venerdì 18 aprile 2025

Natangelo




Il nuovo libro di Antonio

 

Antifascisti di oggi, perseguitati solo dentro il salotto tv
DI ANTONIO PADELLARO
Padellaro e le “facce da Ventotene”. Il Museo della Liberazione di via Tasso è quasi sempre vuoto, mentre i partigiani immaginari occupano le trincee del dibattito pubblico, in politica e televisione
È vero, come scrive Marco Travaglio nella prefazione di Antifascisti immaginari, che “le nostre chiacchierate mattutine dopo aver letto i giornaloni, e serali dopo aver assistito o partecipato a questo o a quel talk show” mi (ci) hanno istigato a scovare le “facce da Ventotene”: cioè i finti martiri che si atteggiano a perseguitati di un immaginario regime, sempre sul punto di essere deportati in qualche isola sperduta. Così Marco ne tratteggia l’angosciato profilo: “Intellettuali, scrittori e giornalisti che aspirano alla censura, al bavaglio, all’esilio e intanto continuano a troneggiare sulle maggiori tv (anche quella della famigerata TeleMeloni), ma non riescono a levarsi dal volto quell’espressione sgomenta da novelli Matteotti della mutua”.
Quando, una domenica di alcuni mesi fa, visitai la cella del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo in via Tasso mi domandai come mai quel Museo storico della Liberazione fosse in un giorno festivo pressoché privo di visitatori. Eppure, nella triste palazzina del quartiere San Giovanni i nazifascisti avevano perpetrato i loro delitti imprigionando e torturando chiunque fosse soltanto sospettato di cospirare contro gli occupanti con la svastica e i loro scherani in camicia nera. Pensai che mentre quegli eroi dell’antifascismo, che con il loro sacrificio avevano restituito la libertà all’Italia e agli italiani, venivano ricordati quasi esclusivamente in occasione delle commemorazioni ufficiali, l’antifascismo immaginario, strumentale e piuttosto finto troneggiava nel dibattito pubblico, politico e televisivo, usato preferibilmente per sparare (a salve) contro il governo Meloni.
I disastri combinati dalla destra al potere sono sotto gli occhi di tutti. A cominciare da una compagine ministeriale funestata da ministri processati per truffa e falso in bilancio e altri che un’amante troppo invadente ha costretto alle dimissioni. Per non parlare dell’attacco alla magistratura scatenato dagli emuli del peggior berlusconismo. Debole con i forti (la sottomissione alla Nato) e forte con i deboli (i record di povertà assoluta, la persecuzione degli immigrati non regolari) abbiamo un governo che subisce i peggiori attacchi dell’opposizione da salotto quando si tratta di evocare il rischio di un’altra, imminente Marcia su Roma. È il coro degli indignati speciali che si alza in occasione dell’annuale pellegrinaggio a Predappio di qualche centinaio di nostalgici avvinazzati. Oppure quando, a Roma, i manipoli di CasaPound e Forza Nuova vivono il loro quarto d’ora di celebrità sfoderando labari e saluti romani, purché a favore di telecamera.
Capita infatti che fascismo da burletta e antifascismo immaginario diano luogo a un reciproco teatrino nel quale si sostengono (e si legittimano) a vicenda. A pochi giorni dal 25 aprile e dall’Ottantesimo anniversario della Liberazione si paventa il rischio che le nuove generazioni possano restare distanti da quegli eventi la cui memoria non accenderebbe in loro interesse e passione. Probabile che sia così se si pretende di coinvolgerli con le solite frasi di rito o somministrando loro pistolotti intrisi di retorica. C’è forse da meravigliarsi se il finto antifascismo procuri generalmente diffidenza o distacco? Figuriamoci in quelle menti giovani che per emozionarsi hanno necessità di capire e toccare con mano. Allora portiamoli a via Tasso, a Sant’Anna di Stazzema e in ogni altro luogo segnato dalle stragi nazifasciste dove potranno capire che cosa significa donare la vita per la propria patria. Dove forse sapranno distinguere tra la realtà che sanguina e urla e un videogioco. Fate loro vedere a via Tasso le pareti delle celle graffiate con le unghie dai prigionieri, le incisioni strazianti a cui affidare l’estremo messaggio per le madri, le compagne, i figli, sul punto di essere tradotti dalla Gestapo nelle camere di tortura. Lo stesso destino che accompagnerà il colonnello Giuseppe Montezemolo per cinquantotto giorni rinchiuso in una cella completamente buia. Descrivete loro il tormento di un uomo, di un soldato che come la moltitudine di uomini e di soldati che si batterono contro la dittatura, non cedette alle angherie degli aguzzini. Rifiutò di barattare il suo onore con la sopravvivenza e finì trucidato alle fosse Ardeatine. Conosciamo le sentenze del tribunale supremo dell’antifascismo immaginario. Quello che arrivò a tacciare di fascismo l’antifascista Giampaolo Pansa, reo di aver pubblicato Il sangue dei vinti sugli eccidi di cui si macchiarono nel dopoguerra le bande partigiane assetate di vendetta. Egli ci ha insegnato che il vero giornalismo non fa sconti a nessuno, soprattutto a chi vanta presunte superiorità morali in forza di un’appartenenza politica. È la lezione che noi del Fatto cerchiamo di non dimenticare.

Vauro

 



Analisi somma

 

L’auto-Liberazione
DI MARCO TRAVAGLIO
Nel Paese dove il primo che passa dà lezioni di storia ad Alessandro Barbero per aver segnalato le analogie tra il riarmo e il bellicismo di oggi e quelli che portarono alla Prima guerra mondiale, può accadere di tutto. Anche che il presidente forzista del Piemonte Alberto Cirio celebri “i tanti alpini morti nella campagna di Russia per la nostra libertà”. Cioè le truppe dell’Italia fascista che aggredirono l’Urss con quelle naziste. I media l’han liquidata come “gaffe”, ma è stata tutt’altro. Nelle stesse ore l’alta rappresentante per la politica estera Ue, l’estone Kaja Kallas, intimava agli Stati membri di disertare le cerimonia del 9 maggio a Mosca per l’80° Giorno della Vittoria contro il nazifascismo. A cui l’Urss pagò il più alto tributo di sangue (25-28 milioni di morti). E perché mai i Paesi liberati dovrebbero dimenticare il loro principale liberatore? Perché, spiega la Kallas, “Putin è un dittatore”. Se è per questo lo era, e all’ennesima potenza, pure Stalin. Eppure Roosevelt e Churchill non fecero certo gli schizzinosi.
L’anno scorso la Russia non fu invitata agli 80 anni dello sbarco in Normandia: però c’era Zelensky, anche se mezza Ucraina aveva accolto come liberatori i nazisti invasori e tuttora venera il collaborazionista Bandera come eroe nazionale. Il 27 gennaio si è commemorato l’80° anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa, ma per il terzo anno consecutivo non erano invitati rappresentanti di Mosca (fa fede La vita è bella di Benigni, dove sono gli americani a liberare i lager nazisti). Da tre anni, all’Onu, i Paesi Ue e Nato votano contro (come Usa e Ucraina) o si astengono sulla risoluzione di Mosca per “la lotta alla glorificazione del nazismo e del neonazismo, che contribuiscono ad alimentare forme contemporanee di razzismo, xenofobia e intolleranza”: non vogliono contrariare Kiev, che si tiene nell’esercito milizie neofasciste e naziste con svastiche e simboli SS, finanziati e armati da noi “antifascisti”.
Del resto Putin, i cui genitori scamparono per miracolo all’assedio nazifascista di Stalingrado dove morì di difterite uno dei suoi fratelli, è il “nuovo Hitler”. La Russia viene continuamente paragonata al Terzo Reich, anche da Mattarella. E il Parlamento Ue ha appena equiparato il nazismo al comunismo che lo sconfisse e definito la Russia “la minaccia più grave e senza precedenti per la pace nel mondo”, più delle orde barbariche, di Napoleone e di Hitler. Quindi il povero Cirio non ha fatto che unirsi alla riabilitazione del Führer in funzione anti-Putin. Chi grida alla gaffe farebbe meglio ad annullare o rinviare sine die le celebrazioni del 25 Aprile per gli 80 anni della Liberazione. Con l’aria che tira, nessuno sa più chi ci liberò. E da che cosa.

