro scrisse che, persi “i voti degli idioti in servizio permanente”, “la setta di cartapesta” M5S era “estinta” e “dissolta come le scie chimiche” per l’“inettitudine dell’intera truppa parlamentare”. Ieri la Corte costituzionale ha stabilito che non era illegittima l’elezione della Todde, ma la sua decadenza. E pazienza, dài: gli scappati di casa son tornati a casa. I lustrascarpe, invece, restano a piede libero. E a lingua sciolta.

L'Amaca

 

Prima del generale venne il Salvini
di Michele Serra
È semplicemente surreale leggere che il capogruppo della Lega, Molinari, commentando il tonfo toscano, definisce “post-ideologico” il suo partito, che “ha sempre preso voti da destra, da sinistra e dal centro”. Dove ha abitato negli ultimi anni Molinari, a Timbouctou? Di cosa si è occupato, di import-export di gomme da camion?
Ma non lo sa che la Lega, da quando è anche nominalmente proprietà del Salvini, è diventata da tempo, per parole e atti, l’estrema destra dello schieramento politico nazionale (Meloni, al confronto del Salvini, sembra Chirac) e in Europa fa parte del gruppo parlamentare sovranista? Un partito trascinato dal suo leader con Le Pen, con Orbán, con Farage, con Putin, con chiunque abbia in odio la democrazia liberale, con quale faccia può essere definito “post-ideologico” dal suo capogruppo a Roma? Post-ideologica, semmai, è la sinistra, che non sa più che pesci pigliare. Ma il Salvini?
Si intuisce che Molinari non usi frequentare i naziskin e i leader delle curve ultras, ma non ha gli occhi per vedere e le orecchie per sentire? Vannacci non ha portato niente di nuovo o di diverso nella Lega del Salvini, al massimo un poco di folklore fascista in più.
Già il Salvini era riuscito nell’impresa, quasi circense, di scavalcare a destra i concessionari naturali del neofascismo: era necessario l’arrivo del generalissimo Vannacci (la cui somiglianza con Alberto Sordi comunque rassicura) perché Molinari e i leghisti “moderati” si accorgessero che la Decima Mas ce l’avevano già in casa? Va bene che la politica è l’arte della finzione. Ma così è davvero troppo.

mercoledì 15 ottobre 2025

E andiamo!

 



Tajanite

 





Robecchi

 

Impero. Palestina Real Estate, la pax mafiosa che piace a tutti gli azionisti
DI ALESSANDRO ROBECCHI
In attesa di capire se e come funzionerà la “pace” trumpiana in Medio Oriente, urge qualche notazione a margine alla “giornata storica” di lunedì, cioè il giorno in cui l’Imperatore è volato nel suo avamposto mediorientale per premiare l’alleato che ha vinto, grazie ai suoi soldi e alle sue armi, come ha fatto puntualmente notare. Una cerimonia, anzi due: il discorso alla Knesset e la passerella di Sharm, che riportano ai fasti colonialisti ottocenteschi, con lunghi strascichi nel Novecento. Al momento, Gaza, distrutta e smembrata, fatta a pezzi e annichilita con il mondo che ha guardato indifferente lo spettacolo del genocidio, è un piccolo territorio sul modello dei Bantustan sudafricani (in attesa di rimpicciolirsi ancora e somigliare alle riserve dei nativi americani). Era grande come mezza Roma, ora l’invasore israeliano controlla militarmente il 58 per cento del territorio, che rimane circondato e sorvegliato a vista: il più grande campo di concentramento del mondo rimane il più grande campo di concentramento del mondo, anche se è esteso la metà, lo governeranno le potenze coloniali occidentali che ci faranno molti soldi, i suoi abitanti non avranno né diritti né sovranità. I palestinesi (citati solo en passant da Trump in un’ora di discorso, come una seccatura) potranno ambire a fare i camerieri nella loro terra, magari nei casinò che sogna Donald, dove il croupier sarà Tony Blair e il jackpot sarà l’immenso giacimento di gas al largo di Gaza: bottino di guerra. Nemmeno una parola sulla Cisgiordania, che sarà il prossimo boccone.
L’Impero è l’Impero, d’accordo, si sapeva, eppure c’è qualcosa di inedito, e di antichissimo, nel nuovo imperialismo trumpiano, un’impronta personalistica che rende ancor più grottesca e fuori tempo la vecchia voracità coloniale. Eravamo abituati a conquiste più soft, travestite da accordi sovranazionali, da lunghe discussioni bi e trilaterali (sempre tra vincitori, ovvio, ma…). Ora no: arriva l’Imperatore, detta la sua legge e quello si fa.
Il discorso alla Knesset ha chiarito anche ai ciechi la nuova modalità dell’ordine mondiale. Trump è andato dai vincitori a dire che hanno vinto, bravi, con i suoi soldi e le sue armi (ha anche detto che le hanno “usate bene”, cioè sterminando la popolazione civile), ma non solo. È andato nel Parlamento di uno Stato sovrano a dettare la linea politica: il leader dell’opposizione è “una brava persona”, il capo del governo è una specie di santo condottiero e il presidente deve dargli la grazia (ci sarebbe il dettaglio che la grazia si dà ai condannati, non agli imputati). Traduco: l’Imperatore chiede che i processi per corruzione a Netanyahu vengano serenamente dimenticati. Non servono dietrologie e analisi, il virgolettato è lampante. Dice Trump rivolto a Netanyahu: “Lei è un uomo molto popolare, e sa perché? Perché sa vincere”. Ecco fatto, faccenda chiusa, l’Imperatore ha fatto notare che i 66 miliardi in armi donati alla causa gli danno pieno diritto di decidere sulla politica interna di Israele, i cui rappresentanti (tutti tranne due, subito espulsi) hanno applaudito freneticamente la cessione di sovranità e baciato la pantofola, grati per la vittoria che lui ha garantito. L’intendenza segue. Più o meno patetici, altri sudditi si aggregano al carro, sperando in qualche affare (dice Tajani che siamo bravi a ricostruire, i nostri terremoti lo smentirebbero), e la questione palestinese diventa una faccenda immobiliare, economica, energetica: una pax mafiosa, che piace a tutti.

