"Con questo piano non si vuole la pace In Palestina ogni imposizione fallisce"
di Francesca Mannocchi
Gerusalemme
Il 4 settembre 2025, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha inserito Al-Haq nella lista delle entità sanzionate, insieme ad altre due organizzazioni palestinesi: il Palestinian Centre for Human Rights e Al Mezan Center for Human Rights. Secondo la motivazione ufficiale, le tre Ong avrebbero «partecipato direttamente» alle attività della Corte penale internazionale (Cpi) mirate a «indagare o perseguire cittadini israeliani», contribuendo così - nella lettura di Washington - alla «politicizzazione illegittima della giustizia internazionale». La misura si basa sull'executive order numero 14203, firmato durante l'amministrazione Trump e tuttora in vigore, che consente di sanzionare individui o organizzazioni coinvolti nelle indagini della Cpi contro Paesi alleati degli Stati Uniti. In termini concreti, le sanzioni comportano il congelamento di eventuali beni e l'impossibilità di transazioni finanziarie attraverso il sistema statunitense.
Per chi conosce la storia di Al-Haq, la decisione americana ha suscitato stupore e condanna. Fondata nel 1979 da un gruppo di avvocati palestinesi, Al-Haq è considerata una delle più antiche e autorevoli organizzazioni per i diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati. Documenta violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani commesse da tutte le parti in causa - Israele, Autorità Palestinese e Hamas - e i suoi rapporti vengono regolarmente utilizzati da agenzie Onu, missioni d'inchiesta internazionali e tribunali. Dal 2006 la guida dell'organizzazione è affidata a Shawan Jabarin, giurista e attivista per i diritti umani, figura di riferimento nel panorama palestinese e internazionale. Sotto la sua direzione, Al-Haq ha ottenuto riconoscimenti da organismi indipendenti e associazioni internazionali, ma è stata anche oggetto di accuse e campagne di delegittimazione. Nel 2021 Israele l'ha dichiarata «organizzazione terroristica», accusa respinta da Onu, Unione europea e da numerosi governi occidentali.
«Le sanzioni statunitensi, denunciano molte organizzazioni per i diritti umani, rappresentano un precedente pericoloso: colpiscono chi fornisce informazioni alla Corte Penale Internazionale nell'ambito delle indagini sui presunti crimini di guerra commessi a Gaza e in Cisgiordania. Amnesty International e Human Rights Watch le hanno definite «un attacco diretto alla società civile palestinese e alla ricerca di giustizia internazionale». In questo contesto di forte pressione politica, Shawan Jabarin continua a sostenere che il lavoro di Al-Haq non è politico ma giuridico, e che documentare le violazioni rimane «un dovere verso il diritto e verso le vittime».
Cosa pensa davvero di questo accordo? Lo considera un vero piano di pace?
«È un accordo che non si basa su principi di giustizia e sul diritto internazionale. Non mira a portare la pace. Perché per costruire la pace non bisogna escludere i palestinesi, non bisogna ignorarli. Inoltre, affrontare la ricostruzione come un business pone anche una questione in termini di valori umani. Infine, non è possibile per chi è complice di quanto sta accadendo in Palestina, ovvero l'amministrazione statunitense, costruire davvero la pace qui».
Che forma avrebbe la pace che immagina lei?
«Vorrei che si costruisse una pace reale, ma non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza attribuzione delle responsabilità e risarcimento delle vittime. Israele ha commesso crimini e atrocità, e non ha mai dovuto rendere conto delle proprie azioni. La cultura dell'impunità continua, ed è questo il problema principale. Poi c'è l'aspetto umanitario che non può essere trascurato. La crisi umanitaria non prevede compromessi. Ma soprattutto, per costruire la pace va fermata l'occupazione in Palestina, invece siamo davanti alla legge della giungla e non possiamo parlare di giustizia. Perché questa è la legge della giungla e tutti sono responsabili».
Quando parla di responsabilità a chi si riferisce?