L'Amaca

 

Non servono le astronavi
di MICHELE SERRA
L’idea che quasi certamente esistano, sparse per le galassie, altre forme di vita, ma la distanza che ci separa da loro è tale che non solo non potremo mai conoscerle direttamente, ma forse neppure riusciremo a comunicare con loro, per quanto mi riguarda è molto confortante.
Lascia intendere che esista almeno qualcosa che non è alla nostra portata. Che non sia programmabile la sua “scoperta”, che poi in genere significa la sua conquista. Che non ci saranno altri “indiani” da sterminare, come i nativi americani, e al tempo stesso gli umani non saranno gli “indiani” di alcuno, ammesso che esistano, nell’universo, esseri altrettanto aggressivi e sterminatori quantohomo sapiens ha dimostrato di essere.
Così, ogni volta che leggo qualche notizia sui segnali di vita dal cosmo, mi rallegra scoprirne l’incolmabile lontananza. Il lancio quasi parodistico delle Bezos girls a cento chilometri dalla Terra (in proporzione alle distanze celesti, è come se avessero alzato il tacco delle loro scarpe di un millimetro) e le ventilate spedizioni di Musk su Marte sono, nella vastità del cosmo, impercepibili inezie.
Saperci così spersi e insignificanti dovrebbe e potrebbe renderci migliori, o meno peggiori.
Accettare il limite e riscoprire la Terra come casa comune e come madre. Dismettere un poco di boria e usare l’intelligenza, che non ci manca, per esplorare noi stessi. Non servono nemmeno astronavi: siamo già qui.

Ragogna!

 



giovedì 17 aprile 2025

Grande Gioggia!


Queste sono vittorie! Brava Giorgia! Da Washington è tutto, a voi studio!



Fobia




L'incontro

 



Natangelo

 





Ci salvarono

 

L’Urss sconfisse i nazisti (ma non ditelo a Kallas)
DI DANIELA RANIERI
È decisamente il momento d’oro di Kaja Kallas, Alta Rappresentante per la Politica Estera e la Sicurezza dell’Unione Europea, la nuova eroina dell’Europa delle bombe e dei mortai a difesa dei nostri valori.
Ex premier dell’Estonia (come già suo padre) e leader del Partito Riformatore Estone, un partito liberale di destra fondato sul Nato-atlantismo bellicista, ciò che fa di lei un po’ la Calenda dei Baltici (infatti al Parlamento europeo siede nel frizzante gruppo Renew Europe di cui farebbero parte anche Azione e Italia Viva se avessero eletto qualcuno), Kallas è colei che sta decidendo le sorti militari, economiche e sociali dell’Unione. Sarà il clima euro-interventista, sarà che la Von der Leyen, col suo piano di riarmo da 800 miliardi talmente popolare che gli hanno dovuto cambiare nome nella speranza che la gente pensi sia stato modificato, è un po’ in disuso; fatto sta che la Kallas ti infila in due giorni: una bacchettata sulle mani a Trump (“La colpa della guerra è dei russi. Non di Zelensky, non di Biden”), tanto per non rendere le trattative per la fine della guerra troppo facili; un anatema da parte della Russia, che auspica venga processata da un tribunale dell’Onu; interviste ai meglio quotidiani suprematisti europei, tra cui Repubblica, in cui in sostanza afferma che in Ucraina “c’è un aggressore e una vittima”, concetto che negli ultimi tre anni in effetti non era stato sufficientemente ribadito, e che bisogna armarsi pesantemente perché “Putin è un dittatore”. Anche per questo ha esortato i Paesi che fanno parte della Ue e quelli che aspirano a farne parte a boicottare la festa russa del 9 maggio, 80° anniversario della vittoria dell’Unione Sovietica contro la Germania nazista, minacciando soavemente che “qualunque partecipazione non sarà presa alla leggera dal lato europeo”. Si tenga conto che il 9 maggio la Federazione Russa celebra il “Giorno della Vittoria”, cioè la sconfitta del nazismo e la fine della Seconda guerra mondiale, che i russi chiamano “Grande guerra patriottica”: è così strano che, in tempo di guerra, il presidente della Duma Volodin ritenga che Kallas abbia offeso la “memoria di coloro che si sono sacrificati per salvare il mondo dal nazismo”?
Ora questa Kallas, che si trova molto a suo agio nel clima di guerra atomica imminente (il suo profilo su X pullula di foto che la ritraggono sorridente in mezzo a soldataglia nerboruta della Nato durante le esercitazioni in Estonia, mentre imbraccia una mitragliatrice e si carica in spalla sbarazzini missili Javelin anti-tank), è delusa dalla prospettiva di una pace tra Russia e Ucraina che metterebbe sì fine al massacro di civili in Ucraina, ma anche al progetto di sconfiggere la Russia, prima potenza nucleare al mondo, con armi europee e americane. Si consideri che Kallas ha una storia famigliare tragica: nel ’41 sua madre e sua nonna furono deportate in Siberia dai sovietici, trauma che deve aver generato nella discendente la convinzione che esista tuttora l’Unione Sovietica e che l’Europa debba sconfiggerla sul campo spendendo ben oltre il 3% del Pil, come dice a Rep. Una biografia più neutra per curare le delicate relazioni con la Russia non poteva trovarsi: siamo o non siamo, noi europei, maestri della diplomazia? In realtà la nomina di questa avvocata estone non è affatto casuale, e rientra in un piano preciso di cui fa parte anche la serie delle risoluzioni del Parlamento europeo che equiparano nazismo e comunismo col preciso intento di svilire il ruolo della Russia nella liberazione dell’Europa dal nazismo.
Per mettere sullo stesso piano quelli che deportavano, gassavano e bruciavano gli ebrei nei forni crematori e quelli che hanno sconfitto Hitler, il Parlamento europeo ha dovuto addurre la motivazione che “alcuni Paesi europei hanno vietato l’uso di simboli sia nazisti che comunisti”. Una tautologia per negare storicamente che il comunismo nacque come ideologia per la liberazione delle masse oppresse e il nazismo come ideologia razzista e genocida; e che i Paesi anticomunisti, portati a forza nella Ue, non condividono storia e cultura dell’Europa occidentale, e anzi spesso idolatrano nazisti e collaborazionisti (vedi l’Ucraina con Stepan Bandera, eroe nazionale) mentre in Italia, per esempio, i comunisti, insieme alle altre forze antifasciste, hanno scritto la Costituzione. Forti di questa manipolazione, con nonchalance, le élite militariste foraggiano Israele, aiutandolo nello sterminio del popolo palestinese. La Kallas non è che l’eroina glamour di questa messinscena. Rutte, Segretario generale della Nato, ha detto che “è necessario prolungare la guerra”, anche “rinunciando alla Spesa sociale”, altrimenti in Europa si “parlerà russo”. Russofobia, estetizzazione della guerra, revisionismo, minimizzazione del nazismo, riarmo paranoico dei Paesi Ue compresa la Germania, col partito filo-nazista AfD al 20%. Il Continente è in buone mani.