Hamas e altro

 

Senza se e senza Hamas
DI MARCO TRAVAGLIO
Il salto sul carro del vincitore, da sport nazionale, è diventato una gag. Per due anni, nei talk e sui giornali, una banda di squilibrati assatanati negava il massacro dei gazawi, o lo giustificava col 7 ottobre, incitava Netanyahu a finire il lavoro fino al definitivo annientamento di Hamas e, se provavi a spiegare che il terrorismo si combatte con l’intelligence e non radendo al suolo tutto e tutti, eri un “antisemita tagliagole e tagliateste”. Ora che Trump ha fatto ciò che noi – anime belle pacifinte e complici di Hamas – speravamo fin dall’8 ottobre 2023, cioè ha costretto Netanyahu a fermare la mattanza, a rinunciare ad annessioni coloniali e guerre contro tutti i vicini, a firmare un accordo con Hamas (così sconfitta da venir promossa a polizia di Gaza al posto dell’Idf), a liberare 1900 detenuti (fra cui tagliagole e tagliateste passati e/o futuri) in cambio di 20 ostaggi e a disertare la firma a Sharm perché Erdogan non lo voleva, ci aspettavamo che la masnada tenesse il punto in lutto stretto. Invece, oplà: finge che gli sconfitti Netanyahu&C., bocciati su tutta la linea, abbiano vinto ed esalta la pace di Trump dopo aver detto che avrebbe portato più guerre. Questa voluttà sadomaso di esultare per non averne azzeccata una è ancor più comica della mestizia degli orfani di guerra, che per 24 mesi hanno maledetto gli americani perché non fermavano Netanyahu e manifestato in piazza affinché lo facesse, e ora si disperano perché l’ha fatto l’americano sbagliato. Così chi aveva ragione lascia il campo libero a chi ha le ha sbagliate tutte.
“Trump libera tutti”, titola Libero di Sechi, quello che “la guerra finirà quando lo decide Israele”, “Bibi deve finire il lavoro fino all’annientamento di Hamas” e pure degli ayatollah col famoso “regime change a Teheran” (ciao, core). Sallusti sul Giornale tripudia per “Il miracolo di Trump”, che ha fatto l’opposto di quel che diceva lui: “Israele può vincere la guerra ad Hamas e continuerà fino a raggiungere l’obiettivo” e “l’Occidente non tentenni”, come “per piegare il Terzo Reich”. Poi c’è l’angolo del buonumore, cioè il Foglio. Il rag. Cerasa titolava “In bocca a Trump ‘pace’ è diventata una parola sinistra”, pubblicava “Appunti sul Vietnam di Trump” e la sua ”Arte delle paci-truffa”, additandolo come colluso a Khamenei: “negozia alla cieca con Russia e Iran” con l’“impreparato Witkoff”, “imbroglia Israele”, “salva il nucleare iraniano”, riserva “il trattamento Zelensky a Netanyahu” e fa “annunci pericolosi su Teheran ed Erdogan”. E Ferrara sputava su “Trump e la banalità dello schifo”. E ora? Tre pagine col discorso di Trump e il sobrio titolo “Vittoria di Israele. Vittoria della pace”. Ma soprattutto del Foglio. Prossima scena: Ferrara che si paracaduta su Gaza per conferire ad Hamas il premio Poliziotto dell’Anno.

