mercoledì 4 settembre 2024

Sana cultura


È Bobbio il nostro Socrate
Un nuovo saggio sul filosofo e giurista novecentesco ne svela la statura intellettuale
DI GUSTAVO ZAGREBELSKY
Una delle caratteristiche dei discorsi e degli scritti del professor Bobbio è stata la brevitas o breviloquenza. Per esplicito riconoscimento, preferiva i saggi brevi su questioni specifiche alle teorie onnicomprensive alle quali si dedicano di solito i filosofi del diritto, della giustizia, della politica, anche se non è affatto impossibile cogliere i nessi e organizzarli in “sistema”.
A parte i corsi universitari, la dimensione dei suoi scritti, funzionale alla limpidezza del discorso e dell’esposizione delle idee con le quali si confrontava e invitava a confrontarsi, corrispondeva al cruccio costante in lui, proprio in lui che riconosciamo maestro di precisione e comprensibilità, di mescolare temi eterogenei che avrebbero influito sulla chiarezza. Solo quando si è giunti a chiarire le idee per se stessi, si può essere brevi e non tediosi nell’esporle. Avrebbe potuto riconoscersi nel Socrate che, sfiancato dalla prolissità del suo interlocutore, un sofista (Protagora 335-36) che mena il can per l’aia sconclusionatamente – la questione era l’unità o la divisibilità della virtù: una questione, s’intende, cruciale – preferisce, come si dice, prendere cappello e andarsene via accompagnato dall’autoironia che gli era propria: «Io sono uno smemorato, e se uno va per le lunghe, dimentico di che si stia parlando. Come dunque, s’io fossi un po’ sordo, a voler ragionare con me crederesti necessario d’alzar la voce più che con gli altri, così anche ora, poiché ti sei imbattuto in uno smemorato, compendia le risposte e falle brevi, se vuoi ch’io ti segua». «Io ritenevo», aggiunge, «che fossero due cose distinte il discutere insieme conversando e il parlare dinanzi a un’assemblea ». Davanti a una «assemblea» può essere una tecnica utile tirare «in lungo fino a che la maggior parte degli uditori si scordino del punto a cui si riferiva la dimanda» e, nella confusione, ci si possa lasciar andare a «bisticciarsi gli uni con gli altri» come fa l’«infinita […] turba degli sciocchi». «Ho capito», dice Socrate, non Bobbio ch’era una persona molto educata, «che per me non c’era più ragione di rimanere in quel convegno» e, «detto ciò, mi son levato per andarmene».
Il pensiero dicotomico, al di là di quel che si potrebbe dire circa il suo fondamento ontologico o teologico, cioè circa l’anzidetto omnia dupliciabiblico, è uno strumento importante, forse essenziale, del «pensar chiaro». Anzi, spesso, è «l’altra faccia della medaglia », quella che ci consente di vedere meglio, più chiaramente rispetto al nostro personale e più facile punto di vista. Ma, affidarsi ad esso non è cosa da farsi con superficialità. Si tratta di mettere a raffronto idee bene costruite che possano dirsi “rivelatrici” dell’essenziale del concetto.
Ma, come sanno coloro che operano con le idee e, prima di tutti, gli ideologhi e i facitori di idee, non c’è nulla di più volatile delle idee. Possono disperdersi in molti rivoli, frivolezze e sentieri illusori. Verso le metafore, le immagini, le similitudini che possono colpire la fantasia e l’emozione ma spesso ostacolano l’intelligenza e il ragionamento, occorre essere sospettosi e usarle con parsimonia solo quando chiariscono, non quando sembrano poetiche e seduttive. Le idee rivelatrici sono quelle che colgono il punto principale, da cui logicamente dipendono tutti i discorsi che ruotano attorno a quel certo punto, senza intromissioni, oscurità, adulterazioni dettate da preconcetti teorici, dottrinali e metodologici. E sono, altresì, le idee che servono alla costruzione dicotomicadi un discorso ben fondato.
Nel campo del diritto, le idee non sono mai evidenti e chiare in sé. Non sono le idee che compongono il vasto campo delle realtà oggettive che si offrono alle intuizioni evidenti o alle speculazioni ontologiche dei metafisici. Sono costrutti concettuali di origine culturale che stanno alla confluenza di tanti apporti, storici, filosofici, esperienziali, eccetera, entro la quale occorre sapere scendere per cogliere quanto c’è di profondo ed essenziale e quanto di superficiale e accessorio.
Ma questa ricerca non ha a che vedere con la ricerca della verità. Ha a che vedere con l’intelligenza fedele delle posizioni che si confrontano dicotomicamente, vere o false che siano rispetto a criteri di verità esterni alle posizioni ideali che sono in gioco.
In breve, ciò che importa a prima vista non è che cosa è il diritto o la politica, ma che idee ne hanno coloro che si confrontano o si scontrano dicotomicamente. Non si tratta di scoprire chissà cosa, né di ricevere illuminazioni di sorta, né di farsi “ragionamenti chiari e sicuri” per penetrare nella verità profonda delle “cose che sono”. Si tratta di comprendere le “cose pensate” per poterle mettere a confronto veritieramente, rispettosamente e onestamente.
Insomma, la metodologia di Bobbio non è il metodo di Cartesio anche se l’espressione «ragionamenti chiari e sicuri» del secondo sarebbe probabilmente piaciuta assai al primo, ma non nel senso della via per tentare «e avanzare per quanto possibile nella conoscenza della verità, seguendo il metodo che mi ero prescritto».
Al contrario, il metodo dicotomico presuppone che, per sua natura, la conoscenza “per quanto possibile” si svolga muovendo strutturalmente entro un binario a due rotaie. Colui al quale ci rivolgiamo come il massimo estimatore della chiarezza, nemico bensì delle «illuminazioni» e amico dei «ragionamenti chiari e sicuri», era convinto dell’esistenza della Verità e della sua capacità di raggiungerla, fino al punto di credere, nel suo intellettualismo estremo, di poter arrivare dimostrativamente all’esistenza di Dio, non un dio interiore, ma un dio della ragione per così dire meccanica, né stoico né neoplatonico, che lavora nel mondo naturalisticamente tramite evidenze, deduzioni, induzioni, inferenze, eccetera, accessibili all’intelletto umano. 

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