Il ricordo spiega tutto

 

I testimoni di Ursula
DI MARCO TRAVAGLIO
Da quando Trump ha vinto le elezioni senza che nessuno le cancellasse o lo arrestasse, un termitaio di trombettieri sciama vorticosamente fra giornali e talk show ripetendo a pappagallo un solo copione. Come i rappresentanti Folletto o i testimoni di Geova. Solo che questi non piazzano aspirapolvere o la Torre di Guardia, ma armi. Attaccano bottoni infiniti su quanto è brava l’Ue a riarmarsi, quanto è cattiva la Russia che ora ci invade tutti e quanto ci manca la bell’America di una volta che faceva guerre ovunque per il nostro bene. Fanno anche tenerezza: non riescono a elaborare il lutto. E non si danno pace perché in tutto il mondo gli elettori fanno l’opposto di ciò che dicono loro. Non sapendo più come rimettere le cose a posto, provano con la magia: inscenano riti voodoo, conficcando spilloni in bamboline col ciuffo platinato. Psicanalizzano e psichiatrizzano il puzzone in contumacia. Danno dei pazzi criminali a lui e ai suoi elettori. Presto chiameranno un esorcista. E si credono pure eroici: tanto quello sta a migliaia di chilometri e manco li conosce. Il coraggio dei partigiani Folletto e dei testimoni di Ursula è direttamente proporzionale alla distanza di sicurezza dal nemico: fanno la Resistenza in Dad.
Se Netanyahu fa secchi 20 mila bambini a Gaza in un anno su una popolazione di 2,5 milioni, non fanno una piega o al massimo, se sono proprio incazzati, ripetono ciò che ha detto l’altro ieri restando seria Kaja Kallas (uno dei loro spiriti guida): “Israele ha il diritto di difendersi, ma le sue azioni attuali vanno oltre l’autodifesa proporzionata”. Nel loro personale borsino, la vita di un palestinese (o iracheno, o afghano, o libico) vale un millesimo di quella di un americano, o israeliano, o europeo (serbi e armeni esclusi). Negano persino ciò che tre anni fa raccontavano e commentavano pure loro: i negoziati russo-ucraini a Istanbul, che Usa e Uk convinsero Zelensky a disertare rifiutando condizioni molto migliori di quelle che ora subirà l’Ucraina. Devono dimostrare che con Putin non si può e non si deve parlare, perché non ha mai voluto negoziare. Non lo vuole neppure l’unico che ci prova: Trump. I testimoni di Ursula parlano come se a Gaza fossero morte 50 mila persone e in Ucraina mezzo milione sotto Trump, non sotto Biden. L’unica a volere la pace è l’Europa: infatti parla solo di guerra, non ha un negoziatore, manda a Kiev altri 23 miliardi di armi e vuole aggiungerci 30 mila soldati. Ma – precisa il Corriere – “senza mandato a combattere”. E allora che li mandano a fare? A “garantire la pace”, “monitorare la tregua”, “addestrare truppe ucraine” (ma sicuramente a coltivare fiori). In pratica faranno ciò che facevano i negoziatori ucraini e russi a Istanbul: turismo.

L'Amaca

 

Distruggi quello che non puoi avere

di MICHELE SERRA

L’attacco di Trump a Harvard, così come lui stesso lo ha twittato, meriterebbe di finire nei libri di storia – ammesso che i libri di storia siano previsti anche per gli anni a venire. La violenza verbale, la cieca faziosità politica, l’astio personale (i “nemici” indicati con nome e cognome, manca solo l’indirizzo di casa), il rancore sociale dell’ignorante che detesta la cultura non consentono ombra di dubbio su teoria e prassi del trumpismo, che è pura volontà di annientamento di tutto ciò che gli si oppone o lo contraddice.
È un esercizio retorico chiedersi se e quanto Trump sia distante dal fascismo. Ogni suo atto politico (a cominciare dall’oltraggioso indulto concesso a chi aveva assaltato il Parlamento) è uno sputo alla democrazia, al diritto di opposizione, alle regole scritte e non scritte che consentono la convivenza tra opinioni e interessi differenti.
L’odio speciale che stilla dall’anatema contro Harvard aggiunge, poi, qualcosa che già si sapeva, ma non con questa imbarazzante evidenza: la cultura è qualcosa che i soldi non bastano a comperare, neppure i miliardi di Trump e dei suoi amici, e questo la rende particolarmente insopportabile alle persone che ritengono in vendita qualunque cosa, qualunque condizione, qualunque essere umano. Studiare in posti come Harvard costa, è precluso ai poveri. Ma educare il proprio cervello allo studio, alla lettura e alla comprensione del mondo è precluso anche al più ricco dei ricchi, se non è disposto all’umiltà e alla curiosità. Imparare è più difficile che comandare. Distruggi tutto quello che non puoi avere, tutto quello che non puoi essere: ecco Trump.

mercoledì 16 aprile 2025

Bell’esempio!



Credo che questa sia una delle più colossali prese per il culo mai viste! Un settantaseienne e un ultrasessantenne da oltre quarant’anni in tolda che lanciano un messaggio di speranza ai giovani!!! Gli stessi giovani dei loro tempi allorché sfancularono l’età del giusto ritiro dalle scene, e che oggi sono al parco coi nipotini!!! Standing ovation!!!

Tutti con voi!