L'Amaca

 

Ai margini della fotografia
DI MICHELE SERRA
A sentire i tigì Rai di questi giorni, sembra che l'accordo su Gaza l'abbia fatto Giorgia Meloni: colei che nelle foto di gruppo, per altro affollatissime (mi dicono che c'era anche il presidente del Paraguay) spicca ai margini grazie al completo chiaro.
Non basta il provincialismo (con la politica estera quasi sempre piegata alle nostre faccende di bottega) a spiegare una
così goffa rappresentazione dell'accaduto.
È probabile che ci credano proprio: la coorte di funzionari, portaborse, giornalisti che il governo ha incaricato di addomesticare il servizio pubblico non agisce per opportunismo, ma per militanza.
Se avete in mente quel manipolo di deputatini di Fratelli d'Italia e
della Lega che appare a rotazione nei tigì per dire, in dieci secondi, "per merito del nostro governo oggi c'è un bel sole", potete capire che non c'è cinismo o malafede che possa spingere a mettersi in ridicolo fino a quel punto. Il propagandista è, a suo modo, un militante coraggioso: intuisce che nelle case, quando appare, risuona il pernacchio, ma si sacrifica per la causa.
Un direttore o vicedirettore di telegiornale anche di medio o
mediocre livello, rileggendo la scaletta, non può non rendersi
conto che l'Italia, con quanto sta accadendo sulla sponda
orientale del Mediterraneo, c'entra così così. O addirittura:
c'entra pochino. E di conseguenza non converrebbe
strombazzare più del dovuto un ruolo marginale, spacciandolo
per nuova leadership mondiale (forse, addirittura, più del
Paraguay). Ma se uno, invece, è un militante politico, per il
quale la Rai non è un servizio pubblico, ma un campo da
sminare dai nemici e da consacrare al culto della Capa, non si
accorgerà di nulla. La piaggeria gli sembrerà un valoroso
servizio alla Patria.

martedì 14 ottobre 2025

Che bontà!

 

La splendida pace… lo straordinario effluvio di bontà dei sionisti!




Gran bel video!

 


Essi vivono, sono tra noi!

 



Sia chiaro!

 



Anonimamente

 

Quando devi cambiare nome sulla scheda perché altrimenti… e comunque dire che “casa riformista è la vera novità della politica italiana”… ci fosse un Nobel per la frescaccia sarebbe loro!



Dal Futuro

 



Riepilogo

 



Intanto, al solito...

 

