Un luogo ideale per trasmettere i miei pensieri a chi abbia voglia e pazienza di leggerli. Senza altro scopo che il portare alla luce i sentimenti che mi differenziano dai bovini, anche se alcune volte scrivo come loro, grammaticalmente parlando! Grazie!
mercoledì 31 ottobre 2018
L'insostenibile leggerezza del giglio
Ma si, che gliene frega a codesti signori della poltrona, se in questo deturpato paese non esista una sana e democratica opposizione capace di riportare i tanti sbandati al potere, inconcepibilmente ancora non scafati, verso una più sana e giusta rotta!
Che gli importa agli amichetti del nefasto e neo documentarista, al tempo signore nell'Era del Ballismo, del rinnovamento di un partito una volta, molto tempo fa, rifugio e riferimento per la mai non vinta battaglia contro i soprusi sociali?
Zingaretti potrebbe essere il nuovo, il rinnovamento? Ne dubito, ma sarebbe sicuramente la parola fine all'accozzaglia gigliata, distruttrice di ideali, di tematiche tramandata dagli antichi padri della vera e sinergica sinistra.
Siccome però i perdenti, gli stracciati, i disarcionati facenti capo al Pifferaio oramai non solo più magico, ma anche insufflante tenerezza vista la sparizione mediatica, non ci pensano proprio a togliere il disturbo per un medicamentoso, per loro e per noi, anonimato eterno, ecco arrivare l'idea mefitica di candidare sia Minniti che il povero Martina al fine di non far raggiungere il 50% a Zingaretti e delegare, secondo statuto, all'assemblea nazionale, in pratica il parco voti attuale della compagine politica, l'elezione del futuro segretario del partito. E la suddetta assemblea ad oggi è controllata ancora, misteriosamente, dai cosiddetti renziani.
Chiaro e limpido quindi che a questi poltronieri, a questi ansimanti il tanto amato potere, non freghi un'emerita ceppa del bene del partito e, conseguentemente, del paese. A loro importa solo non mollare, non sparire, a costo della fine di un simbolo della sinistra. Pensano, per via della loro illuminante Leopolda, di poter ritornare in tolda, Madie e Boschi comprese, per il bene loro e la fine della speranza democratica, dal sapore prettamente orfiniano.
Reazione
Ho consumato una confezione di Pevaryl nel sentire Rosato in parlamento ragliare contro i presunti condoni del decreto. Lui e il suo partito che redarguiscono gli altri in merito ai condoni! Come se la mummia pregiudicata, amicone del Bomba, si scagliasse contro la prostituzione d’alto bordo! Da infiammare le gonadi appunto!
Nel caso in cui...
... qualcuno si montasse la testa credendo di conoscere ciò che ci circonda.
(31 ottobre - Dark Matter Day)
Ladrata biblica
L’ULTIMA BEFFA DELLA GRANDE INCOMPIUTA
Sergio Rizzo
Si sfoga il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro mentre il mare assedia la basilica di San Marco: «Vorrei chiedere a qualcuno se ha capito a che cosa serve il Mose». Ma la domanda da fare sarebbe un’altra: che fine ha fatto il Mose, opera colossale a cui sarebbe affidata la difesa della città più preziosa e suggestiva del mondo dall’acqua alta? Dov’è finito quel vanto dell’ingegneria planetaria, con le sue paratie mobili già attaccate dalla ruggine senza aver mai compiuto il lavoro per cui sono state realizzate? Più di cinquant’anni ci sono voluti per immaginare, ideare, progettare, e poi costruire il Mose. Significa Modulo Sperimentale Elettromeccanico, ma chi ha pensato di chiamarlo così aveva in mente un rimando biblico al Mosè che apre le acque del Mar Rosso per la traversata del popolo eletto. Rimando tantinello esagerato, se si pensa che a differenza di Mosè, il Mose metallico ha finora aperto solo una bella voragine nei conti pubblici.
La storia è lunghissima, comincia dopo l’alluvione del 1966. I cantieri si aprono nel 2003, con la legge obiettivo: secondo governo di Silvio Berlusconi, ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi che rievoca lo spirito delle grandi opere del passato arrivando a scomodare le Piramidi e la Grande muraglia. Ma questa, al confronto della Grande muraglia, è appena un muretto di ferro anche se dai Grandi Costi. Dopo quindici anni di lavori, il Mose non è ancora finito: siamo al 94 per cento ed è stata spesa una cifra non lontana dai 6 miliardi. Con un meccanismo assolutamente anomalo. Perché l’opera, guarda caso, era stata affidata a un concessionario privato, il Consorzio Venezia Nuova, senza gara. E i soldi, ovviamente, non erano privati: tutti pubblici fino all’ultimo euro. Così tanti che ce ne sono stati abbastanza anche per distribuire in giro caramelline di ogni tipo. Milioni, una ventina, ai 316 collaudatori, fra i quali 36 dirigenti del ministero delle Infrastrutture (!) e perfino un ex magistrato delle acque. Ma anche altri milioni, e molti di più, di tangenti. Ci sono andati di mezzo imprenditori, faccendieri, un ex ministro e un ex ministro ex presidente della Regione.
Nessuno si è salvato. Nemmeno lo stesso Mose perché anche quei cantieri, ha rivelato un mese fa il provveditore alle Opere pubbliche Roberto Linetti, sono fermi. Bloccati, nonostante i soldi per finire, fra 600 e 800 milioni, siano disponibili in cassa. Ma sempre poi che quel marchingegno funzioni, perché questo non si sa. L’unica cosa certa è che ci costa già 100 milioni all’anno di manutenzione. E forse è solo quello, per ora, il vero affare. Altro che la salvezza di Venezia.
La storia è lunghissima, comincia dopo l’alluvione del 1966. I cantieri si aprono nel 2003, con la legge obiettivo: secondo governo di Silvio Berlusconi, ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi che rievoca lo spirito delle grandi opere del passato arrivando a scomodare le Piramidi e la Grande muraglia. Ma questa, al confronto della Grande muraglia, è appena un muretto di ferro anche se dai Grandi Costi. Dopo quindici anni di lavori, il Mose non è ancora finito: siamo al 94 per cento ed è stata spesa una cifra non lontana dai 6 miliardi. Con un meccanismo assolutamente anomalo. Perché l’opera, guarda caso, era stata affidata a un concessionario privato, il Consorzio Venezia Nuova, senza gara. E i soldi, ovviamente, non erano privati: tutti pubblici fino all’ultimo euro. Così tanti che ce ne sono stati abbastanza anche per distribuire in giro caramelline di ogni tipo. Milioni, una ventina, ai 316 collaudatori, fra i quali 36 dirigenti del ministero delle Infrastrutture (!) e perfino un ex magistrato delle acque. Ma anche altri milioni, e molti di più, di tangenti. Ci sono andati di mezzo imprenditori, faccendieri, un ex ministro e un ex ministro ex presidente della Regione.
Nessuno si è salvato. Nemmeno lo stesso Mose perché anche quei cantieri, ha rivelato un mese fa il provveditore alle Opere pubbliche Roberto Linetti, sono fermi. Bloccati, nonostante i soldi per finire, fra 600 e 800 milioni, siano disponibili in cassa. Ma sempre poi che quel marchingegno funzioni, perché questo non si sa. L’unica cosa certa è che ci costa già 100 milioni all’anno di manutenzione. E forse è solo quello, per ora, il vero affare. Altro che la salvezza di Venezia.
Travaglio in libertà
mercoledì 31/10/2018
LiberTav di stampa
di Marco Travaglio
Siccome i 5Stelle hanno torto a prescindere da quello che fanno, per ogni loro scelta i giornaloni hanno sempre pronti due titoli: quello che li attacca per l’opzione A e quello che li attacca per l’opzione B. Celebre il caso della candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024. Se avessero detto sì, i giornaloni avrebbero titolato: “Vergogna, sono come gli altri, servi dei palazzinari e traditori della promessa elettorale di dire no”. Invece dissero no e i giornaloni titolarono: “Vergogna, sanno solo dire no a tutto e fanno perdere alla Capitale un’importante occasione di sviluppo” (degli sprechi, del debito e delle mazzette, s’intende). La scena si ripeté per lo stadio della Roma, deliberato dalla giunta Marino in versione monstre con speculazioni e torri à gogo. Avendo promesso agli elettori il sì allo stadio, ma il no alle torri e alle speculazioni, la giunta Raggi approvò lo stadio senza le torri e le speculazioni. Apriti cielo. “Vergogna, servi dei palazzinari, sarà un ecomostro”, titolarono i giornaloni (che, quando l’ecomostro era davvero monstre, non obiettavano alcunché). Il titolo già pronto per il no allo stadio – “Vergogna, fate perdere alla Capitale un’altra importante occasione di sviluppo” – tornò buono quando lo stadio fu bloccato per l’inchiesta su Parnasi, Lanzalone & C. (a proposito: dopo tutti i titoloni sullo “scandalo Raggi-M5S”, i pm vogliono a giudizio i politici del Pd e di centrodestra pagati da Parnasi, ma nessuno dei 5Stelle).
L’altro giorno, l’ennesimo replay per il gasdotto Tap in Puglia. Il M5S si era sempre detto contrario, e aveva ragione da vendere. Aveva anche promesso di bloccare l’opera, e lì aveva commesso un grave errore, perché dopo gli accordi-capestro firmati nel 2015 da quel gran genio di Calenda (contro il parere del governatore Pd Emiliano), lo stop costerebbe allo Stato una ventina di miliardi di risarcimenti: purtroppo, porcata fatta capo ha (anche se qualcosa si può ancora tentare deviando il tracciato in un’area di minor pregio naturale e turistico). E giù titoloni (sacrosanti) sull’incoerenza dei 5Stelle che non han mantenuto le promesse o han promesso ciò che non potevano più mantenere. Ma sarebbero stati massacrati anche se ci fossero riusciti: “Vergogna, sapete solo dire di no e fate perdere all’Italia una grande occasione di sviluppo”. Lo dimostra il caso uguale e contrario del no dei 5Stelle e della giunta Appendino al Tav Torino-Lione. La bandiera No Tav (non contro l’Alta velocità tout court, ma contro la nuova ferrovia per le merci) sventola fra le mani di Grillo da prima che nascessero i 5Stelle, di cui poi divenne un cavallo di battaglia.