 



Saltimbanco

 



Corsi e ricorsi

 



Natangelo

 



Robecchi

 

Fra Cina e Usa. È la lite di condominio più grande di sempre: pagheremo noi
DI ALESSANDRO ROBECCHI
Quando gli chiesero perché preferiva andare in galera e perdere un titolo mondiale piuttosto che andare in Vietnam a sparare ai vietcong, Muhammad Alì rispose: “Nessun vietcong mi ha mai chiamato negro”.
Ecco, siccome ci apprestiamo ad assistere alla più grande lite di condominio del pianeta, tra Stati Uniti e Cina, vorrei ricordare che nessun cinese mi ha mai chiamato “parassita”, come invece ha fatto il vicepresidente americano J.D.Vance. Detto questo, c’è, evidente a tutti, un problemino difficile, e cioè che nella storica foto di Yalta, quella con Roosevelt, Churchill e Stalin che si dividono il mondo come un melone, ecco, in quella foto non c’è nemmeno un cinese. È un problema, dato che oggi invece la Cina è dappertutto, non solo nelle schermaglie commerciali, ma nelle nostre vite, sottoforma di merci, componenti, manifatture, tecnologia e altro. Mentre la foto di Yalta ingialliva e diventava antica, inadeguata, decennio dopo decennio, la Cina passava da medioevo feudale a biciclette e riso per tutti, poi a fabbrica del mondo, manifattura a basso prezzo, poi a avanguardia tecnologica con grandi capacità produttive. Insomma, ha fatto in ottant’anni quello che noi abbiamo fatto in trecento: anche soltanto dieci anni fa comprare una macchina cinese pareva come comprare un pedalò in lamiera; oggi invece la macchina cinese c’è, ed è una sciccheria di alta gamma.
La guerra commerciale è partita a colpi di dazi, blocco di determinate merci (le terre rare!), ripicche, sgambetti, frecciatine verbali, pernacchie, accuse reciproche. Presto la gara di schiaffoni diventerà una rissa da saloon, la logica del dispetto commerciale diventerà un tutti-contro-tutti entusiasmante. Uno spettacolo che pagheremo, ovviamente, in termini di prezzi che si alzano, inflazione e via elencando, sempre se non ci sarà la temuta recessione. Intanto si disegnano i confini ideologici delle questioni commerciali. Anche se potrebbe non convenire in termini commerciali (traduco: ci rimettiamo dei soldi) faremo accordi con Trump, comprandogli più gas e più armi (cosa che spiega bene il famoso riarmo europeo! Wow!), e questo perché siamo nella sua sfera di influenza e contro i comunisti. Quanto ai cinesi coltivano la propria sfera d’influenza e mirano ad allargarla e consolidarla, facendo balenare ogni tanto l’idea che certe merci molto ambite le hanno solo loro, quindi attenzione a tirare la corda. Hanno anche in mano una bella fetta di debito pubblico americano, visto che si parla tanto di deterrenza, si sappia che non c’è solo quella nucleare, ma anche quella finanziaria.
La lite di condominio diventa quindi anche una divertente lezione sui massimi sistemi: viene fuori che il capitalismo lo fanno meglio i comunisti, che sembrano più seri, che non rovesciano il mondo giocando a golf e non hanno la consulente religiosa. Anche a livello estetico, insomma… La scena di Trump con gli amici ricconi (“Ehi, Frank, ti ho fatto guadagnare due miliardi!”) sembra un B-movie americano degli anni Quaranta con il sindaco, lo sceriffo e il giudice che fanno comunella per spartirsi la città. Mentre dall’altra parte c’è Xi, un signore serissimo, vestito di scuro, che pare preoccupato e concentrato sul da farsi. Domani Meloni va a sentire cosa desidera il Capo e torna a riferire, mentre il ministro degli esteri ha già rassicurato tutti che l’America rimane il nostro primo partner. Traduco: non ci faremo irretire dai cattivi comunisti cinesi, e continueremo a prendere schiaffoni sorridendo.

Ragionamenti ampi

 

I fantasmi di Istanbul
DI MARCO TRAVAGLIO
Quando il bugiardo seriale Trump dice che la guerra in Ucraina non è sua, ma di Biden e Putin, dice la verità (anche se alla lista mancano Bush jr., Obama e la Clinton). Ma quando tira in ballo Zelensky, dice una mezza verità. Se Zelensky avesse dichiarato la neutralità dalla Nato e rispettato gli accordi di Minsk sull’autonomia e il cessate il fuoco per il Donbass, come chiedevano la Germania di Merkel e Scholz e la Francia di Hollande e Macron, avrebbe evitato l’invasione russa del 2022. Ma, se non lo fece, è perché eseguì gli ordini Usa e Nato. Ora, il presidente Usa che dice la verità sulla guerra manda ai matti i nostri americani a Roma, infatti son diventati tutti antiamericani. E si sono ridotti a negare ciò che tutti vedevano e scrivevano tre anni fa: il negoziato russo-ucraino in Bielorussia e poi a Istanbul subito dopo l’invasione. Sennò dovrebbero riconoscere che Putin non ha mai inteso prendersi l’intera Ucraina (la invase con 175 mila uomini, meno della metà dell’esercito attivo ucraino) per poi papparsi l’Europa, ma impedire che Kiev entrasse nella Nato e tentasse di riassoggettare la Crimea e il Donbass fuggiti dal nuovo regime filo- Nato dopo la “rivolta” del 2014.
Paolo Mieli e Federico Fubini del Corriere a Prima Pagina (Radiorai) si affannano a negare che il negoziato fosse una cosa seria e avesse raggiunto intese importanti quando, dopo il blitz di Johnson a Kiev, Zelensky lo fece saltare il 15 aprile 2022. “Una frottola”, per Mieli. “Un mito” della “retorica di Travaglio e altri”, per Fubini, convinto che Putin a Istanbul volesse sostituire Zelensky con “un governo fantoccio filorusso” per “prendersi tutta l’Ucraina”. Il guaio, per lorsignori, è che a raccontare quanto l’accordo fosse vicino e vantaggioso per Kiev rispetto alle condizioni che dovrà subire ora non è Travaglio, ma tutti i protagonisti del negoziato. Come il capo- delegazione ucraino David Arakhamia, capogruppo parlamentare del partito di Zelensky: “I russi erano pronti a porre fine alla guerra se avessimo accettato la neutralità: dovevamo promettere di non aderire alla Nato. Questa era la cosa più importante, il punto chiave per loro. Tutto il resto era solo retorica sulla denazificazione, la popolazione di lingua russa e bla-bla-bla”. Ma poi “Johnson è venuto a Kiev e ha detto che non avremmo dovuto firmare nulla coi russi: solo combattere e basta”. E un altro negoziatore ucraino, Oleksandr Chalyi: “A metà aprile del 2022 eravamo molto vicini alla conclusione della guerra con un accordo di pace. Putin si rese conto di avere sbagliato e fece tutto il possibile per fare la pace con l’Ucraina. Decise lui di accettare il Comunicato di Istanbul, totalmente diverso dalla proposta originale russa”.
E Oleksii Arestovych, consigliere di Zelensky: “Gli accordi di Istanbul erano stati messi a punto al 90% in vista dell’incontro con Putin… Pensai che la trattativa fosse andata a buon fine, tant’è che stappammo una bottiglia di champagne. Quello era l’accordo migliore che avremmo potuto stipulare”. Zelensky ne parlava ogni giorno. “Su Crimea e Donbass trovare un compromesso con Putin” (8.3). “Non possiamo entrare nella Nato, dobbiamo ammetterlo” (153). “Neutralità e accordo su Crimea e Donbass per la pace” (27.3). “Lo status neutrale e non nucleare dell’Ucraina siamo pronti ad accettarlo: la Russia ha iniziato la guerra per ottenere questo. Poi servirà discutere e risolvere le questioni di Donbass e Crimea. Ma capisco che è impossibile portare la Russia a ritirarsi da tutti i territori occupati: porterebbe alla Terza guerra mondiale” (28.3). Il 28.3 Mosca riceve una proposta scritta di Arakhamia: “Trattato sulla neutralità permanente e sulle garanzie di sicurezza per l’Ucraina” in 18 articoli. L’Ucraina si impegna a non entrare nella Nato; ma non rinuncia all’Ue e Putin non si oppone; imminente vertice Zelensky-Putin a fine aprile sul destino di Donbass e Crimea, da sottoporre a referendum in loco. Mosca rinuncia alla smilitarizzazione totale dell’Ucraina, pur chiedendole di non ospitare basi militari straniere, e promette di ritirarsi dalle aree di Kiev e di Kharkiv, cosa che inizierà a fare il 1° aprile. Le due delegazioni concordano il famoso Comunicato.
I progressi continuano anche dopo la strage di Bucha, fino al blitz di Johnson del 9.4. E al ritiro degli ucraini il 15, mentre si discutono le dimensioni del futuro esercito ucraino e i Paesi garanti della sicurezza di Kiev. Dirà il presidente turco Erdogan: “L’opportunità storica che avrebbe salvato la vita di decine di migliaia di persone e impedito sofferenze e distruzioni è stata sprecata, anzi sabotata”. L’altro mediatore, il premier israeliano Bennett, ricorderà che dopo l’invasione Putin gli garantì l’incolumità di Zelensky, da lui subito informato. E racconterà che al Comunicato le due delegazioni erano giunte dopo essersi scambiate “17-18 bozze” di trattato di pace: “Putin era pragmatico e capiva totalmente le costrizioni politiche di Zelensky”, portatore di “analogo pragmatismo”. Poi, dopo Bucha, “nessuno fu più pronto a pensare in modo non ortodosso” e prevalse “la legittima decisione degli occidentali di continuare a colpire Putin… Hanno bloccato la mediazione. Pensai che era sbagliato. C’era davvero una chance di cessate il fuoco”. Ma per i nostri guerrapiattisti tutto ciò non è mai avvenuto. Un’allucinazione collettiva. L’ennesima fake news putiniana diffusa dai turchi, dagli israeliani e soprattutto dagli ucraini.