Meloniadi 2026: lo sport è contorno di affari e cemento
DI GIUSEPPE PIETROBELLI
Scandalose, insostenibili, costosissime Olimpiadi. Quando il 6 febbraio 2026 verrà acceso il braciere nello stadio di San Siro a Milano, il sipario non si alzerà solo su un evento sportivo planetario, ma anche su uno spettacolo molto poco edificante di spese folli e sprechi, promesse di rispetto ambientale non mantenute, opere pubbliche e colate di cemento, menzogne, affari e ideologia. È il Circo Bianco del Coni e del Cio che controllano lo sport e i suoi interessi, è un grande appuntamento diventato simbolo dell’orgoglio nazionale meloniano che ci costerà miliardi, è l’allegra giostra delle opere pubbliche, con una ressa di ministri, sindaci e governatori che vi sono saliti sopra e intendono restarci fino allo stordimento. È un’abbuffata collettiva frutto della sbornia olimpica, occasione irripetibile con il bottino assicurato, il che non significa che i fatti siano soltanto di rilievo penale, come si sta scoprendo nella Milano dei grattacieli. In molti casi basta la politica.
Con una incredibile e vergognosa operazione-fotocopia della storia, a distanza di cento anni dal “Manifesto degli intellettuali del Fascismo”, pubblicato il 21 aprile 1925 su Il Popolo d’Italia, la stessa definizione che racchiude l’essenza del regime diventa il brand del Comitato Organizzatore dei XXV Giochi Invernali. “Il Fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana…”, scriveva il filosofo-ideologo Giovanni Gentile, raccogliendo le firme di 250 uomini di cultura nell’anno delle “leggi fascistissime”, dieci mesi dopo l’omicidio Matteotti. “Vogliamo rappresentare il Nuovo Spirito Italiano radicato nella tradizione, ma proiettato verso il futuro, uno spirito vibrante e dinamico” annuncia Fondazione Milano Cortina, presentando il progetto al mondo. È la stessa espressione che troviamo nel testamento di Benito Mussolini, scritto sei giorni prima di essere ucciso dai partigiani.
Un secolo dopo, non si tratterà di una sovrapposizione perfetta di identità, eppure non si può catalogare la sincronia terminologica come una semplice bizzarria o coincidenza. È semplicemente inquietante. Non tutte le parole sono innocenti. Quegli stessi termini vengono messi in bocca dagli organizzatori perfino a un ignaro campione del tennis come Jannik Sinner, diventato primo testimonial, che in una lettera-appello ai suoi coetanei scrive: “Saremo i colori di un suggestivo affresco che racconterà l’Italia… racconteremo insieme il nuovo Spirito Italiano, vibrante e dinamico”.
Una montagna di soldi, edito da PaperFirst (362 pagine, 18 euro), dal 14 ottobre in libreria e in tutti gli store online, prende avvio dalla retorica dello sport che fa l’occhiolino a Palazzo Chigi. Continua attraversando le inchieste giudiziarie milanesi, gli appalti truccati, i raccomandati, i giochi di potere in Fondazione Milano Cortina a colpi di spioni, il dominio assoluto del Cio sugli sponsor e la guerra del governo contro la Procura meneghina, colpevole di voler indagare su una società che si dice privata, anche se è composta solo da enti pubblici ed è finanziata dal denaro degli italiani. L’indagine giornalistica è anche un viaggio nei disastri ambientali compiuti nei fragilissimi territori montani di Lombardia, Veneto, Trentino-Alto Adige, frutto di Olimpiadi diffuse che hanno moltiplicato i costi e lo scialo di denaro, in nome della monocultura del turismo, dello sci senza neve e dell’assalto alla montagna. Tutto è cominciato da tre bugie. La prima: le sedi per le gare sono già esistenti e richiedono solo un modesto restyling. La seconda: “La nostra filosofia di moderazione e responsabilità finanziaria darà vita a Giochi Invernali di cui tutti potranno essere orgogliosi”. Talmente orgogliosi e moderati che la spesa pubblica per le sole sedi di gara si è gonfiata dai 204 milioni di euro iniziali alla cifra di 945 milioni di euro.
La semplice organizzazione, che sarebbe dovuta costare 1 miliardo e mezzo di euro grazie a risorse esclusivamente private, è schizzata a 2 miliardi di euro, con quasi 400 milioni di soldi già stanziati dal governo Meloni per ripianare in anticipo i debiti. La terza rassicurazione (“Non sono necessarie nuove infrastrutture di trasporto”) è annegata in un fiume di cemento da 5 miliardi di euro per strade, ponti, ferrovie e parcheggi, con opere per un valore di 3 miliardi che non saranno pronte per le Olimpiadi. Tutto a spese dei contribuenti.
Le gare e le medaglie sono solo una dimensione sovrastrutturale delle Olimpiadi. Lo sport è sudore e fatica, sorrisi e lacrime. Lo sport è bello, ma la ragione profonda – il movente dello scandalo Milano Cortina 2026 – è una banalissima storia di soldi. È il merchandising della montagna che diventa modello di sviluppo e fabbrica del consenso.
Basta prendere una bella cartolina con i campanili e gli chalet, i boschi e i pendii innevati di Anterselva, Predazzo, Tesero, Bormio, Livigno e Cortina. Basta farne un collage con le rocce dolomitiche, le periferie metropolitane di Milano e le pietre millenarie dell’Arena di Verona.
Un pizzico di richiamo identitario allo spirito italiano e il gioco è fatto. È il Belpaese che dice di sì a tutto. All’ingordigia e allo scempio del paesaggio, allo strapotere di Simico che gestisce gli appalti e utilizza scorciatoie che non tollerano valutazioni di impatto ambientale, all’abbattimento meticoloso di un bosco a Cortina così da costruire una pista da bob per pochi intimi, diventata simbolo dello spreco e dell’ossessione del potere.
Sotto gli occhi degli ambientalisti costretti all’impotenza, i campioni di questo saccheggio sono i signori dello sport e gli impareggiabili, sfacciati, protagonisti della politica nostrana. A loro, una medaglia non gliela toglierà nessuno.


A proposito di...