Lo sapevano benissimo i torinesi quando elessero sindaco la Appendino e gli italiani quando tributarono al M5S il 25,5% nel 2013 e il 32,5% nel 2018. Quindi, se bloccheranno il Tav, i 5Stelle non faranno altro che mantenere una promessa consacrata da valanghe di voti. Si chiama democrazia, e anche coerenza. Una coerenza che sarebbe più completa se il M5S governasse da solo o con alleati omogenei e potesse dunque agire solo in base all’inedita analisi costi-benefici sulle grandi opere commissionata a 14 esperti dal governo Conte (prima i governi dei “competenti” buttavano i nostri soldi a casaccio). Analisi che si accinge a bocciare sia il Tav sia il Terzo Valico: il Tav perché non serve a nulla, costa un occhio, è ancora in fase embrionale (in Italia come in Francia) e non prevede penali né risarcimenti; il Terzo Valico perché, costruito per un terzo, è del tutto inutile e costa molto meno sospenderlo (pagando penali e risarcimenti) che completarlo. Ma il M5S governa con la Lega che, come Pd e FI, è ben incistata nel partito trasversale del cemento. Di qui il compromesso tipico dei governi di coalizione: la Lega cede sul Tav e il M5S cede sul Terzo Valico.
E i giornaloni? Massacrano il M5S nelle pagine dispari perché è incoerente e non blocca il Tap, e in quelle pari perché è coerente e blocca il Tav. I fatti e i dati economici e scientifici che i “competenti” sbattono ogni due per tre in faccia agli ignoranti giallo-verdi non contano più nulla: solo slogan, fake news e titoli a mezzadria fra il terrorismo e il fantasy. Repubblica: “Il M5S dichiara guerra alla Tav. Rabbia di imprese e sindacati”, “Sarà la marcia dei centomila” (cioè i quattro gatti scesi in piazza a Torino con la Confindustria e gli annessi Pd&FI). La Stampa: “Torino vota lo stop all’Alta velocità. La piazza protesta: una vergogna” (sempre i soliti quattro gatti), “Rischiamo costi severi nel Nord” (Mario Deaglio in Fornero), “Adesso un’altra marcia dei 40 mila” (sempre i quattro gatti di cui sopra). Corriere: “Una cultura economica che disprezza la crescita, un colpo basso alla città”, “Giunta No Tav, divorzio dalla città”. Messaggero: “Chi blocca il Paese: il partito del no”, “A rischio 8.000 posti di lavoro, come esportiamo senza infrastrutture?”. Il Giornale: “Golpe grillino, stop alla Tav”, “Una marcia dei 100 mila per dire sì alle grandi opere” (sempre quei quattro gatti). Tutte balle. I posti di lavoro sono poche centinaia e arriverebbero, se va bene, a 4 mila. Non c’è nulla da esportare in più di quel che già si esporta: sulla ferrovia merci già esistente, la Torino-Modane, i treni partono con l’80-90% di container vuoti, perché il traffico merci che trent’anni fa era stimato in costante crescita è crollato o ha preso altre vie. I costi della retromarcia non sono 4 miliardi, ma zero (niente penali né indennizzi), mentre quelli per completare l’opera (in altri vent’anni di cantieri) vanno dai 15 ai 20 miliardi. Noi naturalmente siamo vicini ai “colleghi” ridotti a trombettieri del Tav per conto di chi gli paga lo stipendio e/o la pubblicità. Ma, per favore, lascino perdere la libertà di stampa: quella che difendono è la loro servitù.
martedì 30 ottobre 2018
Nelle braccia di Eolo
Giornata campale quella di ieri per tanti liguri, per via dell'incrudire meteo, connubio di avversità, sfiga, anche se preannunciate. E proprio nel giorno del massimo livello di pericolo è avvenuto il trasferimento di mio padre alla struttura di rieducazione e questo vuol dire che, nel pieno delle catinelle aperte sulla città, vagabondavo come un imbecille allo stato puro per strade dove persino Capitan Findus avrebbe avuto esitazione a transitare.
Ma si sa, dalla vita ti puoi aspettare questo ed altro! E allora mi rivedo a lanciare l'ombrello verso il destino carogna, rimanendo vittima sacrificale di Giove pluvio, il quale ha pure inasprito l'intensità della pioggia, permettendomi di constatare quanto le gocce entranti nelle mutande, creino una specie di cassa di risonanza in grado di far retrarre il povero attrezzo atto oramai esclusivamente ad una minzione sempre più intensa.
Non solo: camminando su strade trasformate in laghi alpini, eccomi mettere il piede in fallo, sprofondando di mezzo metro nell'acqua stagnante per la solita incuria di chi crede che i tombini vadano puliti solo ed esclusivamente quando si formi una riedizione in miniatura del lago di Como! Ed infatti, ritornando successivamente sul luogo del misfatto, ho intravisto il coglione impegnato a far defluire le acque e, chiedendo venia, l'ho subissato di insulti variegati e curiosissimi. Ma è stato solo l'inizio: verso le 15, uscito dal centro riabilitativo, ho pensato bene di andare in viale Italia per vedere il mare, proprio nel momento in cui, Eolo e Nettuno in stretto connubio, hanno scatenato quello che a mio parere avrebbe terrorizzato pure il capitano Achab: una nebbia formata da vento e acqua avvolgente al punto di non vedere più nulla, l'auto frenata e spinta da dietro da un ipotizzabile gigante giocherellone, uno scombussolamento totale, perdita di orientamento, consapevolezza che fosse arrivato il momento topico dell'addio a questo mondo, il tragitto continuato alla cieca e il riparo in una via laterale, sconcertato ed ammutolito come non mai! Solo un bicchiere di sambuca, trangugiato fulmineamente a casa, mi ha fatto riprendere dal terrore provato per inettitudine anzi, chiamiamola con il suo nome: dabbenaggine!
E quando alla sera tutto sembrava superato, ecco tornare Eolo, con i suoi possenti venti; ed io, che in casa avevo abbassato persiane, rinforzato finestre, ho subito per ore il rumore devastante delle sue folate che, entrando nel cortile, provocavano un suono incutente terrori simili a guardare "il Silenzio degli Innocenti" in un angusto manicomio criminale .
Ho tentato di guardare la tv, ma le immagini si deformavano trasformando attori e calciatori, c'era pure Lazio - Inter, in mostri malefici. Ho provato a fumare, aprendo la finestra del bagno, ma la sigaretta si consumava in un battibaleno, confermandomi che Eolo è un accanito fumatore e mi deve almeno 3 euro di sigarette!
Finalmente a notte inoltrata il sano Morfeo mi ha portato con sé, facendomi sognare le notti estive, già ricordo golosamente agognato. Naturalmente alla base di tutto resta il vaffanculo rivolto a tutti quelli che, smerdando il pianeta, non credono ai cambiamenti climatici, da Trump a quel novello presidente brasiliano, autentico e certificato fascista.
Spiegazione
Da informazioni riservate di grandi giornalisti pare che la Raggi sia stata un mese in vacanza a Milano. Tutto spiegato quindi...
lunedì 29 ottobre 2018
Domanda
domenica 28 ottobre 2018
Visione
Non ci vuole molto ad immaginare un futuro non troppo lontano coi viottoli, i sentieri stupendi, infarciti da troppi ed insolenti “ciao Pievemanuele anche voi qui? Come stai? E Bonny, Lula, Gianovaziocavmelo? Guavda che panovama stupendo, mi vicovda il Vietnam che abbiamo visitato lo scovso mese, non tvovi? L’unica cosa che stona qui sono questi indigeni e il lovo dialetto, pvegno di belin! Ma ho consigliato al bavista di metteve il caffè a tve euvo, così questa poveva gente se ne andvà finalmente in altvi lidi! Ciao tesovo! Salutami tanto anche Giancavlovazio e Funny! Avete già pensato alla mise per la pvima alla Scala di quest’anno? No? Dai su sbvigatevi pevditempo!”
M’inchino!
domenica 28/10/2018
Distinguere per capire
di Marco Travaglio
Quando manca l’opposizione, quel vuoto lo riempiono le piazze. Piazze diverse, contrapposte, scomposte, contraddittorie, ma piene. E pacifiche. Ottimo sintomo di democrazia. Anche quando chi manifesta non sa precisamente cosa vuole, o vuole l’esatto opposto di quel che vogliono quelli che manifestano nella strada accanto, o peggio vuole una cosa che domani ne causerebbe un’altra peggiore di quella che oggi non vuole. No Tav, sì Tav. No Tap, sì Tap. No alle ruspe, sì alle ruspe. No ai clandestini, sì ai clandestini che anzi non vanno chiamati clandestini. No ai giudici che arrestano Mimmo Lucano perché è un amico, ma no chi attacca i giudici che inguaiano i nemici. No ai migranti perché sotto casa spacciano droga, ma sì ai migranti perché senza la badante filippina, il culo a mia nonna lo devo pulire io. No alla Raggi, ma no anche a Salvini che verrebbe dopo. No al governo Salvimaio, ma no anche al governo Salvisconi che verrebbe dopo. Grande è la confusione sotto il cielo. Le ideologie sono morte tutte: il fascismo, il comunismo, ora il liberalismo mondialista e sviluppista. E nessuno sa bene cosa arriverà al loro posto. Si dice “populismo”, “sovranismo” e altri gargarismi per demonizzare e contemporaneamente esorcizzare una realtà che non si capisce e non si controlla. Spetterebbe agli intellettuali darci una mano a orientarci: ma chi li ha più visti, incistati come nelle trincee dell’establishment in fuga a difendere il posto e la prebenda. Nessuno più ci illumina la realtà, ci dà gli strumenti per comprenderla e per compiere l’esercizio più difficile, nell’appiattimento di questo eterno presente del web che finge di informarci su tutto in tempo reale e in realtà ci ruba la memoria del passato e la chiave del futuro: l’esercizio di distinguere. La società civile americana, incredula e sgomenta dopo l’avvento di Trump, ha riscoperto il valore della carta stampata, come unico spazio di analisi e di approfondimento, e le vendite dei giornali si sono risollevate dopo anni di picchiata. Potrebbe accadere anche in Italia, se i giornalisti sapessero ciò che la gente chiede all’informazione. E invece sono anche loro intruppati, embedded nei carri armati sempre più sgangherati e sbilenchi dei loro gruppi editoriali, aggrappati alle lobby e ai partiti retrostanti. Non spiegano, non raccontano, non analizzano più nulla: tifano pro e contro, nella speranza che la gente distratta o abituata al peggio non avverta il fetore dell’ipocrisia, del doppiopesismo, dell’incoerenza, della censura e dell’autocensura che si leva dalle pagine dei giornali. Lo spread sale? Colpa del governo Conte, ovvio.
