venerdì 20 novembre 2020

Selvaggia!


NIENTE SPOON RIVER
Questi morti d’autunno sono un po’ meno morti degli altri

di Selvaggia Lucarelli

C’è un’atmosfera strana, in questo autunno di pandemia, in cui le cattive notizie e le buone notizie si accavallano, in cui il bollettino dei morti è in una colonna esile accanto ai titoloni sui vaccini che funzionano. I vaccini sempre più efficaci, sempre più performanti, prima quello che funziona ma va tenuto a -80 gradi, ora quello che è stabile pure a temperatura ambiente, a breve arriverà quello che può bollire anche nel pentolino del latte. Stiamo lentamente riemergendo da questo presente buio in cui abbiamo vissuto per nove mesi, come feti nella placenta, e siamo di nuovo proiettati nel futuro. Abbiamo ripreso a fare progetti, ad immaginare viaggi, abbracci e labiali, a pensare all’umanità come a qualcosa che tornerà a mescolarsi e dove “contaminarsi” significherà passarsi di nuovo storie anzichè virus.

C’è un principio di euforia, insomma, che sarebbe meraviglioso se non fosse che galleggia tra i morti. Più di 650 solo ieri, 753 l’altro ieri, migliaia a settimana, chissà quanti ancora fino alla fine dell’epidemia. Morti d’autunno di cui a nessuno – diciamoci la verità – importa più molto. Sì, lo sappiamo che sono gli stessi 700 morti di fine marzo, che sono tanti, che “povera gente”, ma tanto tra un po’ arriva il vaccino e poi c’è il Natale, chissà se faremo il cenone, se diventeremo arancioni, se il presepe ce lo faranno fare o sarà considerato assembramento, magari i Re Magi li facciamo arrivare scaglionati, quest’anno. Questi morti d’autunno sono un po’ meno morti degli altri, di quelli di primavera che se li portavano via i camion dell’esercito per le strade deserte, e noi a guardarli in tv con le lacrime agli occhi e l’empatia che ci scivolava giù dai polsini.

Ora i morti sono discreti, silenziosi. Non occupano più le prime pagine dei giornali, non sono più storie, facce, vissuti. Sono spariti i volti dei medici caduti sul fronte, delle maestre, delle infermiere, dei papà, dei nonni, dell’alpino, del vigile del fuoco, del ragazzo che amava le scalate. Niente più fogli con i nomi dei morti fitti fitti, uno dopo l’altro, in quel cimitero di lettere che fu la prima pagina de L’Eco di Bergamo. Prima sulle home page c’erano le tante persone comuni che morivano, ora ci sono i vip che guariscono.

È il virus di quelli che ce la fanno, che guardano al domani, che hanno il medico famoso che li chiamava più volte al giorno, di quelli che fanno le storie su Instagram raccomandando a noi che siamo stati attenti di stare attenti, in un corto circuito a dir poco distopico.

I medici, quelli sul campo, non li cerca più nessuno, messi in ombra dalle Covid-star che ormai trascorrono più tempo dalla D’Urso che in reparto.

Sta succedendo quello che succede durante la coda delle guerre lunghe e cattive, quelle in cui sai che a breve ci si libererà dell’invasore o arriveranno gli alleati e che l’invasore andrà via lasciando dietro ultima scia di sangue, la più feroce. O che gli alleati bombarderanno tutto, le campagne, le città e tanti civili moriranno, ma ormai chi muore alla fine conta meno. Quei morti sono un prezzo, l’ultimo sacrificio, prima della libertà. Prima – finalmente – della carriola tra le macerie, dei bambini che giocano tra i detriti e del mondo che si riaffaccia alla vita.

Ecco. I morti d’autunno sono gli ultimi sotto le bombe. Siamo ansiosi di spostare i cadaveri, di rimettere in piedi le case, di rivedere l’alba senza i suoni delle sirene. Che poi chissà, se saranno davvero gli ultimi. Di sicuro, non ce n’è uno di cui ricordiamo la storia. Neppure quelli morti, inermi, nelle Rsa ci fanno più effetto. Ormai lo sappiamo che lì dentro scoppiano focolai, che se lo passano di letto in letto, che muoiono soli.

Trova un po’ di spazio sui giornali, in questi giorni, solo la morte di una ragazza giovanissima, 21 anni, “che aveva diritto a una vita lunga e felice”, scrive un giornale. Ma lì la notizia non è il Covid, è una giovane vita interrotta, è la natura matrigna. E un po’ di spazio lo trovano anche i due anziani marito e moglie che dopo 60 anni d’amore muoiono lo stesso giorno, nello stesso ospedale. Ma lì la notizia non è il Covid, è l’amore, il destino, il “per sempre” dopo la morte.

Per il resto, non ci interessa più sapere, siamo già con un piede nel 2021. Ricordare questi morti sarà un lavoro postumo, forse, quando qualcuno si prenderà la briga di scrivere uno Spoon River dei morti d’autunno. Adesso conta solo conoscere la data dei primi vaccini e sapere per quante persone dovremo apparecchiare a Natale.

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