L'Amaca

 

Il disarmo economico
di MICHELE SERRA
Se davvero la web tax è l’“arma finale” dell’Europa nelle trattative con gli Usa, da usare solo in caso di fallimento delle stesse, questo significa che una misura di equità (far pagare le tasse a chi non le paga, o ne paga pochissime) non vale in quanto tale, ovvero perché è giusta; ma solo come strumento di pressione per disinnescare la minaccia dei dazi.
Il rischio, a quanto si capisce, è che a fronte di un accomodamento sui dazi, i giganti americani del web, un tempo blanditi e ammirati dalle amministrazioni dem (incaute o complici?) e oggi parte organica del governo di miliardari al potere negli Usa, continuerebbero gloriosamente a godere di esenzioni e privilegi che non valgono per nessun altro soggetto economico privato. Il sopruso sarebbe infine consolidato, e per chissà quanti anni ancora l’Europa rinuncerebbe a pretendere che, a fronte di enormi introiti riscossi sul suo territorio, si abbia una tassazione equa.
Per quanto l’Europa sia solamente un’entità “metafisica” (l’espressione, amaramente negativa e quasi derisoria, è di Lucio Caracciolo), è tutt’altro che metafisica l’evidenza dei suoi problemi comuni, misurabili in miliardi non incassati, scialo di risorse pubbliche per una difesa Stato per Stato che vale il minimo rendimento con il massimo sforzo, una debolezza diplomatica e politica sempre più difficile da dissimulare.
Non ultima, arriva la presa d’atto che una misura sacrosanta (tassare i padroni del web facendo tornare sulla terra almeno una parte della nube di miliardi che la sorvola) rischia di essere disinnescata per sempre sull’altare della trattativa con Trump. Si chiama: disarmo economico.

martedì 15 aprile 2025

Premio in tasca!

 





Analisi

 

La strage al balzo
DI MARCO TRAVAGLIO
Ci sono due modi di reagire al criminale bombardamento russo a Sumy con 34 ucraini morti, di cui 2 bambini. Il primo è condannarlo, come si devono (anzi si dovrebbero) condannare tutti i bombardamenti di ogni guerra, inquadrandoli nell’essenza stessa della guerra; e aumentare gli sforzi per favorire i negoziati e rimuovere gli ostacoli dal percorso avviato da Trump per far tacere le armi, evitando altre stragi. Il secondo è usare i morti nel raid per sabotare vieppiù i negoziati, moltiplicando i raid e i morti: come si fece con la strage di Bucha ai primi di aprile del 2022, quando la trattativa di Istanbul fra Mosca e Kiev era giunta a buon punto con il primo “comunicato congiunto” di fine marzo fra le due delegazioni. Biden e l’Ue colsero la strage al balzo per ripetere che con quel criminale di Putin non si doveva trattare. Zelensky negoziò ancora fino al 15 aprile (giusto tre anni fa). Ma, dopo la missione criminale di Johnson a Kiev, ritirò i negoziatori e lasciò deserto il tavolo. La parola restò alle sole armi e sappiamo come andò: altre dieci, cento, mille Bucha. Poi, il 18.12.2024, la sostanziale resa di Zelensky: “Non riusciremo a riprendere militarmente Donbass e Crimea”. Da quel giorno nessuno riesce più a spiegare ai soldati ucraini rimasti al fronte (gli altri hanno disertato o sono sfuggiti alla leva) per che cosa combattono.
Trump e il suo segretario di Stato Rubio hanno scelto la prima opzione: condannare la strage di Sumy e insistere, a maggior ragione, col negoziato per scongiurarne altre. L’Ue ha scelto la seconda: armare sempre più Kiev, che per bocca del suo stesso presidente non riuscirà a riprendere i territori perduti e ogni giorno che passa ne perde altri, ripetendo il macabro mantra della “vittoria militare decisiva sulla Russia” (testuale dall’ultima risoluzione del Parlamento Ue). Chi ha sempre condannato ogni bombardamento – da quelli Nato su Belgrado, sulla Libia, in Afghanistan e in Iraq, a quelli ucraini sul Donbass negli otto anni di guerra civile, a quelli russi in Cecenia, in Siria e ora in Ucraina, a quelli israeliani su Gaza – e ha sempre auspicato che le controversie internazionali fossero risolte con la diplomazia, ha le carte in regola per indignarsi dell’ultima strage. Chi invece usa i 34 morti ucraini a Sumy, soprattutto i 2 bambini (ignorando peraltro i 20mila sterminati da Israele), per allontanare un’altra volta i negoziati e prolungare la guerra fino all’ultimo ucraino, è il primo complice di Putin, che sta vincendo ed è il meno interessato a trattare, a meno di un’offerta che non possa rifiutare. L’alternativa alla diplomazia non è mai stata fra sconfitta e vittoria, ma sempre fra una piccola sconfitta con pochi morti e una grande disfatta con tanti morti. E tante Sumy.