Ma quando restava oltre quota 500, ai tempi di Monti, non ci si faceva caso. E neppure a fine maggio, quando schizzò sopra i 300 punti dopo che Mattarella aveva incaricato Cottarelli al posto di Conte dopo il caso Savona, noto terrorista No euro (ora tutti scoprono, stupefatti, che Savona è Sì euro). Con tutti gli errori che possono imputare alla Raggi, le gettano addosso pure la croce del delitto di Desirée, come se i sindaci avessero poteri di ordine pubblico; invece le Prefetture e le Questure nessuno le chiama mai a rispondere – dell’illegalità endemica a San Lorenzo o dei disordini di piazza San Carlo a Torino – perché la colpa è sempre del sindaco (almeno se è 5Stelle). Se il M5S di governo si schiera col Tap perché bloccarlo costerebbe cifre insostenibili, sbaglia perché è incoerente. Ma se la giunta M5S di Torino si schiera contro il Tav perché quell’opera inutile costerebbe cifre insostenibili, sbaglia perché è coerente. Poi, nella pagina accanto, tutti ad accusare il M5S di “dire no a tutto” e bloccare nientemeno che “150 grandi opere”: come se fossero tutte uguali, balsamiche o inevitabili. I giornali che predicavano l’accoglienza per tutti, inclusi gli irregolari, e scambiavano le espulsioni per fascismo anziché per legalità, ora che Desirée è morta scoprono che molti irregolari africani delinquono e vanno espulsi.
Distinguere è di per sé difficile. Ma diventa impossibile quando si parte da un pregiudizio. Se hai deciso chi ha sempre ragione e chi ha sempre torto, non puoi distinguere. E neppure comprendere chi cerca di farlo. Ieri abbiamo criticato Di Maio per l’assurda polemica con Draghi, che in realtà ce l’aveva con gli urlatori leghisti No euro e tendeva una mano alla parte più ragionevole del governo e dunque anche a lui. Ora ci divertiamo a leggere le reazioni: si va da “persino il Fatto scarica Di Maio”, a “Travaglio tira la volata a Di Battista”, a “i 5Stelle hanno fallito, lo scrive pure il Fatto”. L’idea che Di Maio abbia sbagliato e un giornale libero gliel’abbia fatto notare, come già sui condoni fiscale, edilizio (per Ischia) e ambientale, non sfiora nessuno. Eppure sono nove anni che facciamo così con tutti. Pronti a elogiare anche chi sbaglia di più, se fa cose giuste: per esempio il Pd, quando con Minniti mise un primo freno all’immigrazione incontrollata. Per esempio i 5Stelle per le tante misure sacrosante già varate: il reddito di cittadinanza, la quota 100 sulle pensioni (merito anche della Lega), l’abolizione dei vitalizi, il pur timido decreto Dignità, la pur perfettibile soluzione sull’Ilva, l’anticorruzione li chiedevamo da tempo immemorabile a chi governava prima (e non governa più anche perché non l’ha fatto). Ma chi non sa distinguere e continua a ragionare con la guerra fredda nel cranio, come nel Novecento, tutto il bene di qua e tutto il male di là, pensa che anche noi siamo come lui: che passiamo la vita a salire sui carri e a scenderne, a imbarcare tizio e a scaricarlo, a sposare caio e poi a divorziare. Rassegnatevi: il Fatto non ha mai sposato nessuno. A parte i lettori, che mai come in questo momento ci sono vicini. E ci fanno sentire poligami.
sabato 27 ottobre 2018
Riepilogo
sabato 27/10/2018
IL DOSSIER
Da Consip al crac Direkta: tutti i guai di papà e mamma Renzi
TUTTO IN FAMIGLIA - LA RICHIESTA DI GIUDIZIO (BANCAROTTA) PER LA MADRE DI MATTEO È L’ULTIMA GRANA DELLA DYNASTY: A GIORNI SI DECIDE SU TIZIANO
di Davide Vecchi
Dopo il padre, la madre. A casa Renzi i guai giudiziari non finiscono mai. I genitori dell’ex premier aspettano l’udienza del prossimo 4 marzo nel processo che li vede imputati a Firenze per fatture false, ma nel frattempo si tengono singolarmente impegnati. Papà Tiziano attende l’esito del fascicolo Consip nel quale è indagato a Roma per traffico di influenze illecite, esito che dovrebbe arrivare a breve. Per Laura Bovoli, invece, pochi giorni fa, come rivelato da La Verità, è stato chiesto il rinvio a giudizio dai magistrati di Cuneo con l’accusa di concorso in bancarotta della Direkta, società piemontese di Mirko Provenzano. Società con la quale mamma Renzi aveva rapporti attraverso la Eventi 6, una delle azienda di famiglia, detenuta dalle tre donne di casa: Laura Bovoli con le figlie Matilde e Benedetta, sorelle di Matteo. Secondo i magistrati di Cuneo, tra le due società più che reali attività commerciali esisteva un rapporto finanziario ritenuto fittizio: quando una delle due aveva necessità di liquidità o di far risultare una operazione, interpellava l’altra, che si prestava. In particolare, secondo l’accusa, Direkta chiedeva pezze d’appoggio retrodatate e la signora Bovoli provvedeva. I documenti individuati, i mandati amministrativi isolati dai magistrati, riportano in calce la firma di Bovoli.
Le indagini di Cuneo hanno preso avvio da uno stralcio dell’inchiesta svolta dalla Procura di Genova sul fallimento della Chil Post, società di famiglia. Nel capoluogo ligure inizialmente i due coniugi sono stati indagati per bancarotta fraudolenta e poi archiviati. Il curatore fallimentare Maurizio Civardi, chiamato a verificare i bilanci della Chil e a valutare come tentare di coprire i debiti per 1,5 milioni, nel novembre 2013 individuò un credito registrato dai Renzi nei confronti di Provenzano e della Direkta per 247 mila euro. Nel tentativo di recuperarli Civardi scrisse all’azienda ma, si legge nella relazione poi inviata ai magistrati, “Direkta ha contestato il debito affermando addirittura di avere a sua volta un credito di 24.109,60 verso la fallita società”.
Da Genova gli atti sono stati inviati in parte a Firenze, sede della Eventi 6, in parte a Cuneo, dove si trova la Direkta. Da qui prendono avvio le diverse indagini. Tra le annotazioni della Guardia di Finanza – che poi individua le fatture false (per opere connesse all’outlet The Mall a Reggello) con un altro imprenditore, Luigi Dagostino, e al rinvio a giudizio dei coniugi Renzi – ce ne sono molte in cui vengono analizzati gli scambi di email. Email che dimostrano come attorno alle aziende ruoti l’intera famiglia di Rignano.
Il 13 gennaio 2016 – quando la Direkta è ormai fallita da due anni –, Provenzano scrive ai genitori dell’ex premier e ad Andrea Conticini, marito di Matilde Renzi, proprio in quel 2016 indagato sempre dalla Procura di Firenze insieme ai fratelli Luca e Alessandro per riciclaggio: secondo l’accusa, avrebbero sottratto e usato a fini personali 6,6 milioni di 10 ricevuti in beneficenza per i bambini in Africa dalla Play Therapy. In altre email, sempre del 2016, figura anche Patrizio Donnini, coinvolto con la sua Web&Press nel disastroso acquisto dei periodici Il Reporter e Chianti News, e con la Soluzione grafica e comunicazione. Donnini è un fedelissimo di Matteo Renzi. La sua ex moglie, Lilian Mammoliti, oltre a essere l’ideatrice e animatrice storica delle kermesse alla Leopolda, era socia della Dot Media di un altro dei fratelli Conticini, Alessandro, indagato per appropriazione indebita e pure di truffa con il terzo, Luca.
Donnini è stato più volte adoperato dal segretario del Pd per le campagne elettorali degli esponenti dem. Curò anche il tentato sbarco di Alessandra Moretti alla guida della Regione Veneto. Con risultati simili a quelli delle aziende nate a Rignano.
Nelle indagini di Cuneo, il ruolo centrale lo svolgeva Laura Bovoli. Tiziano nella Eventi 6 non ha mai ricoperto alcun incarico, ha un contratto come agente. Contratto che rappresenta la sua unica entrata e, come ha ricostruito la Guardia di Finanza fiorentina, registra un’ascesa in proporzione all’incremento del volume di affari della società negli anni in cui il figlio è premier. Nel solo 2014, quando il fu rottamatore varca la soglia governativa, il fatturato della Eventi 6 aumenta del 117% e l’utile addirittura di 63 volte. La dichiarazione unica di Tiziano Renzi negli anni 2015, 2016 e 2017 cresce progressivamente: 65 mila, 120 e 150 mila. Nonostante il ruolo esterno, il papà dell’ex premier è molto attivo nelle scelte strategiche, come dimostrano sempre le numerose email allegate agli atti prodotti sia dalla Procura di Firenze sia da quella di Cuneo. Ma la famiglia, ormai si sa, è molto unita.