 

Una settimana fa a Gaza i palestinesi morivano a decine al giorno per bombe e per fame, a Tel Aviv il governo annunciava annessioni della Striscia e della Cisgiordania e deportazioni dei gazawi, la Flotilla stava per essere fermata dagli israeliani in acque internazionali e le piazze d’Occidente si riempivano di manifestanti per chiedere ai governi di fermare la mattanza. Sembra un secolo: il quadro s’è totalmente e fulmineamente ribaltato, anche se tutti sanno che la tregua non è la pace (il Medio Oriente passa da una guerra all’altra da tremila anni) e sperano che diventi qualcosa di stabile e duraturo. Perché ciò accada, chi ha il potere di decidere dovrà sfoderare più fantasia e pragmatismo delle tifoserie ultrà che si scontrano nell’opinione pubblica con tesi opposte, ma stesso settarismo: quelli che “Israele è sempre stato e sempre sarà così” (come se Netanyahu fosse uguale a Rabin, ucciso da un fan di Bibi e dei suoi nazi-ministri per aver firmato la pace con Arafat) e quelli che “i palestinesi sono sempre stati e sempre saranno quelli del 7 ottobre”. Un antidoto agli opposti fanatismi che cianciano di “pace giusta” mentre la gente crepa è l’approccio di Trump, che è la canaglia a tutti nota, ma almeno un pregio ce l’ha: non è ideologico, non ragiona per pregiudizi, è completamente amorale e dunque non conosce moralismi né “imperi del Bene” da scatenare in guerra contro gli “assi del Male”. C’è da trattare con Hamas? Tratta con Hamas. Con gli Houthi? Con gli Houthi. Con l’Iran? Con l’Iran. Idem con Putin e Xi. Dovremmo scordarci le “paci giuste”, peraltro mai esistite nella Storia, e acconciarci alle “paci possibili”, che sono sempre “sporche”: nascono dal compromesso fra interessi opposti, cioè dalla diplomazia, che deve scontentare un po’ tutti trovando un punto di incontro realistico rispettando i rapporti di forze.
Vale per Netanyahu, che deve ingoiare un accordo firmato in pompa magna da Trump, Erdogan, al Thani e al Sisi che promuove Hamas a poliziotto di Gaza, rinfoderare i propositi di annessione, deportazione, guerra infinita e tornare al voto con un pugno di mosche. Vale per i palestinesi, che devono trovare una leadership spendibile per riavviare il faticoso percorso verso lo Stato, citato sia pur vagamente dal patto Trump (e chissà che Hamas, o come si chiamerà, non si candidi a esserlo rinunciando alla lotta armata e riconoscendo Israele come fece l’Olp: da terroristi a statisti è un attimo, vedi al Jolani in Siria). E si spera che valga pure per Ucraina e Russia, dove gli euro-nani Ue continuano a inseguire la “pace giusta”, cioè la chimera della sconfitta militare russa, mentre Kiev seguita a perdere uomini e territori. Anche lì l’alternativa alla guerra è una sola: la pace sporca.

L'Amaca


La pace quotata in Borsa
di Michele Serra
Se hai i soldi, la pace puoi comperarla, perché la pace, come tutto il resto, è una merce. Troveremo il modo di quotarla in Borsa. Se oltre ai soldi hai dalla tua anche il Dio della Bibbia (degli altri chi se ne importa), oltre che ricco sei anche dalla parte giusta. Questa la mia sintesi del discorso di Trump alla Knesset. Sintesi brutale e forse anche tendenziosa, me ne rendo conto, ma non saprei farla diversamente.
Si è detto: ben venga la pace di Trump, se porta un poco di conforto alla gente di Gaza e al Medio Oriente in generale. È giusto dirlo, è giusto pensarlo. Né la boria scandalosa con la quale il bullo attualmente capo dell’Occidente incensa se stesso basta a cancellare il suo innegabile momento di trionfo: l’interruzione della carneficina porta la sua firma.
E la memoria torna al nulla, o al quasi nulla, che ha preceduto, nei decenni, questa orribile guerra e questa parvenza di pace. La memoria torna ai dem americani (ed europei: un nome solo, Blair) nel momento in cui il gioco era nelle loro mani.
E a parte un meraviglioso discorso di Obama al Cairo, nel 2009, rivolto al mondo musulmano («fino a quando i nostri rapporti saranno definiti dalle nostre differenze, daremo maggior potere a coloro che perseguono l’odio invece della pace»), ditemi quali concrete tracce politiche, quali gesti di disarmo, quali cambiamenti strutturali per un mondo di pace portano la firma dei dem.

