La democrazia in mano al big business (e ai grandi evasori)
DI STEFANO BARTOLINI
Professore di Economia Politica all’Università di Siena
Una soluzione consiste nell’ampliare la base imponibile tassando multinazionali e super-ricchi, i cui enormi patrimoni sfuggono. Secondo il Tax Justice Network, il gettito perduto ammonta a 212 miliardi di dollari per i Paesi ricchi, mentre a livello globale si tratta di 492 miliardi: circa 348 per lo spostamento di profitti all’estero e 145 per l’occultamento di ricchezza offshore. Le multinazionali eludono le tasse grazie a manovre contabili che permettono loro di pagarle nei paradisi fiscali: una delle soluzioni proposte è imporre di pagare le tasse nei Paesi dove si vendono beni e servizi. L’Onu e l’Ocse stanno lavorando per raggiungere un accordo internazionale in questa direzione. Fin qui tutto sembra sensato: i Paesi ricchi avrebbero molto da guadagnare e la torta è grande abbastanza da risollevare anche le finanze di molti Paesi a basso e medio reddito. Ma questa storia ha un finale a sorpresa. Non ci sarà una tassazione equa delle élite perché i Paesi ricchi si oppongono: Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Israele, Giappone e Corea del Sud, e i Paesi europei si accodano. Molti credono che le élite economiche sfuggano alle tasse grazie ai paradisi fiscali, ma la realtà è che i paradisi fiscali sono la foglia di fico che nasconde l’opposizione dei Paesi ricchi alla tassazione delle grandi potenze economiche. Come si spiega questo, se va contro gli interessi nazionali? Gli studi dimostrano che le multinazionali e i super-ricchi esercitano un’enorme influenza sulla politica occidentale. La democrazia è in mano al big business. Non è sempre stato così: per molti decenni, dal secondo dopoguerra, le democrazie europee hanno prodotto decisioni a beneficio di ampie fasce di popolazione. Ma oggi siamo scivolati in quella che Colin Crouch chiama “postdemocrazia”, un sistema in cui il potere politico è concentrato nelle mani di un’élite economica. Gli attuali sistemi politici dei Paesi ricchi mantengono le apparenze democratiche (elezioni, libertà di parola…), ma falliscono nel loro scopo originario: allargare la partecipazione popolare. Questa involuzione spiega la crisi di fiducia nella democrazia. Dunque la spiegazione dell’opposizione autolesionista dei Paesi ricchi è semplice: le decisioni politiche non vengono prese nell’interesse della maggioranza, ma dell’élite economica. Il boicottaggio della tassazione delle multinazionali è forse l’esempio più spettacolare di postdemocrazia. Come siamo arrivati a questo punto? La globalizzazione ha mutato i rapporti di forza tra politica ed economia. Gli Stati sono sottoposti al ricatto del capitale transnazionale e, per attrarlo, accettano sconti fiscali e abbassano gli standard di protezione del lavoro e dell’ambiente. Un altro fattore cruciale è il finanziamento della politica: le campagne elettorali, sempre più costose, richiedono grandi risorse economiche e le grandi imprese sono finanziatori ideali. Questo legame rende la politica molto sensibile ai loro interessi. Il risultato è un sistema politico che non protegge gli interessi nazionali.
La narrazione dominante è che le alternative sono due: democrazia e autocrazia. Ma è una narrazione pericolosa. Secondo il Rapporto del Censis del 2019, il 48% degli italiani vorrebbe “un uomo forte al potere”. Tendenze simili si registrano in molti altri Paesi europei. Il discredito della democrazia attuale porta acqua al mulino di quella che viene presentata come sua unica alternativa: l’autocrazia. L’importante sarebbe capire che le alternative in realtà sono tre: la postdemocrazia, l’autocrazia e la democrazia. Quella vera.
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