Il Giornalista
Se i vari italici pennivendoli, al tempo dell’Era del Ballismo, si fossero comportati come lui oggi, molti fattacci non sarebbero mai avvenuti, a cominciare dal vedere ancora in giro cialtroni affamati dì visibilità e d’alto rango.
sabato 27/10/2018
Il nemico sbagliato
di Marco Travaglio
“Draghi avvelena il clima invece di tifare per l’Italia”. Questa replica di Luigi Di Maio alle dichiarazioni del presidente della Bce denota una buona dose di infantilismo e di inadeguatezza. E non è degna di un vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo. Ma neppure di un leader politico che dovrebbe essere sintonizzato con i cittadini o, quantomeno, con i suoi elettori. Chiunque abbia qualche euro da parte, incluso chi vota 5Stelle e Lega, è allarmato dallo spread che non accenna a calare e per le turbolenze e le speculazioni sui mercati che portano con sé i guai delle banche imbottite di titoli di Stato e i declassamenti del nostro mostruoso debito pubblico. Cioè danneggiano le tasche non degli speculatori, che anzi ci campano, ma dei risparmiatori, che ci rimettono. E anche il più gialloverde dei risparmiatori sa benissimo che cosa merita di essere ascoltato fra le analisi argomentate di Draghi e le repliche sgangherate dei ministri italiani. Draghi, oltre a essere uno dei più autorevoli e stimati personaggi che vanti oggi l’Italia, non è un euroburocrate in campagna elettorale, diversamente dai vari Oettinger, Moscovici e Juncker. E non è neppure un nemico dell’Italia, visto che si è scontrato duramente con gli ultrà tedeschi, filo-tedeschi e anti-italiani allergici alle cannonate del Quantitative easing che con l’acquisto massiccio di titoli di Stato ha aiutato per cinque anni i Paesi europei più indebitati, Italia in primis.
Se Draghi avesse voluto associarsi ai giochini ributtanti della Commissione europea per rovesciare o commissariare il governo gialloverde, non gliene sarebbero mancate le occasioni. Invece ha fatto esattamente l’opposto: ha spiegato più volte che le parole, con mercati così sensibili e volubili, pesano come pietre, e che chi dall’opposizione sale nelle istituzioni dovrebbe cambiare linguaggio, perché anche le sparate degli urlatori grillo-leghisti fanno danni incalcolabili. Quanto alla manovra, non l’ha mai presa di petto, anzi ha ricordato che non è la prima volta che l’Italia o un altro governo europeo sfora i limiti fissati e si è detto favorevole a un compromesso fra Ue e Italia e persino ottimista sulla possibilità di ottenerlo. L’ha ripetuto l’altroieri (“Sono fiducioso che un accordo sarà trovato”), anche se Di Maio&C. non se ne sono accorti. Ed è arrivato a dire che allo spread contribuiscono più le uscite degli urlatori anti-euro (ormai esclusivamente leghisti, specie dopo le rassicurazioni di Conte, Tria, Di Maio e perfino Salvini sulla permanenza dell’Italia nell’eurozona) che non una manovra sul 2,4% deficit-Pil.
Tutto questo, per chi sa leggere anche quello che, per il suo ruolo, il presidente della Bce non può dire, è un assist importante al governo soprattutto ai 5Stelle. Molto diverso dalle minacce e degli ultimatum degli agonizzanti sparafucile di Bruxelles. Tradotto in soldoni: nessuno vi chiede di ritirare la manovra; potreste persino lasciarla così com’è, o quasi; purché mettiate la museruola ai vostri urlatori che regalano appigli agli speculatori, salvo poi dire che parlavano a titolo personale quando ormai il danno è fatto; perché le commissioni Ue passano, ma gli speculatori restano, ed è meglio tenerli lontani dal nostro culo. Se così stanno le cose – e abbiamo ottimi motivi per ritenere che stiano così (leggete Stefano Feltri a pag. 3), e la parte più responsabile del governo (Conte, Tria, Giorgetti, persino il vituperato Savona) l’ha capito da un pezzo – è stupefacente che Di Maio non se ne renda conto e continui a respingere la mano tesa di Draghi, accomunandolo ai rottweiler di Bruxelles e rinunciando a incunearsi fra le divisioni di chi cerca il dialogo con l’Italia e chi vuole la guerra con un occhio alle elezioni. Che Salvini giochi al “tanto peggio tanto meglio”, si è capito: il Cazzaro Verde pensa (o si illude: lo spread preoccupa anche la parte più avveduta dei suoi elettori) di lucrare più voti strillando fino a primavera che ce l’han tutti con noi.
Ma, se abbiamo capito bene, non è questa la strategia dei 5Stelle: al Circo Massimo, Di Maio e Fico hanno annunciato alleanze nel prossimo Europarlamento con tutte le forze che non si riconoscono nel decrepito fronte Ppe-Pse (attualmente al governo), né nella destra salvinian-lepeniana, né nei liberalconservatori dell’Alde (nel cui gruppo peraltro il M5S aveva provato a entrare, invano). Cosa resta? La sinistra-sinistra (che l’altroieri, con Mélenchon e altri, ha difeso la manovra italiana nell’indifferenza dei 5Stelle) e i Verdi (i più simili ai pentastellati, malgrado le diffidenze reciproche). Se non vogliono stare né con chi ha rovinato l’Europa né con chi vorrebbe distruggerla definitivamente, ma con chi vuole cambiarla seriamente, i 5Stelle dovrebbero cambiare linguaggio e uscire dall’infantilismo che ieri ha portato Di Maio a mandare a quel paese Draghi, cioè l’unica autorità europea che non fa campagna elettorale contro l’Italia e tenta, per quel che può, di aiutarla. Dargliene atto e comportarsi di conseguenza, magari iniziando a pensare a una patrimoniale, non significa ritirare o stravolgere la manovra, cedere ai diktat dell’Ue, dei mercati e dello spread, rinunciare a dialogare con la Russia (lo chiede anche Prodi, molto più “amico di Putin” di Salvini, che manco lo conosce) o con Trump (chi si scandalizza per la sua telefonata a Conte dimentica 70 anni di alleanza con gli Usa e i salamelecchi di Gentiloni a The Donald) o con la Cina. Significa guardarsi dai veri nemici, distinguerli dagli amici insospettabili, parlare un linguaggio da statisti e non da asilo Mariuccia o da osteria, smetterla di fare gli struzzi per esorcizzare la dura realtà dei numeri. Cioè fare gli interessi del tanto strombazzato “popolo”.
venerdì 26 ottobre 2018
Ditemi perché!
Lite Corona - Blasi
Guardo, perché sono curioso, video come quello qui sopra e mi domando istantaneamente: perché?
Perché ospitare gentaglia di quel calibro, tale Fabrizio Corona, al quale solo un sano, idratante, definitivo, ricostituente anonimato renderebbe ogni bene, per lui e per noi?
Con il dovuto rispetto e le necessarie differenziazioni: inviti Sgarbi a parlare non di arte, il suo cavallo dorato, ma di politica e che ti aspetti?
Guardi il filmato del compleanno di Fedez organizzato da quell'acchiappa allocchi della Ferragni e t'inalberi pure?
Guardi il grande fratello, e già per questo dovresti a parer mio essere messo in lista per un decoroso Tso, nel quale invitano codesto pluripregiudicato pregno di nefandezze più che la Leopolda di cazzate, e grugnisci pure la tua contrarietà?
Dai, per favore! Solo i cercopitechi possono ancora immaginare che il trash più profondo non sia stato organizzato ad hoc per far schizzare lo share!
Smettetela vi prego, se per caso lo facciate naturalmente, di interessarvi a spazzatura di questo livello! Cercate di farvi ammaliare da un film, un quadro, un libro, da della buona musica, dal frinire delle cicale, da saltimbanchi, da un programma di storia, di arte, di musica. Non cadete in quei tranelli mediatici studiati ad arte per farvi affievolire sensibilmente le vostre risorse neuronali.
Di Corona conosco solo la birra. Il resto è letame.
Sportivamente
E' proprio vero che se il Trota, la Gelmini, la Madia, Toninelli e Moscovici, quello che quand'era al governo francese faceva il 3% di deficit ed ora ci bastona per un 2,4%, sono riusciti a diventar protagonisti in politica, le chance di emergere sono per tutti, ma proprio tutti. Ma colui che già nel nome ricorda una supercazzola di tognazziana memoria, Tiémoué Bakayoko, supera ogni più ardita previsione. Una reincarnazione del padre di tutte le loffe calcistiche, Luther Blisset, che dovrebbe mandare colui che l'ha acquistato in uno strameritato ed eterno Tso, non foss'altro per una questione di dignità.
Vederlo giocare con i sacri colori induce a sviare, a distogliersi dalla visione di un match per cercare pace e compostezza in altri lidi, curling compreso.
Nell'acida notte post derby in cui "come-se-fosse-antani-Bakayoko" ha sciorinato tutto il suo talento, una raccolta di fetecchie inesauribile, l'unico barlume di speranza per il divenire s'incentra nelle parole post match di un grande ed inossidabile uomo, il Ringhio di tutti noi, al solito schietto e spietato pure con sé stesso, impegnato ahimè a preparar bagagli, come le regole di questo gioco glacialmente prevedono, lasciandoci nello sconforto più per la visone di quest'ameba Tiémoué, che per la sua probabile partenza.
Apo-Scanzi
venerdì 26/10/2018
A ciascuno la sua apocalisse (politica)
di Andrea Scanzi
È ormai noto che moriremo tutti. Tale rivelazione, invero insita nella natura fallace del genere umano, è divenuta ancor più ineluttabile con l’avvento del Salvimaio. Il quale, si sa, ha come unico obiettivo quello di condurci tutti all’Apocalisse. È dunque certo che non solo creperemo, ma lo faremo pure malino, smarriti come un uomo di sinistra alla Leopolda e poveri come un Carrefour vilipeso dai Ferragnez. Giacché ogni cosa è dolore ma il dolore non è mai uguale a se stesso, ci attende non una bensì molteplici Apocalissi.