Se oggi un supporter di Trump, con il suo ridicolo cappellino calcato in testa, viene a dirci: e voi, prima di lui, che cosa avevate fatto di concreto per la pace in Medio Oriente e per la pace in generale? È difficile trovare una risposta decente. La prepotenza dei nostri giorni è anche figlia dell’impotenza che l’ha preceduta. 

lunedì 13 ottobre 2025

Siamo a posto!

 



Palese importanza

 



Furfantelli

 

Il giallo dei 3 Monet: la collezione Agnelli è degna di un Poirot
DI MANUELE BONACCORSI ED ETTORE BOFFANO
Anno 2013. Sotheby’s New York, tempio globale dell’arte, batte per 16 milioni il Glaçon numero due. Ignoto l’acquirente, si conosce però la provenienza: un’azienda specializzata in operazioni “coperte” su opere d’arte: la Duhamel, sede a Parigi, a due passi dall’Eliseo. In Francia, lo aveva esposto nel suo museo un impresario d’arte d’origine italiana, Marc Restellini. Prima ancora si trovava in Giappone. Non può essere lo stesso Monet: quando viene battuto a New Yok, il quadro di Agnelli si trovava stabilmente appeso a un chiodo sugli spessi muri di Villa Frescot, in usufrutto alla moglie dell’Avvocato, Marella. La vedova muore nel 2019. E solo allora la figlia Margherita Agnelli può entrare nella casa ereditata dal padre. Ma del Monet non c’è traccia. Margherita va su tutte le furie e presenta una denuncia alla Procura di Milano: ritiene che il Glaçon, assieme a un’altra decina di opere, le sia stato illecitamente sottratto – sospetta lei – dai suoi figli, John, Lapo e Ginevra, con cui da anni è in causa per l’eredità dei genitori. Il pm di Milano Eugenio Fusco indaga e riceve una soffiata: il Monet si troverebbe in Svizzera, in un caveau operato da un mercante d’arte, Gabriele Martino, il cui padre Massimo aveva collaborato con Agnelli.
La mail: “Quello vero è stato sostituito?”
Parte la rogatoria, i gendarmi elvetici entrano in un box blindato del porto franco di Chiasso. Ma non trovano niente, sparita ogni traccia. E quindi: tutti prosciolti. Il colpo di scena arriva però nel 2024: la Procura di Torino indaga sulla residenza svizzera di Marella Caracciolo: quando l’8 febbraio la Guardia di Finanza entra negli uffici di John Elkann a Torino nessuno se lo aspetta. Vengono sequestrate montagne di documenti che porteranno all’incriminazione di John per truffa ai danni dello Stato ed evasione fiscale. Gli uomini della Finanza perquisiscono anche un caveau al Lingotto: trovano alcune opere d’arte, tra cui – sorpresa! – il nostro Monet, il Glaçon. Ma è una copia, datata 2008. Dove si trova l’originale? La risposta è negli elenchi sequestrati negli uffici della signora Montaldo, la segretaria particolare di Elkann: è in Svizzera a Chesa Alkyone, nella casa che fu di Agnelli. Sarebbe sempre stato lì, dice Elkann ai Beni culturali.
Qualcosa non torna. Come ha fatto il Monet ad andare da Torino alla Svizzera? La legge infatti vieta l’esportazione senza autorizzazione di opere d’arte di grande valore, e il Monet. E di autorizzazioni, scopre Report grazie a un accesso agli atti, non ve n’è traccia. Il reato vale tra 2 e 8 anni di reclusione a cui si aggiunge la confisca. Su questo ora indaga la procura di Roma. Nelle carte in possesso del pm romano Stefano Opilio, c’è un inventario che dimostra la presenza a Torino del Monet. Datato 20 ottobre 2003, poco dopo la morte dell’avvocato, si intitola “Art Frescot”. E una e-mail, in cui la signora Montaldo si chiede: “L’originale del Monet era quindi a Frescot ed è stato sostituito da una copia?”. E poi, in un’altra missiva: “Per il Monet non esiste (importazione, ndr) temporanea, il dr Martino si è presto un giorno per valutare come approcciare la pratica”. Tradotto: se non c’è importazione temporanea e l’opera è finita dall’Italia alla Svizzera è un grosso problema. Il giallo è risolto? Lo dirà la procura di Roma.
La casa d’aste e il “Mon Cher John”
E il Glaçon venduto da Sotheby’s nel 2013? Report aveva chiesto numi alla casa d’asta. Domanda secca: “Avete venduto un falso o avete esportato illegalmente un’opera?”. La risposta fu evasiva: “Siamo sicuri che tutte le procedure siano state seguite”. Sotheby’s, però, è una cosa seria: la fiducia, in questo business, è denaro. E in realtà era corsa ai ripari. Sempre nel 2013 – si scopre adesso dalle carte sequestrate a Torino e trasferite alla Procura di Roma – ci fu un lungo scambio di e-mail tra John Elkann e alcuni funzionari della casa d’asta. Si danno del tu, si conoscono: “Mon Cher John” è l’incipit. Sotheby’s chiede umilmente a Elkann di inviare l’opera a New York, per poterla confrontare con l’altra. “Sarà nostra cura provvedere alle spese di spedizione e assicurazione”, dicono. Si accordano anche sulla polizza assicurativa: 14 milioni di euro. Il Monet vola dalla Svizzera a New York, poi ritorna: ora, secondo le carte sequestrate, lo possiede Lapo.
Ci saranno pure tre Monet, ma l’originale è uno. E lo vogliono tutti: Lapo non vuole mollarlo, la procura di Roma potrebbe confiscarlo, Margherita Agnelli dice che è suo, un ignoto cliente di Sotheby’s vorrebbe goderselo.