L'Amaca

 

Le parole come petardi
di MICHELE SERRA 

Impressiona lo schiacciamento progressivo del discorso politico (ma forse: di tutti i discorsi) dentro lo schema binario, puerile, istantaneo dei social. Se uno parla di Gaza, subito qualcuno gli strilla: perché non parli dell’Ucraina!? Se uno parla dell’Ucraina, subito qualcuno gli strilla: perché non parli di Gaza!? Una caricatura della dialettica e una caricatura della politica.
Un tempo si aspettavano le prese di posizione dei partiti con una certa solennità.
Erano quasi sempre pompose e incravattate, spesso non dicevano niente che già non si sapesse, ma davano l’idea che qualcuno avesse impiegato almeno un’oretta del suo tempo, magari in apposite riunioni, per buttare giù quella mezza paginetta. Questa ufficialità, anche quando era solo forma, rassicurava, dava l’idea che le parole avessero un peso e una durata. La forma a questo serve: a credere, e far credere, che qualcosa abbia un senso e un peso. Se un medico che deve farti una visita importante per la tua salute ti riceve in bermuda e ciabatte, un poco ci resti male.
Ora le parole scoppiano come piccoli petardi (detti anche miniciccioli, raudi, sfreghini, snappers, cobra), con un fracasso permanente e volatile, tre secondi per dire “Gaza” e sentirsi rispondere “Ucraina”, tre secondi per dire “Ucraina” e sentirsi rispondere “Gaza”. Il primo che appenderà davanti alla sua porta il cartello “oggi non ho niente da dire, forse domani o la settimana prossima”, avrà gettato le basi della rivoluzione.

Altra dimensione

 



Delegazione

 

Rappresentanti delle isole Heard e McDonald, colpite anch’esse dai dazi, sono arrivati a Washington per trattare con CiuffoBiondo!






lunedì 14 aprile 2025

Oh si, accadrà!

 

A volte gioco, forse è azzardato dirlo così, col tempo, raffazzonando dati, ipotizzando scenari allorché le mie particelle scorrazzeranno già da tempo, molto tempo, per l'universo, e questo pensiero m'accomuna al complesso che definiamo spazio, avverto una partecipazione ad un tutt'uno che non riesco ad abbracciare ma che sento e che mi confà positivo agli eventi. 

Cinquecentoventotto anni fa Michelagnolo (lo chiamavano così) scolpiva all'età di 22 anni la Pietà che ammiriamo in San Pietro. Che c'entra coi grandi numeri? 

E' una di quelle bellezze che con dolore tra cinque miliardi di anni si liquefaranno assieme alla Madre Terra, allorché il Sole, terminato l'idrogeno da bruciare, inizierà a consumare l'elio divenendo una gigante rossa enorme che risucchierà Mercurio e probabilmente pure Venere e il nostro pianeta, e se la Terra non si liquefacesse tutto diverrà lo stesso bollente, oceani che assomiglieranno alla pentola con l'acqua in movimento in attesa della pasta! 

Può darsi che da qui a 5 miliardi di anni avremmo già traslocato in un altro pianeta, lontano anni luce, come altresì è possibile, vista l'eclatante stupidità in circolazione oggi, che saremmo da tempo estinti. 

E se ci estinguessimo sono tre i beni che considero anche miei, sono di tutti, e il cui pensiero di dissolvimento mi rattrista già sin d'ora: la Pietà appunto, la Cappella Sistina e la sala trofei del Milan! A parte gli scherzi, è brutto pensare che queste incredibili dimostrazioni di bellezza dell'intero genere umano, ce ne sono anche altre chiaramente ma io tifo per Michelagnolo, un giorno potrebbero evaporare, dissolversi nel nulla! 

Già il fatto che, pensateci, tra centocinquant'anni nessuno si ricorderà più di noi, i nostri pro-pro nipoti non sapranno nulla delle nostre povere gesta, le case, le proprietà attualmente nostre diverranno di chissà chi, giacché, a meno di non aver scritto un poema mitico, di aver creato un quadro estasiante, una scultura da svenimento, tutto il ricordo evaporerà come neve nel vulcano eruttante; in più tra cinque miliardi di anni, esistesse un Gazzettino dell'Universo, si dissolverà questa biglia blu dove, tra idioti e tiranni che guerreggiano senza motivi decenti, la meravigliosa arte umana pregna di meraviglie che, sicuramente, vi fosse una hall of fame intergalattico, sarebbero nella top ten universale. Sia chiaro: non ho visto le altre, ma ammirando le nostre non ho dubbi in merito!   

Pardon!



Mi scuso col giudice, probabilmente residente sulle alture spezzine; tutto nella norma, bene! W il turismo e le navi da crociera! E avanti con i suffumigi salutari!

Con dote

 

Meloni porta a Trump altri 8 mld di armi. In arrivo controllori Nato
DI GIACOMO SALVINI
Giorgia si impegna alla Casa Bianca, poi Cdm per stanare Salvini e piano al vertice all’Aia. A giugno i funzionari da Bruxelles
Giovedì la presidente del Consiglio Giorgia Meloni prenderà un impegno preciso con il presidente americano Donald Trump nello studio ovale della Casa Bianca: l’Italia intende rispettare le promesse fatte agli alleati della Nato al vertice di Newport, in Galles, nel 2014 e aumenterà la spesa per la Difesa fino a raggiungere il 2% rispetto al Pil. L’impegno che la premier Meloni prenderà con Trump (il giorno dopo vedrà a Roma il vicepresidente JD Vance) sarà politico. Ma sarà solo il primo passo di una road map che ai vertici dell’esecutivo hanno tracciato nelle ultime settimane, con una serie di riunioni a Palazzo Chigi condotte dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano e i funzionari dei ministeri interessati, su tutti Difesa, Esteri ed Economia. D’altronde gli Stati Uniti da tempo chiedono ai componenti dell’Alleanza Atlantica di raggiungere almeno il 2% e Trump in passato ha anche minacciato di buttar fuori dall’alleanza chi non avesse rispettato questo impegno: l’Italia resta uno degli otto Paesi su 31 – insieme a Paesi come Portogallo, Croazia, Canada, Belgio – a non aver raggiunto il 2%. Ieri lo ha detto anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani ad Agorà, collegato da Osaka: “Siamo pronti a raggiungere il 2% delle spese militari, presto arriverà l’annucio della presidente del Consiglio”.
Il piano per aumentare la spesa per la Difesa, passando dall’1,53 al 2%, poi sarà presentato in Consiglio dei ministri a inizio maggio. E i prossimi venti giorni serviranno per dirimere la questione che in queste ore agita il governo: lo scontro tra il ministro della Difesa Guido Crosetto che vorrebbe che l’esecutivo mettesse sul piatto 8 miliardi di investimenti reali (facendo quindi più debito) e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti che, invece, vorrebbe aumentare la spesa militare decidendo di conteggiare anche quelle che riguardano le capitanerie di porto, i carabinieri e la guardia di Finanza, ma anche le spese per la ricerca, la sicurezza cibernetica, per le operazioni umanitarie fino a quelle su attività civili-militari (come la metereologia).
Secondo le stime fatte ai piani alti di Palazzo Chigi, questo conteggio permetterebbe al governo di investire solo 3 miliardi nuovi rispetto agli 8 attesi per raggiungere il 2%. La premier Meloni e Mantovano sembra che siano più propensi ad assecondare la soluzione del ministro dell’Economia, per raggiungere subito l’obiettivo.
Il piano passerà dal Consiglio dei ministri che dovrà dare il via libera allo scostamento di bilancio, da approvare in Parlamento a maggioranza assoluta. Così la premier metterà Matteo Salvini di fronte alle proprie responsabilità: come farà a esprimere le sue criticità su investimenti che, per la premier, riguardano la sicurezza nazionale e saranno formalmente proposti proprio dal ministro leghista dell’Economia Giorgetti?
In questo modo Meloni spera di neutralizzare le critiche leghiste al riarmo, anche se negli ultimi giorni ha dato ordine ai suoi ministri di parlarne il meno possibile proprio perché teme l’opinione pubblica. Dopo il Consiglio dei ministri, il piano sarà ufficialmente presentato al vertice Nato dell’Aia del 24-26 giugno a cui parteciperà Trump. In quell’occasione il segretario generale dell’Alleanza Mark Rutte chiederà ai componenti dell’Alleanza di alzare l’asticella tra il 3,6-3,7%.
Ma l’Italia in quell’occasione potrà dimostrare di aver dato un segnale agli alleati e di restare agganciata al “gruppo” di testa. Proprio negli stessi giorni, secondo quanto risulta al Fatto da fonti di maggioranza, i funzionari della Nato hanno già previsto una missione in Italia per certificare che quelli di Roma siano investimenti reali nella spesa per la Difesa. Non è un caso che nelle ultime settimane ci siano stati dei contatti informali tra i vertici del governo e quelli della Nato: i “controlllori” dovrebbero arrivare in Italia nell’ultima settimana di giugno.