Apocalisse Moscovici. Questo bell’ometto implume passa il tempo a dar patenti di economia e democrazia. Ne ha ben donde: come ministro delle Finanze ha fatto disastri, portando il deficit della Francia al 3% e conducendo il suo partito all’implosione. Eppure sta sempre lì, non mancando di darci dei “fascisti”, “xenofobi” e adoratori di “piccoli Mussolini”. Sorta di Monti francese che non ce l’ha fatta, attende le elezioni europee di fine maggio come i tacchini attendono negli Stati Uniti il giorno del Ringraziamento. Sfortunatamente per noi, e crediamo pure per lui, Moscovici è molto meno simpatico e assai più molesto dei simpatici gallinacei, benché ne condivida forse l’acume politico.
Apocalisse “Antagonista”. Caratterizza quegli ambienti della sinistra che si auto-professa “vera”. Ne riconosci gli adepti perché tengono Internazionale sotto il braccio, come una baguette proletaria, non mancando di incolpare di ogni cosa il barbaro Salvini e il mona Di Maio. Poiché entità superiori, gli “Alternativi” di economia si occupano poco: è un argomento troppo prosaico. Sanno però con esattezza che questa Manovra ci condurrà all’abisso della morale. E di ciò sono intimamente felici, perché in punto di morte non mancheranno di ricordarci che loro ce lo avevano detto.
Apocalisse Monti-Fornero. Duo diversamente comico che ristagna in tivù e ha la ricetta infallibile su come uscire da una crisi che ha fattivamente contribuito ad acuire. Più o meno come avere il figlio malato di tonsillite e scegliere Erode come pediatra.
Apocalisse Renzi. Questa, a ben pensarci, non è una corrente politica ma una recensione inappuntabile: “Apocalisse Renzi”. Quindi è inutile aggiungere altro.
Apocalisse Ischia. È quell’apocalisse autoindotta secondo la quale, in un decreto che dovrebbe parlare dell’emergenza Genova, inserisci un condono tombale a Ischia. E poi, quando ti sgamano, dici che lo hai fatto perché ce n’erano già tre precedenti e tanto valeva velocizzare il tutto per agevolare le ricostruzioni delle case terremotate a Ischia. Più o meno un anno fa, Di Maio disse che si sarebbe iscritto al Pd qualora avesse fatto un condono a Ischia. Eccoci. Niente paura, però: tenendo conto dei concorrenti al Congresso, Di Maio potrebbe pure vincere. E vederlo alla guida del Pd, picchiando un giorno Orfini e quell’altro Faraone, sarebbe pure divertente.
Apocalisse Patrimoniale. La Manovra fallirà e il Salvimaio, come Amato decenni fa, entrerà di notte nei nostri conti correnti. Non solo: Toninelli si intrufolerà nelle nostre case, intendo proprio fisicamente, e col consueto entusiasmo lucido ci porterà via ogni bene. Poi, prima di andarsene, ci fisserà – con quel suo sguardo concentratissimo – per dirci: “Lo faccio per costruire un ponte dove potrete far giocare i vostri figli in autostrada. Un giorno mi ringrazierete”. E se ne andrà in dissolvenza, quasi come nel finale di un film muto.
Apocalisse Sallusti. In cerca d’autore come una comparsa sbagliata in una trasposizione shakesperiana, ha speso gli anni migliori della sua vita a dirci che lo spread era una congiura contro il suo Berlusconi. Ora, invece, ha elevato lo spread a personale monolite e pare solo un Juncker meno rubizzo. Solidarietà.
Apocalisse Berlusconi. Vedi tu com’è la vita: nasci Caimano e finisci Cottarelli.
Apocalisse Gelmini. Uscita non senza fatica dal tunnel dei neutrini, vuol reinventarsi economista e statista. Lecito. Solo che, nel frattempo, Forza Italia è morta. E l’effetto è un po’ quello che susciterebbe vedere Bakajoko che si scalda a bordo campo certo di spostare le sorti del mondo, quando però nel frattempo l’arbitro ha già fischiato la fine della partita. Da tre ore.
Apocalisse Calenda. Particolarmente a suo agio nel ruolo di apocalittico in servizio permanente, è solito prospettarci un futuro da figli di una troika minore. Lo fa con quel suo bel mix da Barca meno preparato e Renzi meno antipatico, interpretato da un Pozzetto che si esprime chissà perché in romanesco. Daje Cale’. Al tema che più preferisce, “Siete tutti ottusi plebei ma io posso salvarvi”, il nostro eroe ha pure dedicato anche un libro. Che sta vendendo più della Bibbia. Non è una battuta: è la prova che questo Paese è smarrito. Tanto smarrito.
giovedì 25 ottobre 2018
Le valige nel girotondo
Frequentando da quasi un mese l'ospedale cittadino, m'accorgo, specie nel meriggio, del variegato girotondo costellato da borse e borsoni, sacchetti di tanti colori portati trafelati da parenti di nuovi allettati i quali, a seconda della tipologia del ricovero, imprimono maggior nervosismo, ansia, nei volti dei parenti spaesati, a volte terrei in viso.
E' un girotondo che non si ferma mai, un continuo andirivieni di cuori ansimanti, di occhi sbarrati, di facce incredule sull'evento da poco avvenuto. Attorno a loro però c'è anche chi, quasi saltellando raggiunge la moglie che ha appena partorito, per festeggiare assieme il nuovo arrivo.
Le borse contenenti oggetti e biancheria raffazzonati ad estrema velocità danno l'idea di quanto sia grande la trepidante attesa, quanto essa continui senza soste, senza pause come lo scopo di alleviare le sofferenze con una semplice vicinanza da parte di chi si ritrova in un attimo a ricercar padiglioni, stanze, letti.
E' la grande prova che ci attanaglia, che scalfisce innate sensazioni che portano a credere che solo agli altri possano capitare disgrazie di simile portata.
Vedo andare a passo svelto giovani ed anziani, trascinando queste borse, questi sacchetti, meteore annuncianti un cambiamento, per alcuni definitivo.
Annaspano, s'intrufolano, ascoltano, parlano sommessamente, girando attorno al pietistico concetto che il nemico è sempre pronto ad azzannarti, per malasorte o malsana gestione della tua salute che sia. In quelle borse c'è la compassione, vincitrice su tutto.
Ahhhh
E ho detto tutto! (Fedez rimani al supermercato assieme alla consorte. Non a festeggiare naturalmente ma nel reparto casalinghi)
Ancora in simbiosi
giovedì 25/10/2018
Chi può e chi non può
di Marco Travaglio
Per semplificarci la vita, le sentinelle del Nuovo Galateo del Perfetto Democratico appostate nei giornaloni dovrebbero stilare un breve elenco delle parole che si possono usare, di quelle che non si possono usare e soprattutto di coloro che possono usare tutte le parole che vogliono. Così, per saperci regolare. Ieri, per esempio, monsieur Pierre Moscovici, nostro nuovo maestro di vita, dopo averci dato degli “xenofobi” e accusati di eleggere “piccoli Mussolini” solo perché non votiamo come vorrebbe lui, ci spiega che tirare fuori una scarpa e poggiarla sui suoi sacri testi è l’anticamera del fascismo. Ce l’ha con un eurodeputato leghista, tal Ciocca, in vena di dannunzianesimo all’amatriciana, anzi alla cassoela, reo di aver simbolicamente calpestato i fogli della sua relazione che bocciava la manovra economica del governo Conte: “All’inizio si sorride e si banalizza perché è ridicolo, poi ci si abitua a una sorda violenza simbolica e un giorno ci si risveglia con il fascismo. Restiamo vigili. La democrazia è un tesoro fragile”. Così fragile da consentire a una salma ambulante, rappresentante di un partito (quello socialista francese) che vale il 5% di continuare a dare lezioni a un intero continente, di anticipare verdetti su leggi non ancora né lette né scritte, di farsi campagna elettorale alzando il nostro spread. E naturalmente di tacere sul governo del suo Paese che viola i diritti umani e le leggi internazionali perseguitando donne straniere incinte e mandando nottetempo la Gendarmerie a Claviere a scaricarci i migranti indesiderati (anche minorenni, ma con l’età taroccata sui documenti ufficiali).
Se il Paese cornuto e mazziato dai Moscovici fosse un altro, le autorità competenti protesterebbero, magari ritirerebbero l’ambasciatore, cose così, e i relativi giornali scriverebbero due righe a nome dei cittadini che si sentono lievemente offesi dalle accuse di fascismo e di razzismo perché votano come pare a loro. In Italia invece, a parte i soliti populisti sovranisti, non protesta nessuno. I giornaloni sono tutti schierati col galletto francese: lui sì che sa far di conto, mica come i nostri peracottari (quando Moscovici era ministro delle Finanze ai tempi di Hollande, la Corte dei conti bocciava regolarmente le sue finanziarie e persino il suo collega del Lavoro lo accusava di trascinare il Paese “alla bancarotta”, infatti per anni la Francia sforò pure il 3%, ma questi sono dettagli). Ieri, per esempio, Repubblica dedicava un puntuto editoriale alla denuncia del “populismo della scarpa” (quella di Ciocca). Come se l’unico antidoto al sovranismo fosse il gallicanesimo.
Quindi: la scarpa sul testo di Moscovici è fascismo, ergo ha ragione Moscovici a darci dei fascisti perché abbiamo un europarlamentare un po’ svitato che si leva la scarpa. Se viceversa qualche populista o sovranista italiano s’azzardasse a dare del fascista a Moscovici, diventerebbe automaticamente fascista, scagionando – per il principio di non contraddizione – Moscovici. Tanto varrebbe stabilire che Moscovici è come Virna Lisi nel vecchio carosello della Chlorodont: con quella bocca può dire ciò che vuole. E gli altri no. Sono fortune che capitano a chi milita dalla parte giusta, cioè nei partiti giusti (quelli in via di estinzione). Un po’ come Renzi, che nella stessa frase riesce a dare dei “cialtroni” a tutti i ministri del governo Conte e a piagnucolare contro le “campagne d’odio” di chi critica lui. Perché cialtrone non è odio: è amore (erano amore anche le minacce di ripulire il Pd “col lanciafiamme”, di “rottamare” gli avversari interni e di “asfaltare” quelli esterni). Se invece, puta caso, il babbo fa affarucci col vicino di casa vendendogli un terreno, e uno lo scrive, è odio. E se la Boschi indossa stivali a mezza coscia e una cronista lo scrive, è sessismo (d’ora in poi, al ristorante, niente cosce di pollo, parlando con pardon: solo ali e petti).