A proposito di pace

 

"Con questo piano non si vuole la pace In Palestina ogni imposizione fallisce"
di Francesca Mannocchi
Gerusalemme
Il 4 settembre 2025, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha inserito Al-Haq nella lista delle entità sanzionate, insieme ad altre due organizzazioni palestinesi: il Palestinian Centre for Human Rights e Al Mezan Center for Human Rights. Secondo la motivazione ufficiale, le tre Ong avrebbero «partecipato direttamente» alle attività della Corte penale internazionale (Cpi) mirate a «indagare o perseguire cittadini israeliani», contribuendo così - nella lettura di Washington - alla «politicizzazione illegittima della giustizia internazionale». La misura si basa sull'executive order numero 14203, firmato durante l'amministrazione Trump e tuttora in vigore, che consente di sanzionare individui o organizzazioni coinvolti nelle indagini della Cpi contro Paesi alleati degli Stati Uniti. In termini concreti, le sanzioni comportano il congelamento di eventuali beni e l'impossibilità di transazioni finanziarie attraverso il sistema statunitense.
Per chi conosce la storia di Al-Haq, la decisione americana ha suscitato stupore e condanna. Fondata nel 1979 da un gruppo di avvocati palestinesi, Al-Haq è considerata una delle più antiche e autorevoli organizzazioni per i diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati. Documenta violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani commesse da tutte le parti in causa - Israele, Autorità Palestinese e Hamas - e i suoi rapporti vengono regolarmente utilizzati da agenzie Onu, missioni d'inchiesta internazionali e tribunali. Dal 2006 la guida dell'organizzazione è affidata a Shawan Jabarin, giurista e attivista per i diritti umani, figura di riferimento nel panorama palestinese e internazionale. Sotto la sua direzione, Al-Haq ha ottenuto riconoscimenti da organismi indipendenti e associazioni internazionali, ma è stata anche oggetto di accuse e campagne di delegittimazione. Nel 2021 Israele l'ha dichiarata «organizzazione terroristica», accusa respinta da Onu, Unione europea e da numerosi governi occidentali.
«Le sanzioni statunitensi, denunciano molte organizzazioni per i diritti umani, rappresentano un precedente pericoloso: colpiscono chi fornisce informazioni alla Corte Penale Internazionale nell'ambito delle indagini sui presunti crimini di guerra commessi a Gaza e in Cisgiordania. Amnesty International e Human Rights Watch le hanno definite «un attacco diretto alla società civile palestinese e alla ricerca di giustizia internazionale». In questo contesto di forte pressione politica, Shawan Jabarin continua a sostenere che il lavoro di Al-Haq non è politico ma giuridico, e che documentare le violazioni rimane «un dovere verso il diritto e verso le vittime».
Cosa pensa davvero di questo accordo? Lo considera un vero piano di pace?
«È un accordo che non si basa su principi di giustizia e sul diritto internazionale. Non mira a portare la pace. Perché per costruire la pace non bisogna escludere i palestinesi, non bisogna ignorarli. Inoltre, affrontare la ricostruzione come un business pone anche una questione in termini di valori umani. Infine, non è possibile per chi è complice di quanto sta accadendo in Palestina, ovvero l'amministrazione statunitense, costruire davvero la pace qui».
Che forma avrebbe la pace che immagina lei?
«Vorrei che si costruisse una pace reale, ma non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza attribuzione delle responsabilità e risarcimento delle vittime. Israele ha commesso crimini e atrocità, e non ha mai dovuto rendere conto delle proprie azioni. La cultura dell'impunità continua, ed è questo il problema principale. Poi c'è l'aspetto umanitario che non può essere trascurato. La crisi umanitaria non prevede compromessi. Ma soprattutto, per costruire la pace va fermata l'occupazione in Palestina, invece siamo davanti alla legge della giungla e non possiamo parlare di giustizia. Perché questa è la legge della giungla e tutti sono responsabili».
Quando parla di responsabilità a chi si riferisce?
