Lavorare meno e meglio
DI MICHELE SERRA
Anche Gardaland fatica a trovare lavoratori stagionali, così possiamo aggiornare l’annosa polemica sui “giovani che non vogliono lavorare”. A patto di aggiornarla senza barare (in molti casi orari folli e stipendi bassi non sono un incentivo), è una discussione molto interessante e tutt’altro che “stagionale”. Indica una “perdita di importanza” del lavoro nella vita delle persone giovani, almeno nelle società del benessere.
Che questo dipenda dalla bassa qualità dell’offerta o anche da qualcosa di più strutturale — per esempio una concezione della vita meno incentrata sul sacrificio — credo stentino a capirlo anche sociologhi, sindacalisti, imprenditori.
Sta di fatto che lavorare meno, e possibilmente meglio, sembra essere un’ambizione diffusa.
Se ne deve prendere atto senza moralismi, specialmente noi boomer che, tra tanti torti, abbiamo il merito di avere lavorato molto, e in genere anche volentieri, forse perché l’idea che il mondo fosse tutto da costruire era tipica dei nostri anni di formazione, e molto coinvolgente. Non è più così, al “dover lavorare” non corrisponde più la stessa gratificazione sociale e personale. È inutile lagnarsene, ma è inevitabile chiedersi in quale modo potrà ricomporsi il rapporto tra ciò che si produce e ciò che si consuma, tra ciò che si dà e ciò che si chiede, tra i doveri e i bisogni.
E questo è un mistero la cui soluzione è nelle mani e nelle menti di chi verrà dopo di noi.
Consumare di meno? Vivere più sobriamente, ma con più spazio e tempo per se stessi?
Confidare nell’automazione come motore di ricchezza, ammesso che la distribuzione della medesima sia poi larga ed equa? Sperare che i Paesi poveri continuino a fornire braccia e sudore ancora per qualche secolo? Varrebbe la pena campare almeno un’altra vita per sapere come andrà a finire.
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