Poi c’è chi milita nel partito sbagliato, tipo Grillo. In una pubblica piazza, da libero cittadino e comico tornato in servizio a tempo pieno, dice quel che pensa dei poteri del capo dello Stato, quelli ufficiali e soprattutto quelli ufficiosi, che ne fanno (da Re Giorgio in poi, non prima) una specie di monarca assoluto redivivo, infallibile, intoccabile, innominabile, ineffabile. Ancora protetto da anticaglie polverose come il vilipendio (tant’è che Bossi rischia la galera non per i 49 milioni rubati dal suo entourage, ma per aver dato del “terùn” a Napolitano). Apriti cielo! I parrucconi di ogni ordine e grado strillano come vergini violate: “Grillo attacca Mattarella”, “Nessuno tocchi Mattarella”, (peraltro mai nominato: il discorso di Grillo riguardava la carica, non la persona). Compresi quelli che, con la controriforma Renzi&Boschi&Verdini volevano stravolgere l’equilibrio dei poteri, inclusi quelli del Colle, con una legge costituzionale, non con un discorso in piazza. Poi Grillo sbeffeggia gli intellettuali e i politici da talk show che, dice, sembrano malati di autismo o psicopatici perché parlano tra sé e sé o a pochi intimi in idiomi incomprensibili ai più. Riapriti cielo! “Grillo insulta gli autistici”, “Grillo offende i malati”, “Giù le mani dalla sindrome di Asperger”. Nessuna protesta invece dagli psicopatici, sempreché non fossero quelli che non avevano capito la frase di Grillo: che non era un insulto ai malati, ma a certi politici e intellettuali. L’ha spiegato ieri Massimo Fini: se dico che i politici sono sordi e ciechi sui bisogni dei poveri, dubito che si offenderebbero le associazioni dei non vedenti e dei non udenti. A meno che non ne facciano parte anche i deficienti. Per capire chi ha offeso chi, basterebbe una famosa barzelletta di Gigi Proietti. “Tutti i laziali sono stronzi”. “Come si permette?”. “Perché, lei è laziale?”. “No, sono stronzo”.
mercoledì 24 ottobre 2018
In simbiosi
mercoledì 24/10/2018
EDITORIALE
Più manette, più soldi
di Marco Travaglio
Siccome siamo notoriamente servi della maggioranza giallo-verde, ieri abbiamo denunciato la scomparsa dai radar di una promessa che avrebbe rafforzato di parecchio le coperture ballerine alla manovra finanziaria. Cito testualmente dalla pagina 21 del Contratto per il governo del cambiamento: “L’azione è volta a inasprire l’esistente quadro sanzionatorio, amministrativo e penale, per assicurare il ‘carcere vero’ per i grandi evasori”. Ma anche dalle parole di Matteo Salvini a Porta a Porta il 18 gennaio: “Sono d’accordo per la galera per chi evade: se io riduco le tasse e tu non paghi, io butto la chiave, sul modello americano”. Persino B., il 22 gennaio, a Non è l’Arena, ebbe un attacco di masochismo: “Pensiamo di aumentare le pene per l’evasione come negli Stati Uniti”. Poi per fortuna non tornò al governo. Ma il vicepremier 5Stelle Luigi Di Maio, ancora il 24 settembre, giurava al Fatto: “A fine settembre nel decreto fiscale verrà previsto il carcere per chi evade”. Invece nel dl fiscale il carcere per gli evasori non c’è: c’è invece il condonino, così “ino” e poco conveniente che ne profitteranno in pochissimi. E meno male, intendiamoci: ma allora non si capisce perché venga fatto, visto porta all’erario un gettito (180 milioni, per il Mef) del tutto sproporzionato al discredito che costa ai suoi autori, almeno presso i contribuenti onesti. Ora Di Maio annuncia che il carcere per gli evasori verrà infilato -Lega permettendo - in corsa nella “Spazza-corrotti” del ministro Alfonso Bonafede, che però non è un decreto, ma un disegno di legge, sottoposto agli emendamenti e ai tempi biblici del Parlamento. Campa cavallo.
Invece un governo non dico onesto, ma almeno interessato a fare cassa, avrebbe dovuto fare l’opposto: inserire l’Anticorruzione e l’Antievasione nel decreto fiscale e posticipare l’eventuale “pace fiscale” (così ciascuno avrebbe potuto leggere e capire quel che scrivevano i tecnici del Mef). Perché una normativa severa e dunque dissuasiva contro l’evasione e la corruzione (3-400 miliardi l’anno) porterebbe una montagna di soldi in più del condonino. Quanto basterebbe a finanziare tutti i redditi di cittadinanza, le riforme della Fornero e persino un primo taglio delle tasse (a chi le ha sempre pagate). E qual è l’unico deterrente conosciuto al mondo per quegli imprenditori che preferiscono la scorciatoia della mazzetta ai rischi del libero mercato degli appalti e per quei ricchi che le tasse non le pagano in toto o in parte, nell’assoluta certezza dell’impunità? La certezza della galera. Che oggi è prevista sulla carta, ma nei fatti remotissima, quasi fiabesca.
Per tre motivi. 1) La prescrizione scatta dopo 5 anni o al massimo 7 anni e mezzo (da quando è stato commesso il reato), insufficienti per le verifiche fiscali (che arrivano dopo 2 o 3 anni), avviare le indagini, inoltrare rogatorie, commissionare perizie contabili e ricevere le risposte, celebrare l’udienza preliminare e i tre gradi di giudizio. 2) Le pene sono troppo basse (per i reati fiscali, da 3 a 6 anni massimi), anche perché sono finte: fino a 4 anni non si va in carcere. 3) Le soglie di non punibilità sono troppo alte. Sulla prescrizione, Bonafede ha in mente di bloccarla dopo la condanna di primo grado, ma non basta: deve decorrere da quando il reato viene scoperto. Sulle pene e sulle soglie, nulla ancora si sa. Ma basterebbe copiare uno a caso fra i sistemi penal-tributari dei Paesi più evoluti del nostro, che riescono a mandare davvero in galera molti colletti bianchi, come gli Usa e la Germania (da noi sono poche decine su 50 mila detenuti).
La modica quantità consentita di evasione e frode la inventò il centrosinistra a fine anni 90. Poi, nel 2006, il governo Prodi approvò pure un indulto di 3 anni per i condannati a quasi tutti i reati, fiscali inclusi. Dopo la crisi del 2009, persino Tremonti abbassò un po’ le soglie. Nel 2014 arrivò Renzi e le rialzò a dismisura, rendendo praticamente impossibile non solo la galera, ma persino le indagini e i processi agli evasori. Da allora anche chi s’impegna allo spasimo per finire indagato, imputato e arrestato, non ci riesce. Per commettere il reato di omessa dichiarazione bisogna nascondere al fisco almeno 50 mila euro all’anno (prima era 30 mila). Per quelli di omessi versamenti e dichiarazione infedele, bisogna evadere più di 150 mila euro (prima era 50 mila). Per quello di evasione dell’Iva, bisogna occultare addirittura oltre 250 mila euro. In pratica, chi fa ogni anno 300 mila euro di fondi neri (pari a 150 mila di mancate imposte) non commette alcun reato e non rischia nulla. Invece chi ruba un portafoglio con 100 euro rischia fino a 6 anni di carcere. In Germania non esistono soglie, ma pene modulate sulla gravità dell’evasione: carcere vero sopra i 100 mila euro, fino a 10 anni per i casi più gravi. In Francia la pena massima è 5 anni, ma veri, non farlocchi come da noi. Negli Usa si rischiano fino a 30 anni, e non in teoria: esistono grandi evasori condannati a 27-28 anni. I controlli, a opera di 2300 agenti speciali e specializzati, sono a tappeto: ogni anno un americano ricco su 7 viene ispezionato e il 90% di chi viene indagato viene poi condannato e sconta la pena dietro le sbarre per un periodo medio di 2 anni e 8 mesi, che diventano 3 anni e mezzo per i manager di società (carcere vero, non domiciliari o servizi sociali). In Italia il 98% degli evasori denunciati la galera non la vedono nemmeno in cartolina. E allora, se il rischio è quasi zero e il vantaggio è un mare di fondi neri, perché chi può non dovrebbe evadere? Con una seria legge antievasione e anticorruzione, il governo non avrebbe evitato la bocciatura europea. Ma almeno potrebbe dire ciò che ora non può dire: di aver fatto tutto il possibile.
martedì 23 ottobre 2018
Requiem
Se ne vanno sempre i migliori!
Qui sotto il ricordo di Repubblica.
ETTORE LIVINI,
MILANO È stato, da sempre, l’uomo dei numeri di casa Benetton. Ha guidato la diversificazione della famiglia fuori dal mondo della moda e dei maglioni. Ha spalancato, con alterne fortune, al clan di Ponzano Veneto le porte dell’Olimpo della finanza italiana.
Trasformando il brand dei golf colorati in un colosso diversificato che, malgrado la tragedia del Ponte Morandi, vale in Borsa 14 miliardi. Gilberto Benetton, però, morto ieri a 77 anni dopo una breve malattia, è sempre sfuggito — « per timidezza » , dice chi lo conosce bene — alle etichette facili Per il suo storico braccio destro Gianni Mion — che gli dava del lei dopo 30 anni di lavoro gomito a gomito — era semplicemente il « Sior Gilberto » .
Un finanziere? No, assicurava il diretto interessato: « I miei fratelli mi hanno incaricato di gestire i nostri risparmi fin da ragazzo — si schermiva — ma io non sono un esperto di finanza » .
L’ambasciatore della famiglia presso i salotti buoni? Nemmeno.
