giovedì 6 novembre 2025

Il nuovo corso della Grande Mela

 

Dallo zero virgola alla vittoria
l'uomo che ha riacceso la città
di Gabriele Romagnoli
Un anno fa i volantinaggi agli angoli delle strade, ora la presa del potere con un messaggio: rendere accessibile la Grande Mela.
Passa il carro dei vincitori per le strade di New York nel day after. Trasporta ragazzi con la maglietta rossa, il cappellino arancio o la borsa blu che finora non avevano creduto in niente o in nessuno. Trasporta tassisti senegalesi che non riescono a pagare il noleggio della vettura. Bottegai yemeniti rapinati tre volte l’anno. Joyce, una donna di 82 anni che aveva un sogno e non se lo ricordava nemmeno più. Trasporta Jabari, il primo afroamericano gay eletto al Senato. Cynthia, l’attrice vendicata di Cuomo, che la sconfisse nella corsa a governatore.
Emily e Larry, la coppia di giovani professionisti che doveva scegliere: fare un figlio e andarsene, o farne a meno e continuare a vivere in questa città dove si pagano cifre astronomiche per l’affitto e l’assistenza all’infanzia. Trasporta lavoratori e immigrati, emarginati e gentrificati. Socialisti senza un testo sacro. Democratici senza un passato. Ribelli costituzionali che volevano fare — e forse hanno fatto — la rivoluzione armati di una scheda.
Visti da una finestra con i vetri blindati, in alto a destra, “zecche” che hanno infestato Gotham City. Trasporta un milione di persone che quattro anni fa, il giorno delle elezioni, andarono a pesca nel lago del disincanto e invece stavolta c’erano, a raddoppiare i voti espressi e dare la maggioranza assoluta all’uomo che guida la carovana.
In uno dei suoi spot pubblicitari appariva lo spezzone di un film indiano, in cui l’attore chiede:
«Io ho palazzi e proprietà, una casa per le vacanze, un conto in banca e un’auto. E tu che cosa hai?».
Stacco. Appariva Zohran Mamdani, con le braccia spalancate e, guardando l’obiettivo, rispondeva:
«Io ho voi».
E loro hanno avuto lui.
Nel giro di un anno quell’abbraccio non è bastato a contenere tutti quelli che lo hanno cercato. È stata come la leggenda del contadino a cui l’imperatore concede una ricompensa, sentendosi chiedere un chicco di riso per la prima casella di una scacchiera e il doppio per ogni casella successiva, accorgendosi troppo tardi che la richiesta supera la quantità disponibile e subendo una lezione sul valore della crescita esponenziale.
In un video girato un anno fa si vede Mamdani, abito scuro, camicia bianca e cravatta come sempre, fermo agli angoli delle strade con un volantino che contiene il suo programma, mentre tenta di fermare i passanti e coinvolgerli. Tirano dritto, distogliendo lo sguardo come davanti alla sudamericana che vende dolcetti in metropolitana.
In quel momento, nei sondaggi, il suo consenso è in fondo alla tabella, nascosto sotto la voce “Altri”. Detti anche: quelli che non ce la faranno mai. In quel momento i democratici socialisti di New York sono un’associazione semi-clandestina, con sede a Chinatown (dove sennò?).
Dietro un muro coperto di graffiti, una serranda sbilenca e una porta ricoperta di adesivi (“Palestina libera”, “Solidarietà per sempre”), cinque tra reduci di «una battaglia dopo l’altra» e giovani sfaccendati guardano telefoni muti, battendo pigramente sui tasti del computer. Poi uno si alza e affigge alla vetrata il programma del candidato sindaco più improbabile: un musulmano di 34 anni, nato in Uganda, di madre indiana, senza alcuna esperienza amministrativa.
Pochi hanno letto Marx o studiato Proudhon; non c’è ideologia, solo idee concrete (si vedrà quanto realizzabili) per una città accessibile: affitti bloccati, assistenza infantile e autobus gratuiti, drogherie municipalizzate con prezzi calmierati. Si ferma uno, poi dieci, mille.
In quel momento Mamdani ascolta tre persone: un consigliere politico di 26 anni, un’esperta di comunicazione che ha lavorato per Uber e Vogue, una designer indiana patita di Bollywood. Gli suggeriscono: sii diretto (come Ocasio-Cortez e, sì, Donald Trump), sii colorato, sii te stesso.
Mamdani allena quel sorriso stampato da gatto del Cheshire che resta in aria anche quando si allontana. Diffonde ottimismo, ma prima di sposarla confida alla futura moglie Rama: «Non credo proprio di poter vincere». Forse non se ne rende conto: sta costruendo un campo, e loro verranno.
Loro sono i ragazzi che hanno messo il riso sulla scacchiera come fosse un gioco di società: a ogni tot di telefonate fatte o di porte a cui hanno bussato hanno ricevuto i gadget (cappellini e magliette) che non era possibile comprare. A forza di dirlo si sono convinti di star trasferendo una verità: che New York avrebbe potuto diventare accessibile e la carica di sindaco contendibile a uno come Cuomo, che guadagna 5 milioni di dollari l’anno, e ai suoi ancor più ricchi finanziatori.
Giorno dopo giorno la prospettiva si è trasformata in una probabilità, poi in una quasi certezza, da temere perfino. A un anno dalla questua stradale, Zohran Mamdani è diventato il 111° sindaco di New York in 35 minuti netti — il tempo trascorso tra la chiusura dei seggi e la proclamazione del vincitore.
Ha unito le mani al petto e ballato sulle note della colonna sonora di un vecchio film d’azione. Nelle feste sparse i suoi sostenitori si sono stretti, danzando su musica etnica. Ha richiamato il suo inedito pantheon di eroi: da Eugene Debs, fondatore del Partito socialista d’America, cinque volte candidato alla presidenza, arrestato e morto in sanatorio per malattie contratte in prigione, a Nehru, erede di Gandhi, da cui ha tratto la definizione del momento presente:
«Uno di quelli, rari nella storia, in cui finisce un’epoca e l’anima di una nazione, a lungo schiacciata, trova la propria voce».
La sua, e quella di un milione di persone precedentemente silenziose o distratte.
Ogni vincitore trascina il proprio esercito di dimenticati o dimentichi. «Questa città è vostra». È sua, adesso.
La storia tuttavia svolta dopo che si è votato: prima son solo canzonette e manovre. Un’incredibile campagna elettorale non fa un’amministrazione credibile. E succede, a volte, che l’imperatore, per stizza o per autodifesa, con un calcio ribalti la scacchiera.

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