Gerusalemme trent’anni dopo
di Michele Serra
Quel fanatico assassino è genitore morale dei coloni sopraffattori, del nazionalismo impazzito di Netanyahu e dei suoi ministri razzisti. Se è vero che a volte basta una grande personalità per mettere in moto cambiamenti virtuosi di intere società, basta un pidocchio assassino per uccidere in culla la buona volontà.
Nel reportage di Guido Rampoldi da Gerusalemme, scritto pochi giorni dopo quel delitto e ripubblicato sul sito di Repubblica, si leggono queste parole: «da mezzo secolo una lunga storia di sangue e una specie di inibizione etnica impongono ai due popoli di ignorare il lutto che colpisce il campo avverso. E così è stato anche per la morte di Rabin, ignorata dalla società palestinese, e rinchiusa dalla società israeliana nello sgomento per il tradimento etnico, per “l’ebreo che uccide l’ebreo”».
Ignorare il lutto che colpisce il campo avverso: sembra oggi. E così né gli israeliani né i palestinesi capirono che il bersaglio del fanatico — ciò che odiava — era il tentativo di convivenza e di pace. E dunque quel delitto colpiva allo stesso modo i due popoli.
Nelle ore del lutto Arafat, già in declino perché (come Rabin) non abbastanza feroce con il nemico, uscì da Gaza, andò a Gerusalemme (scortatissimo) e in casa dell’ucciso pianse assieme ai suoi familiari. Tolti di mezzo Arafat e Rabin, hanno trovato la strada spianata Hamas e Netanyahu.
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