«La comunità internazionale è responsabile. Responsabile di non avere imparato la lezione dopo decenni di oppressione, regime coloniale, occupazione e apartheid, come dicono le principali organizzazioni dei diritti umani internazionali. Se si vuole davvero costruire stabilità e pace, bisogna tenere conto dei diritti dei palestinesi, della giustizia e della legge. Questa è, indubbiamente, la lezione principale per tutti i Paesi, altrimenti le storia si ripeterà ancora e ancora. Da decenni vengono fatti accordi che ignorano completamente il diritto internazionale, i diritti come base e la giustizia come modo di affrontare le cose. Non siamo riconosciuti come popolo. Netanyahu è orgoglioso di non riconoscerci. Fin dalla Dichiarazione Balfour del 1917, l'imposizione esterna di "soluzioni" per la situazione in Palestina è fallita perché ha evitato di fare i conti con la condotta persistente e manifestamente illegale di Israele e si è rifiutata di riconoscere le cause profonde della situazione, ovvero la necessità di smantellare, in linea con il diritto internazionale, il regime coloniale annessionista e di apartheid di Israele. Ma biasimo anche i leader palestinesi. Biasimo Mahmoud Abbas. Biasimo tutti loro, perché il nostro futuro, la nostra democrazia, la costruzione della nostra leadership, il diritto di partecipazione del popolo alla vita pubblica non sono qualcosa di negoziabile».
Proprio parlando di leadership palestinese: cosa pensa della decisione di non includere Marwan Barghouti nella lista di prigionieri scambiati?
«Penso che non vogliano vedere in libertà i leader palestinesi e non vogliono nemmeno che i palestinesi possano sceglierli ed eleggerli. Penso che uno come Marwan Barghouti - ma non solo lui - potrebbe mandare un buon messaggio, mantenendo viva la speranza tra la gente e dando vita alla società palestinese. Ma questo è qualcosa che gli israeliani non vogliono. Israele vuole che siamo deboli».
Pensa che questo sia un piano in continuità o discontinuità col passato? Penso in particolare ai piani presentati anche dalla precedente amministrazione Trump.
«Nel 2020, la prima amministrazione Trump annunciò il suo "Accordo del Secolo", presentato come una "visione per un accordo di pace globale tra Israele e palestinesi". Quella proposta respingeva l'applicazione del diritto internazionale ai palestinesi, affermava la definitiva normalizzazione e il sostegno degli Stati Uniti ai crimini di Israele contro il popolo palestinese. Una politica che è stata avallata anche dall'amministrazione Biden. L'ultimo piano degli Stati Uniti è in continuità con questa traiettoria, ripetendo gli stessi errori già fatti nel processo di Oslo».
Che lezione pensa si possa trarre, quindi, dalla storia degli accordi precedenti - Oslo, ad esempio - per valutare i negoziati di questi giorni? Quali sono stati gli errori commessi dopo Oslo e che non andrebbero ripetuti?
«Penso che la base principale da cui tutti devono partire siano il parere consultivo della Corte internazionale di giustizia e la risoluzione dell'Assemblea Generale sull'illegalità di questa occupazione. Hanno provato ad applicare di tutto, tranne il diritto internazionale, le risoluzioni dell'Onu e il rispetto dei diritti dei palestinesi. E hanno fallito in tutto».
Poi c'è il tema della sorte dei prigionieri. Negli ultimi due anni, la situazione all'interno delle carceri è peggiorata come mai prima d'ora.
«È la peggiore di sempre. Mai prima d'ora avrei pensato che Israele potesse arrivare a questo limite. Ma questa non è una dimostrazione di forza, per loro. Anzi. È una grande dimostrazione di debolezza della leadership e della società israeliana. In prigione non danno da mangiare, torturano, uccidono. Non si danno alcun limite».
Qual è la sfida principale che la società palestinese deve affrontare ora?
«La principale sfida che stiamo affrontando ora è quella di mantenere viva la speranza tra i giovani. Di far sì che si concentrino sull'applicazione del diritto internazionale e sull'uso di mezzi pacifici. Perché dall'esterno il messaggio che arriva è ‘siete deboli, nessuno rispetterà la vostra dignità e i vostri diritti».
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