domenica 13 aprile 2025

Bella notte!


O notte, o dolce tempo, benché nero,
con pace ogn’opra e ogni pensier imbraghi,
grazie che fai ne’ più solinghi luoghi
al chi vuol tua mercé tenere a caro.

Tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero,
che l’affannosa mente affligge e piaghi;
e ‘l pianto asciughi, e ‘l dolor temp’ri e vaghi
col tuo silenzio e col passo leggiero.

Lasso, talor chi nasce a gran tormento
in te, quasi obliando, ogni sua cura
al mondo, al ciel, a sé rende perdono.

Sol tu a chi t’ama mostri il tuo tesoro;
ma chi t’offende, hai sì dura ventura
che vive desto, e ‘l tuo poter non dono.

- Michelangelo Buonarroti

Adorando



Di sicuro da queste ultime vicende daziane emerge un fattore a dir poco scabroso: il dogma del lucro. Le trasbordanti multinazionali giammai han messo sul piatto la riduzione dei loro fantasmagorici guadagni; Apple per prima era già pronta ad alzare i prezzi, le altre a ruota. Il rischio d’impresa relegato nel cesso. Nove iPhone su 10 sono fabbricati in Cina, per aumentare gli già spudorati guadagni. L’attuale deviato sistema infatti non concepisce bilanci in discesa, tutto deve necessariamente tendere all’infinito. Il riccastro col ciuffo ha recepito l’input, salvaguardando le laute prebende dell’high tech. Le altre multinazionali in differenti aree stanno digrignando i denti col “perché a noi no?” 
Perché daziare le scarpe con la virgolona confezionate da piccole mani del sud est asiatico a pochi dollari al giorno? E le borse meravigliose per Miuccia che tanti acquistano al prezzo di un’auto? Dai Psicopatico col ciuffo! Abbi pietà anche di loro! Non verranno mai a lavorare dove le tasse son più alte, dove l’operaio riceve il giusto per il suo lavoro! La divinità lucrosa di cui anche tu sei fervido discepolo è intransigente: spese tendenti allo zero guadagni verso l’infinito! Buona fine a tutti!

Ucci Ucci!

 



Osanna!

 



Boooom!

 


Clinica 8 e 1/2, diagnosi inappellabile: “Un pazzo, megalomane e disturbato”
DI SELVAGGIA LUCARELLI
Il talk La7 trova la risposta al successo del Tycoon: “Ha una collezione di disturbi mentali”
Venerdì sera è andata in onda una puntata di Otto e mezzo dal titolo neutro Donald Trump, il narcisista patologico. Per ribadire la neutralità editoriale della puntata, Lilli Gruber ha esordito con un quesito aperto, per nulla orientante: “Trump è un cavallo pazzo e un cavallo sbagliato su cui puntare?”. Mancavano solo i pouf in pelle umana per gli ospiti.
E per pelle umana intendo ovviamente gli scarti di pelle dall’ultimo lifting di Trump.
La puntata aveva come scopo principale quella di formulare una diagnosi clinica del presidente americano. Per questo era stata invitata la psicoanalista Claudia Spadazzi, la quale ha premesso subito che era eticamente e scientificamente inappropriato fare diagnosi se non si è mai vista la persona. A questo punto non si è capito cosa ci sia andata a fare, ma Lilli aggira il problema e inserisce già la risposta nella domanda: “Molti specialisti ritengono che Trump abbia tratti di narcisismo e megalomania, cosa ne pensa?”. La psicanalista sta chiaramente riflettendo sui tratti narcisistici e manipolatori della conduttrice che l’ha invitata solo per convalidare le sue tesi, ma risponde diplomaticamente: “Ha una personalità narcisistica, ma ha anche una parte funzionante che gli consente di raggiungere degli obiettivi”. Gruber è contrariata, questa psicoanalista d’accatto non ha neppure richiesto per Trump un Tso, un ciclo di elettroshock, un salasso, una ventosa scarnificante alla nuca, niente. E quindi passa la palla a Gianrico Carofiglio, il quale tra parentesi di narcisismo se ne intende. Provate a dargli una sala con 100 posti in meno di De Giovanni per presentare il suo libro e rade al suolo la Russia. “Andrebbe fatto il profilo psicopatologico con verifica delle tendenze antisociali dell’uomo”, sostiene umilmente lo scrittore sottolineando che non vuole sostituirsi all’esperta lì presente. Per poi aggiungere: “Trump ha una predisposizione patologica alla menzogna, tutte le caratteristiche dei narcisisti manipolatori, l’inclinazione a usare le persone come oggetto violando la regola etica kantiana, un narcisismo di quinto livello con regole di comportamento interno che non sono quelle degli umani normali”. In pratica Carofiglio non si è sostituito alla psicoanalista in studio, si è sostituito direttamente al Cristo Giudice. Gruber guarda Carofiglio con l’occhio appagato, quasi concupiscente e passa la parola alla giornalista di Libero Annalisa Terranova. Per lei definire Trump “un pazzo pericoloso” è una scorciatoia analitica. Apriti cielo. Gruber – che da inizio puntata ha descritto Trump come l’erede naturale di Ted Bundy – risponde piccata “nessuno l’ha detto!”, per poi sbroccare definitivamente e chiedere alla giornalista: “Ma a te ti sembra normale come si rapporta Trump?”. La psicanalista ha sempre più l’aria imbarazzata di chi vorrebbe psicanalizzare la conduttrice e spiegarle che sta trattando Terranova come Trump ha trattato Zelensky nella Sala Ovale: linguaggio rozzo e informale, accerchiamento 4 contro una, squilibrio di potere, sei d’accordo con noi o te ne vai. Probabilmente sta pure intimamente rivalutando la modestia di Trump. Carofiglio, piccato pure lui, dice che non ha dato a Trump del “pazzo pericoloso” ma solo del “pericoloso gravemente disturbato”.
Poi tocca a Severgnini il quale è in collegamento e viene chiamato a giudicare il narcisismo di Trump in quanto anche lui esperto: parla con alle spalle una foto di se stesso in Vespa. Come Carofiglio il giornalista premette che non intende sostituirsi alla specialista in studio, ma “se fossi un parente di un anziano così problematico lo farei vedere da uno bravo, in America esiste il Dsm, la bibbia dei disturbi mentali, lui ne ha una collezione”. La povera psicanalista pensa a cosa fare della sua laurea una volta uscita di lì, se farla masticare al suo Labrador o venderla alla ministra Calderone ma, stoica, resiste. Carofiglio, terminata la valutazione diagnostica di Trump, passa a quella stilistica: “Non invidio Meloni che deve avere a che fare con uno la cui cifra è ‘Mi baciano il culo’”. In effetti Giorgia Meloni è nota per l’illustre, aulico lirismo del suo linguaggio. Chissà quanta fatica farà ad adattarsi al registro di Trump quella che parlando di Macron disse “Ci deve di’ lui il diametro delle zucchine di mare!”. Infine, sempre Carofiglio: “A Trump mancano i recettori della vergogna”, che non si sa cosa siano, ma suona bene. Insomma, non ci resta che rimpiangere Biden, i suoi sguardi nel vuoto, i suoi peti, le sue gaffe, le sue guerre, la sua grazia al figlio pluricondannato. Lui sì che era lucido e rassicurante. Tant’è che come ha detto Severgnini sul finale: “Trump propone soluzioni semplici per problemi complicati. Lui a Gaza ci vuole fare un resort”. In effetti per Gaza Biden aveva una soluzione più articolata: lasciare che Israele la radesse al suolo.
Spero che Lilli Gruber abbia modo di rivedere questa puntata. Se non prova neppure un po’ di imbarazzo c’è un motivo semplice: mancano i recettori della vergogna anche a lei.