«La comunità internazionale è responsabile. Responsabile di non avere imparato la lezione dopo decenni di oppressione, regime coloniale, occupazione e apartheid, come dicono le principali organizzazioni dei diritti umani internazionali. Se si vuole davvero costruire stabilità e pace, bisogna tenere conto dei diritti dei palestinesi, della giustizia e della legge. Questa è, indubbiamente, la lezione principale per tutti i Paesi, altrimenti le storia si ripeterà ancora e ancora. Da decenni vengono fatti accordi che ignorano completamente il diritto internazionale, i diritti come base e la giustizia come modo di affrontare le cose. Non siamo riconosciuti come popolo. Netanyahu è orgoglioso di non riconoscerci. Fin dalla Dichiarazione Balfour del 1917, l'imposizione esterna di "soluzioni" per la situazione in Palestina è fallita perché ha evitato di fare i conti con la condotta persistente e manifestamente illegale di Israele e si è rifiutata di riconoscere le cause profonde della situazione, ovvero la necessità di smantellare, in linea con il diritto internazionale, il regime coloniale annessionista e di apartheid di Israele. Ma biasimo anche i leader palestinesi. Biasimo Mahmoud Abbas. Biasimo tutti loro, perché il nostro futuro, la nostra democrazia, la costruzione della nostra leadership, il diritto di partecipazione del popolo alla vita pubblica non sono qualcosa di negoziabile».
Proprio parlando di leadership palestinese: cosa pensa della decisione di non includere Marwan Barghouti nella lista di prigionieri scambiati?
«Penso che non vogliano vedere in libertà i leader palestinesi e non vogliono nemmeno che i palestinesi possano sceglierli ed eleggerli. Penso che uno come Marwan Barghouti - ma non solo lui - potrebbe mandare un buon messaggio, mantenendo viva la speranza tra la gente e dando vita alla società palestinese. Ma questo è qualcosa che gli israeliani non vogliono. Israele vuole che siamo deboli».
Pensa che questo sia un piano in continuità o discontinuità col passato? Penso in particolare ai piani presentati anche dalla precedente amministrazione Trump.
«Nel 2020, la prima amministrazione Trump annunciò il suo "Accordo del Secolo", presentato come una "visione per un accordo di pace globale tra Israele e palestinesi". Quella proposta respingeva l'applicazione del diritto internazionale ai palestinesi, affermava la definitiva normalizzazione e il sostegno degli Stati Uniti ai crimini di Israele contro il popolo palestinese. Una politica che è stata avallata anche dall'amministrazione Biden. L'ultimo piano degli Stati Uniti è in continuità con questa traiettoria, ripetendo gli stessi errori già fatti nel processo di Oslo».
Che lezione pensa si possa trarre, quindi, dalla storia degli accordi precedenti - Oslo, ad esempio - per valutare i negoziati di questi giorni? Quali sono stati gli errori commessi dopo Oslo e che non andrebbero ripetuti?
«Penso che la base principale da cui tutti devono partire siano il parere consultivo della Corte internazionale di giustizia e la risoluzione dell'Assemblea Generale sull'illegalità di questa occupazione. Hanno provato ad applicare di tutto, tranne il diritto internazionale, le risoluzioni dell'Onu e il rispetto dei diritti dei palestinesi. E hanno fallito in tutto».
Poi c'è il tema della sorte dei prigionieri. Negli ultimi due anni, la situazione all'interno delle carceri è peggiorata come mai prima d'ora.
«È la peggiore di sempre. Mai prima d'ora avrei pensato che Israele potesse arrivare a questo limite. Ma questa non è una dimostrazione di forza, per loro. Anzi. È una grande dimostrazione di debolezza della leadership e della società israeliana. In prigione non danno da mangiare, torturano, uccidono. Non si danno alcun limite».
Qual è la sfida principale che la società palestinese deve affrontare ora?
«La principale sfida che stiamo affrontando ora è quella di mantenere viva la speranza tra i giovani. Di far sì che si concentrino sull'applicazione del diritto internazionale e sull'uso di mezzi pacifici. Perché dall'esterno il messaggio che arriva è ‘siete deboli, nessuno rispetterà la vostra dignità e i vostri diritti».