L’unico salotto che contava per lui — assicurano gli amici — era quello di casa in centro a Treviso, la stessa di quando i Benetton erano ancora " signori nessuno" e dove con la moglie Lalla ha cresciuto le figlie Barbara e Sabrina. Il buen ritiro dove rientrava appena possibile dai viaggi d’affari in giro per il mondo, evitandosi — se possibile — il fastidio di transitare a Roma o Milano. E basta cercare su Youtube una delle tante interviste concesse a margine delle partite di basket, pallavolo o rugby dei team trevigiani sponsorizzati Benetton per capire che quello, non Piazzetta Cuccia e dintorni, era il suo ambiente.
Chi era Gilberto Benetton allora?
« Un imprenditore dei servizi » , si definiva lui. Un industriale del Nord- est che si è fatto da sé ma senza gli stereotipi degli altri colleghi veneti per cui " piccolo ( e indipendente) è meglio". Un raffinato power- broker in molte grandi partite della finanza tricolore che però — per quanto possibile — ha sempre sfuggito i riti e le liturgie del capitalismo di relazione. Un mondo dove i Benetton erano corteggiatissimi perché erano tra i pochi che i soldi ce li avevano davvero.
Non è stato sempre così. Gilberto, terzogenito della dinastia famigliare, ha perso papà quando aveva quattro anni e tra mille sacrifici è rimasto a scuola fino ai 14 ( « sono quello che ha studiato di più in famiglia » , scherzava spesso). Così quando Luciano, il primogenito, è riuscito a convincere la sorella Giuliana a mettersi in affari con lui per produrre e vendere maglioncini come quello giallo sgargiante che gli aveva fatto e regalato, Gilberto è stato nominato ad honorem il " cassiere" di casa. Lui ha preso il lavoro sul serio. Gli affari sono andati bene, la maglieria ( per un po’) si è rivelata una macchina da soldi e il Sior Gilberto ha iniziato a spenderli fuori dai confini del Veneto. Puntando dritto al cuore della finanza privata italiana ma facendo shopping anche grazie ai saldi di stato degli anni ‘ 90.
« Non siamo mai stati bravi a tenere i rapporti con Roma — si è lamentato spesso — in fondo siamo veneti » . In realtà i suoi successi imprenditoriali più grandi sono quelli costruiti sulle ceneri della partecipazione pubblica. Gestiti con lungimiranza lasciando la gestione — cosa rara tra le dinastie italiane — ai manager e limitandosi a orientarli come azionista. Il primo " colpo" nella capitale è del 1994 quando assieme a Leonardo del Vecchio e ai tedeschi di Moevenpick rileva i supermercati Gs e gli Autogrill. La gestione Benetton rivolta il gruppo come un calzino, fa crescere il marchio Autogrill sulle strade di tutto il mondo e lo trasforma in uno dei leader globale di settore.
Un affare sono pure Aeroporti di Roma e Autostrade per l’Italia, comprate a debito, ripagate in pochi anni, globalizzate e diventate anche loro galline dalle uova d’oro in grado di dirottare fior di dividendi verso Ponzano, una pioggia d’oro in grado di far dimenticare le difficoltà del vecchio business dei maglioncini.
Gilberto è l’anima di questi business e il " teorico" dell’internazionalizzazione. Una ricetta che ha funzionato quando il controllo è rimasto più o meno in famiglia ma difficile da applicare quando i Benetton hanno giocato al grande risiko dei salotti buoni nazionali.
Il " do ut des" con lo Stato, per dire, li ha convinti a entrare in Alitalia con i capitani coraggiosi nel 2009 bruciando qualche decina di milioni nel pozzo senza fondo dell’ex- compagnia di bandiera.
« L’investimento peggiore » , copyright dello stesso Gilberto, è stato quello in Telecom Italia al fianco di Marco Tronchetti Provera. Una Caporetto finanziaria dove la famiglia ha visto andare in fumo qualcosa come 1,5 miliardi.
Buchi che però non hanno scoraggiato il Sior Gilberto che ha deciso di entrare in Generali con una partecipazione del 3% che fa di Ponzano uno dei pivot della " cordata italiana" ( si spera più fortunata di quella di Alitalia) che fa la guardia all’italianità del Leone di Trieste.
Tempo per sé, in questo tourbillon di affari e milioni, Gilberto ne ha avuto sempre poco. Riservato, schivo, ha evitato sempre qualsiasi passerella mondana al netto di qualche apparizione sui campi di golf e l’unico sfizio che si è concesso è Nanook, lo yacht di 49 metri battente bandiera inglese messo in vendita proprio quest’anno.
Gli ultimi mesi per lui non sono stati certo facili. Prima la morte del fratello più giovane Carlo, poi il crollo del ponte Morandi. Dove lui ( con ritardo, gli hanno contestato in molti) è stato chiamato a metterci la faccia per tutti. « Siamo stati in silenzio perché dalle nostre parti è segno di rispetto — ha detto in un’intervista a Il Corriere della Sera — Abbiamo fatto degli errori e quando avremo accertato compiutamente cosa è accaduto verranno prese le decisioni che sarà giusto prendere » .
Uno choc, anche perché in queste settimane si stava chiudendo quello che molti operatori giudicavano come il suo vero colpo da maestro: la fusione tra Atlantia, la cassaforte di famiglia, e la spagnola Abertis per dar vita a un colosso mondiale delle autostrade. L’operazione si farà.
Ma Gilberto purtroppo non avrà il tempo di firmare la fusione.
domenica 21 ottobre 2018
Nell’oggi
Giacomo e Giovanni del Vangelo di oggi mi rinfrancano tanto, confortandomi. Quella loro richiesta “concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra” è l’essenza dell’umanità, la voglia innata di emergere, di elevarsi, di differenziarsi sugli altri. Più del canto del gallo questa esigenza fotografa, senza alcun preambolo fittizio, quell’arsura tanto conclamata, tanto agognata da ridurre ad amebe molti contemporanei, obnubilati dal cicaleccio continuo, ricercante strenuamente mefitica visibilità.
Sante parole
domenica 21/10/2018
AVANSPETTACOLO
Finanzieri, fisici, dottori e showman: Matteo a metà tra Fazio e Bim bum bam
CHE SENSO CHE FA - L’EX PREMIER CAMBIA MESTIERE: LA SUA SAGA È UN TALK SCADENTE
di Daniela Ranieri
Inopinatamente, ma neanche tanto, la diretta streaming del “primo talk della storia della Leopolda” inizia in ritardo. Bisogna aspettare che finisca la finale di pallavolo Serbia-Italia, che gli scaltri autori di Leopolda 9, patriottici democratici, usano come traino. Nell’universo parallelo della Firenze renziana, Renzi è sempre tedoforo dell’Italia che vince, come se lo scalpore del suo sempiterno avvento riverberasse fulgore di medaglie sugli atleti di bandiera (come si sa, gli atleti temevano i suoi auguri come la peste, se arrivava un suo sms gli si gelava il sangue). Confermata la tirannica priorità dei circenses sulla polis, lo show ha inizio (naturalmente poi l’Italia ha perso).
Il grande comunicatore sale sul palco sulla sigla di Ritorno al futuro e si accomoda senza imbarazzo a un tavolo uguale a quello di Fabio Fazio. Ha la camicia bianca aspirazionale: “Oggi posso realizzare il sogno della mia vita e fare il conduttore”, e poi, a freddo: “Fate un applauso a Lorenzo Guerini che adesso è il presidente del Copasir!”. È incredibile: Leopolda-la serie, con tutto il suo contorno di comparse e co-protagonisti (la Bionda, il Dottore, il Campione, il Broker di Borsa), è ormai genere a sé, un capitolo particolare e carismatico nel romanzo di formazione renziano: dalla provincia all’Impero, questa specie di imperatore Adriano senz’arte né parte circondato da una corte di nullapensanti, costretto dalla sconfitta a riorganizzarsi, rinverdisce il repertorio.
“Cominciamo la carrellata di questo Leo-talk (sic) con un uomo che è un mito, una leggenda, che crede che sui social si possa spiegare a persone ignoranti che c’è una Verità e la Verità non è democratica”. Ovviamente è il virologo Burioni, che preferisce disquisire di vaccini con gli sprovveduti di Twitter invece che con gli scienziati e cerca di educare le masse sul principio-cardine che di medicina ne sa di più un medico che un conduttore delle Iene. Nel teatrino di Renzi, che lo voleva candidare, aleggia l’idea subliminale che il Pd sta con la Scienza, mentre i 5Stelle coi ciarlatani che curano il cancro con l’aloe.
Lo sketch è esilarante: “Ci siamo appartati in macchina, Burioni mi ha detto di no”. Il pubblico si scompiscia. Renzi sembra aver ingurgitato litri di Red Bull. Segue lettura de migliori insulti di Burioni agli insipienti dei social. Si ride molto.
“Ladies e gentlemen, Paolo Bonolis!”. Inizia una guerriglia semiotica in cui Renzi, inadeguatissima spalla comica, cerca di essere più brillante di Bonolis, compagno di scuderia via agente dei vip Presta, in un susseguirsi di gag apparecchiate e anacronistiche tipo Vianello-Walter Chiari, rimembranze di pupazzi animati Fininvest, doppi sensi su italiani sodomizzati (da questo governo, non dal suo, che ci amava veramente). In chiaroscuro, Bonolis fa una critica di Internet ed elogia la coerenza; Renzi, che su Internet ha spostato la residenza del suo principio d’individuazione e della non-coerenza è campione olimpionico, finge di riflettere amaramente. “Mandiamo un abbraccio a Suor Paola!”. Questo giovane ci piace.
La giornalista Federica Angeli (“Federica, quando la sconfiggiamo la mafia a Roma?”) dice che i politici che si augurano la chiusura dei giornali fanno lo stesso gioco dei mafiosi; fortuna che è capitata in una edizione della Leopolda in cui Renzi non bullizza “il Falso Quotidiano” su un presunto calo di vendite. “Bisogna investire su scuola e formazione”, dice il fisico Cingolani, a uno che è stato al governo tre anni e non avverte alcun imbarazzo ad applaudire all’idea (e qui ci fa un po’ tenerezza, intrappolato com’è nel suo personaggio, prigioniero della coazione a ripetere o nel coitus sempre interruptus del suo successo).