A Mario

 

Salvate il soldato Mario
DI MARCO TRAVAGLIO
Qualcuno dovrebbe difendere Mario Draghi dallo stalking di Renzi, che da cinque anni gli fa da piazzista non richiesto stampandogli sulle gote un bacio della morte dopo l’altro. Non bastando i danni che gli ha fatto mandandolo al governo nel 2021 (flop totale), poi appoggiando la sua autocandidatura al Quirinale (altro fiasco epocale), infine usando come testimonial lui e la sua misteriosa Agenda alle elezioni del 2022 per il famoso Terzo Polo (sesto su sei), ora vuole spedirlo a Washington a trattare con Trump per l’intera Ue: “Sono tempi difficili. Serve un inviato speciale per la trattativa con Trump. Un leader autorevole, credibile, forte. Bruxelles deve chiedere a Draghi di trattare con Trump a nome di tutta Europa”. Ora, visto come Trump tratta chiunque abbia avuto a che fare con Biden, dei cui ordini Draghi fu un fedele esecutore senza neppure accorgersi che era completamente rincoglionito, la missione alla Casa Bianca parte sotto i migliori auspici. Se Trump con Zelensky si era limitato ad alzare la voce, con Draghi potrebbe passare alle vie di fatto, magari aiutato da uno dei simpatici wrestler grandi come armadi a tripla anta che si porta appresso. Ma c’è anche un altro piccolo problema: l’Ue che dovrebbe compattarsi per la prima volta nella sua esistenza per scegliere Draghi come suo inviato è la stessa che ha prontamente archiviato nel cestino il famoso “Rapporto Draghi” sulla competitività (accolto trionfalmente solo sui media italiani, che si bevono tutto). La stessa che, quando SuperMario era premier, gli bocciò un’ottantina di volte l’inutile “price cap” sul gas, per poi approvarne una versione ancor più ridicola appena arrivò la Meloni.
Del resto chi non ricorda le sue dotte analisi sul Green Pass come “garanzia ai cittadini di ritrovarsi tra persone non contagiose” (poi si beccò il Covid e tutti pensarono che fosse un pericoloso No Vax e No Green Pass)? E i suoi autorevoli oracoli su “vittoria dell’Ucraina e sconfitta della Russia”? E le sue informatissime centurie sull’“effetto dirompente delle sanzioni alla Russia, che avranno il massimo impatto in estate” (correva l’anno 2022)? E la sua recente ideona di combattere i dazi smettendola di puntare tutto sulle esportazioni e potenziando la domanda interna, lievemente stridente con le politiche recessive (anche sue) che fanno dell’Italia il Paese Ue con gli stipendi più bassi senza neppure un salario minimo (che Conte aveva inserito nel Pnrr e lui aveva tolto)? Però, ove mai si ritrovasse nello Studio Ovale, Draghi potrebbe bissare la gag più irresistibile del suo repertorio: “Preferisce la pace o il condizionatore acceso?”. Al che Trump potrebbe sembrare persino lucido e rispondergli: “Tutt’e due”.

L'Amaca

 

Il re Carlo e il contadino
di MICHELE SERRA
Hanno circolato molto poco, anzi troppo poco, le immagini di Carlo d’Inghilterra che butta le braccia al collo di Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food. Abbraccio per niente protocollare tra due vecchi amici e (detto di un re fa sorridere) compagni di lotta. Pionieri dell’ambientalismo, dell’agricoltura sostenibile, del cibo sano e a giusto prezzo, il loro abbraccio è quello di due attivisti che hanno condiviso molte battaglie, con un fitto scambio di pensieri, scritti, idee, proposte politiche. Da Terra Madre alle migliaia di orti in Africa. E il fatto che di queste e altre cose si sia parlato, almeno in Italia, infinitamente meno che delle più trascurabili beghe di partito e di corrente, contribuisce a spiegare perché, della politica, si abbia una così scadente opinione.
Per entrambi i Carli si spera non sia spendibile l’epiteto cretino diradical chic,come si usa fare quando non si sa cosa pensare e cosa dire delle persone che spendono se stesse, senza tornaconto, in battaglie culturali e civili così rilevanti. Uno dei due di cognome fa Windsor e per mestiere fa il re della Gran Bretagna, l’altro è figlio di una ortolana e un ferroviere, ha fondato un movimento mondiale e una università.
Non so dire nel Paese di Carlo Windsor, ma in quello di Carlo Petrini, per decenni, l’attenzione al cibo è stata considerata un lusso da buongustai, una branca del superfluo, quando è una questione primaria.
Che viene prima di ogni altra cosa. La filiera del cibo riguarda l’uso dei suoli, lo sfruttamento della manodopera, il peso della grande distribuzione, la salute pubblica, l’educazione di massa e cento altre questioni. Occuparsene vuol dire fare politica a tutto campo. Petrini è un leader politico mondiale, e il fatto che nella politica italiana lo sappiano in due o tre non è una buona notizia.