mercoledì 6 agosto 2025

Robecchi

 

Ceto medio soffre le pene dell’inferno e gli resta da mangiare solo un panino
DI ALESSANDRO ROBECCHI
Dovendo qui occuparci di creature immaginarie, lasciamo stare gli unicorni e parliamo di ceto medio. Formula piuttosto vaga, un po’ economica, un po’ sociologica, un po’ comoda per dire molto, ma anche niente. Con una certezza: in Italia il ceto medio – più degli unicorni – soffre le pene dell’inferno, al punto che un recentissimo sondaggio (Demos & Pi, per Repubblica) segnala allarmato che sempre meno italiani si sentono “ceto medio”, con uno scivolamento cospicuo verso il “ceto medio-basso”. Traduco: si sentono (e sono) più poveri, ma vedremo che non è solo questo.
Senza perdersi nella complessità dei numeri, in soldoni, gli italiani che si identificano come “ceto medio” sono oggi il 45 per cento: Erano il 50 un anno fa, il 52 nel 2019 e addirittura il 60 per cento nel 2006, vent’anni fa. Insomma, non è difficile oggi entrare in un bar, o salire su un treno, ed esclamare: “Guarda! Una volta qui era tutto ceto medio!”.
Secondo le tabelle e le regole (che mai come in questo caso sembrano statiche di fronte a una situazione dinamica) sarebbe ceto medio chi guadagna tra i 15 e i 50 mila euro l’anno, il che già rende l’idea della precarietà della formula “ceto medio”. A 15 mila euro, infatti, sei piuttosto povero, a seconda di dove vivi, anzi di dove sopravvivi, e considerarti ceto medio richiede una certa dose di fantasia e ottimismo. Verso i 50 mila, specie se hai figli a carico e abiti in posti con prezzi londinesi, tipo Milano o altre lande che va di moda chiamare “attrattive”, non rischi la povertà – per ora – ma nemmeno puoi ambire al salto di specie verso la riccanza. A tutti sarà evidente la povertà di questa spannometrica classificazione, dato che “ceto medio”, è una categoria più sociologica che economica, che potremmo far coincidere con una categoria politica, cioè quella chi si chiamava, un tempo, “borghesia”, piccola o media anche lei, ma insomma, un gradino sopra il proletariato, a cui guardava spesso con malcelato disprezzo (ricambiata, ovviamente). Questo per dire quanto le parole siano inadeguate.
Ma insomma, non è una cosa nuova, e un’altra ricerca (Cida-Censis, maggio 2025) ci raccontava della crisi: il 45 per cento del “ceto medio” riduce i consumi, e il 51 per cento incoraggia i figli ad andare all’estero. Per quanto sfocate, come tutta la realtà che si ordina in cifre e colonne, sono pur sempre fotografie, e tutte smentiscono un abbaglio durato decenni. La leggenda di quando si credeva, appunto, che fosse tutto ceto medio, si recitava la favoletta che “tanto gli operai non ci sono più” e si teorizzava la fine della manifattura sostituita dal terziario. Via! Tutti impiegati! Hurrà! Dimostrando così, tra l’altro, di non aver capito nulla di capolavori della letteratura politica italiana, tipo le avventure di Fantozzi, che sulla proletarizzazione del “ceto medio” costruì la sua esilarante epopea.
Pure dal punto di vista politico, le cose sono tutt’altro che semplici, anche se una cosa è sicura: il ceto medio aumenta in presenza di una decente redistribuzione della ricchezza, cosa dimenticata da anni. Con, anzi, uno sbilanciamento verso il basso, per cui è sacrilegio e spreco immane aiutare chi resta indietro (esempio: il reddito di cittadinanza) ed è invece giusto e sacrosanto concedere privilegi fiscali ai ricchi (esempio: le ridicole tasse di successione in Italia). Insomma, è la vecchia storia: sul tavolo ci sono dieci panini, i ricchi ne mangiano nove e poi urlano: “Ehi, ceto medio! I poveri vogliono mangiare il tuo panino!”.

Nessun commento:

Posta un commento