Appurato che Renzi non sa fare né il governo né l’opposizione, come conduttore di talk pomeridiani, da vedere un giorno tra il lusco e il brusco in una casa di cura, non ci dispiace. Comunque Cingolani ha detto che saremo in grado di emigrare su altri pianeti, quindi al limite c’è ancora speranza.
Lampante
Dai raga, è lampante che la litigata furiosa fosse una sceneggiata! Volevate entrambi spostarvi un po’ più in là rispetto alle promesse elettorali, dai è chiaro! Giggino voleva un “condonino” mai prima d’ora messo in programma, anzi: una di quelle parole che solo a pronunciarla faceva venire orticarie e prolassi dentro il Movimento. Il Cazzaro non poteva tradire in maniera così eclatante i propri supporter tanto affascinati da evasione e ribalderie. Una sceneggiata degna delle Ere precedenti, quella del Puttanesimo e del Ballismo alla giglio magico! Dai raga, fate i seri!
sabato 20 ottobre 2018
Però!
Interessante articolo di Sondra Coggio oggi sul Secolo. E noi che al tempo dell’intellighenzia credevamo, perché durante le verticali di Krug ce lo dicevano loro, di essere tutti collegati al depuratore! Quanto ci mancano i soloni travestiti da muggini dell’era della piazza buren!
Rieccoli!
venerdì 19 ottobre 2018
Un grand'uomo!
Il dottor Massimo Finzi su Facebook
Lettera aperta ad Alessandra Mussolini che minaccia denunce contro chiunque osi infangare la memoria del nonno Benito Mussolini. Il 16 ottobre del 1943 io avevo un anno e mezzo e sono stato tra i fortunati bambini scampati al rastrellamento nazifascista. La mia famiglia ha subito prima l'umiliazione delle leggi razziali volute da suo nonno con perdita del posto di lavoro e poi la scomparsa di tanti familiari finiti nei campi di sterminio.
Non solo infango la memoria di suo nonno ma ne trasmetto l'infamia a futura memoria per le generazioni che verranno. Per sua ulteriore informazione quasi ogni anno passo per Predappio, mi reco al cimitero dove è sepolto suo nonno e non porto certamente un omaggio floreale.
Parole sante!
Niente sbadigli o il popolo si ribellerà
di Roberto Faenza
Azionando il telecomando mi sono imbattuto in una cosa che si chiama Grande Fratello, versione Vip. Sono rimasto così scioccato da sentire l’esigenza di confrontarmi con i lettori del Fatto, ammesso che qualcuno di voi guardi quella roba. Una volta Very Important Person si usava per persone di rilievo. Già, dopo aver visto Crozza imitare la coppia che ha mercificato il povero neonato, mi chiedo perché non intervenga il Tribunale dei minori per levare l’innocente pupo dalle mani dei due venditori. Chi abusa del proprio bebè per far quattrini è degno della patria potestà?
Quanto al Grande Fratello per trovare qualcosa di simile bisognerebbe rivedere Freaks, lo straordinario film di Tod Browning, ambientato nel mondo circense. Mentre nella pellicola si aggirano saltimbanchi senza gambe, macrocefali e mostruosità varie, nel rodeo televisivo è di scena una pseudo marchesa, una contessa che sembra una battona, bellimbusti che piangono a orologeria, ex dive che pur di apparire sono pronte a vendere l’anima, parolieri di talento trasformati in macchiette, cantanti senza voce, giovanotti di bella presenza pronti a esibire i glutei a patto di non doversi esprimere. Un caravanserraglio che nemmeno Fellini, pur uso alla varietà del circo, avrebbe potuto immaginare. Che dire poi di quella showgirl che, dopo aver appena perso un figlio, ritiene sia il palcoscenico l’unico luogo dove sentirsi in pace? Ammetto che dovrei essere aggiornato e guardare anche le trasmissioni delle varie De Filippi, D’Urso, Venier, le nostre regine dei colpi bassi. Se questo è ciò che allieta le masse, per fortuna piace anche Piero Angela. Non che l’uno escluda l’altro, ma il tema della cultura catodica non può essere lasciato al sarcasmo. È qualcosa di profondo che esprime lo spirito dei tempi, una deriva a cervello spento, non priva di effetti collaterali.
Inutile che il Codacons domandi la chiusura delle trasmissioni più becere. La compagnia degli orrori è seguita da milioni, pronti a protestare qualora le vietassero. Viene in mente il Nobel Vargas Llosa quando, di fronte a spettacoli indegni spacciati per meritevoli, ebbe l’impressione di essere lui a non capire ed “essere diventato uno stupido”.
Il trionfo del trash è ormai assurto a categoria estetica. Osservando meglio il campionario ho ravvisato non poche somiglianze con gli antichi giochi al Colosseo. Anche lì il pubblico accorreva per assistere al primo grande show improntato al sadismo estremo. Nani che a un cenno dell’imperatore si esibivano sino a cadere tramortiti, gladiatori che si squartavano a vicenda, teste mozzate che volavano, schiavi crocifissi, sangue che scorreva a fiumi per la gioia degli spettatori, mentre sugli spalti si assaporavano abbondanti grigliate di carni arrostite.
Già allora vigeva il reddito di cittadinanza, se è vero che oltre 150.000 romani vivevano sulle spalle dello Stato. Di quelle antiche gesta hanno scritto con dovizia di particolari Svetonio e Marziale.
A leggerli sembrano le recensioni dei nostri cronisti televisivi. Quanto più gli spettacoli erano atroci, tanto più le masse andavano in visibilio. E quando si trattava di mandare a morte o salvare, il pubblico era felice di votare per questo o per quello, esattamente come fa oggi l’audience di X-Factor, quando si alza in piedi come allo stadio per gridare in favore del proprio beniamino o mandare al macero il rivale. “Il popolo che sbadiglia – scriveva Svetonio – è maturo per la rivolta”. Non lasciamo sbadigliare i nostri teleutenti, facciamo scaricare loro rabbia e frustrazioni.
È un diversivo sempre efficace. Metti mai che gli venga voglia di ribellarsi.
FdM
L’europarlamentare Rosa D’Amato iscritta automaticamente al torneo FdM (Figure di M...)
venerdì 19/10/2018
BUCCE DI BANANA
M5S vuole abolire i vitalizi nell’Ue
L’europarlamentare M5S Rosa D’Amato, ricordando come “prima la Camera dei Deputati e poi il Senato della Repubblica hanno tagliato i vitalizi riservati alla classe politica” si è rivolta in una lettera a tutti i parlamentari di Strasburgo invitandoli a “seguire l’esempio virtuoso che arriva dall’Italia e adeguare il trattamento previdenziale anche dei parlamentari europei”. “La nostra proposta - ha spiegato- è semplice: cambiare al più presto l’articolo 14 dello Statuto dei deputati del Parlamento europeo che disciplina il trattamento pensionistico degli eletti. Abbiamo presentato una proposta di risoluzione e inviato una lettera al Presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, ma non abbiamo avuto nessuna risposta”. La risposta è arrivata invece dal servizio stampa del Parlamento Europeo, che in riferimento alla nota ha precisato che “Gli eurodeputati non hanno diritto ad alcun vitalizio, cioè un’erogazione mensile godibile alla fine del mandato parlamentare, ma solo a un trattamento pensionistico che inizia ad essere erogato al 63esimo anno di età”.
Non ce l'ho fatta!
Ammetto di non avercela fatta! La domanda di questo megaburocrate era troppo invitante. Chiedo venia!
Appello
Dai raga, non è che adesso ogni cinque minuti dovete fare la commedia di fingere di litigare per poi far ingoiare il rospo all'altro che si giustifica coi suoi favoleggiando sul fatto che altrimenti il governo sarebbe crollato!
Dai, che lo spread sta andando forte! Finite questa sceneggiata e levate di torno quel condono in puro stile puttanier-fromboliere!
Dai su che non siamo mica degli orfini!
giovedì 18 ottobre 2018
Cresce l'onda
Cresce a dismisura la mia incazzatura per vicende ospedaliere a cui ho assistito, da parente, a cui atterrito ho dovuto gustarne l'acidità, il mix di sapori nauseabondi, frutto di un cocktail con ingredienti quali disorganizzazione, incapacità e, soprattutto, menefreghismo.
Non è ancora il tempo di far nomi, raccontare fondati e provati episodi al riguardo per un'ovvia ragione legata al fatto che mio padre è ancora ricoverato.
Da spettatore allibito ho visto il procrastinarsi di un semplice esame di giorno in giorno, di volta in volta fino a raggiungere l'incredibile ritardo di ben 16 giorni!
Sedici giorni composti da dolori lancinanti, da notti in bianco, da lamenti biblici, senza che nessuno facesse qualcosa di serio se non il nascondersi dietro a degli antidolorifici.
E badate bene: eravamo sempre presenti, ogni giorno, ad ogni ora, solleticando la professionalità degli operatori, sollecitando cambi di flebo esaurite, chiedendo pareri e consigli. Eppure, l'inefficienza dettata dal lassismo del reparto a fatto sì che l'esame che ha permesso lo sfanculamento del catetere, sia avvenuto a distanza di sedici dannati giorni dal ricovero.
Attendo e ricerco cause, concause, fatti, riferimenti, date, spiegazioni perché la voglia di partire al galoppo verso una giusta svergognata di questi inetti, è enorme.
Penso pure a chi, essendo solo, senza affetto, senza visite negli ospedali italiani deve subire questa presunta incapacità ad attivarsi celermente per lenire sofferenze e problematiche di salute.
Certo, non tutti per fortuna indossano il camice attendendo la busta paga, ci mancherebbe! Provare però sulla pelle di un caro l'insensibilità, la superficialità, una tetra e lugubre professionalità, porta ad assolutizzare, a far di tutta l'erba un fascio.
Tengo dunque ancora il riserbo, non esplicitando oltremodo particolari e nomi; pur soffrendo preferisco il silenzio sulla vicenda, attendendo miglioramenti e quant'altro.
Ma quando sarà il momento darò fiato alle trombe!
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