domenica 29 settembre 2024

Scopro che…



Scopro che Ian Fleming si mise alla ricerca di un nome semplice da dare al suo agente segreto che stava per nascere. S’imbatté in un libro della sua biblioteca, un libro scritto da un ornitologo: James Bond del quale qui ne vediamo la tomba.

Dov’erano?



Manca Ella… non si è fatta neppure sentire; e la seconda carica dello Stato? Non pervenuto. Non hanno neppure le palle di farsi vedere. Gentaglia!

Incomprensibile



Che brutta notizia, ferale, scioccante! Perdiamo un simbolo, un vero politico, che parla inglese meglio di Hugh Grant, un coacervo di beltà, di fermezza, di politica seria mai controversa. Un esempio per tutti. Poco conta che la sua microscopica enclave stesse governando il comune di Genova retta da Bucci ora candidato del centro destra. Quisquilie! 
In passato ha saputo infondere, nel partito di cui era segretario, le scelte e gli obiettivi tipici di una forza di sinistra, come il jobs act che tanto bene ha profuso ai giovani entranti nel mondo del lavoro; non ha cambiato mai rotta, non ha mai tradito coalizioni e maggioranza, rimanendo sempre fedele alle compagini politiche. 
Fu lui che rese il servizio pubblico Rai lontano anni luce dalla politica, grazie ad una legge che molti stati ci invidiano ancor oggi. Insomma, resta un mistero questo niet collettivo alla sua partecipazione alle elezioni regionali liguri. Davvero un mistero…

Il Genio delle dita

 


David Gilmour, il rito misterico di un 78enne che suona la chitarra in modo soprannaturale
LIVE - Fino al 3 in concerto al Circo Massimo
DI STEFANO MANNUCCI
Mettete una Stratocaster o una Martin nelle mani dei cento migliori strumentisti. Ascolterete funamboli, virtuosi, esploratori. Nessuno di loro ha tra le dita l’eloquenza lirica, trascendente di David Gilmour. Il Circo Massimo 2024 ospita il rito misterico di un anziano signore che persiste nella sua investigazione spirituale: la voce, che si spezza arrampicandosi dove non può più (ma non è mai stato un cantante in senso stretto, malgrado il pastoso timbro) è l’elemento umano, la chitarra quello soprannaturale. L’Eternità incombe attorno a David: tra Aventino e Palatino rintoccò la prima division bell di Roma; e c’è il Dio Giano, che da un altro colle vedeva passato e futuro. Gilmour domina nel “suo” teatro all’aperto da 15 mila spettatori (c’era stato nel 2016) per la prima mondiale del tour, una residency di sei date, poi tappe multiple alla Royal Albert Hall, l’Hollywood Bowl di LA, il Madison Square Garden. A passeggio nei Millenni, elusivo e meditabondo – così lontano dalla grandeur del detestato Waters – come il Virgilio delle Bucoliche dispensa poesia per incantarci con fiumi infiniti, prati divinizzati, il sole e le stelle che ci sorpassano nella nostra vita brevis. Campane risuonano, nel fondo dell’anima.
Dal live di Gilmour promana una filosofica, stoica saggezza: il filo narrativo è la tirannia del Tempo. Lo si capisce dalla scaletta: tra i classici pesca le sezioni di Dark Side of the Moon (Breathe, Time) che segnano le età dell’esistenza, con una versione di The Great Gig in the Sky spogliata di ogni elemento sensuale, definitivamente oltremondana con quattro donne – un coro – attorno a un piano ornato di candele, quasi una commemorazione, un rito unplugged, il passaggio verso non sai dove. E se in quell’intermezzo acustico il brano successivo è A boat lies waiting, dedicato allo scomparso sodale Richard Wright, diventa chiaro che il concerto sia l’elegiaca celebrazione dell’Invisibile, lo stesso congresso di spettri di Wish you Were Here. Gilmour è lì con le sue Parche; nel catalogo Pink Floyd cerca se stesso, la propria firma: Fat Old Sun (da Atom Heart Mother) è il raggio di luce in cui passa la consapevolezza; i tasselli di The Division Bell (la commovente performance per Marooned, la struggente High Hopes; Coming Back To Life, A Great Day For Freedom) risuonano con maggiore eloquenza di trent’anni fa, del Gilmour che sanciva il dominio pieno della band post-Waters; e così la vecchia Sorrow, scritta in solitudine nella casa galleggiante. Ma se il bis di Comfortably Numb, con l’inarrivabile assolo, è per il rock ciò che è l’ultimo Canto del Paradiso per Dante, sarebbe ingeneroso tacere che i brani del nuovo Luck and Strange si inseriscono perfettamente in questa indagine di un uomo alle prese con l’angoscia delle stagioni che gli restano. Il momento più sublime è l’entrata della figlia Romany con la sua arpa, per eseguire e cantare soavemente Between two points. La ragazza ha 22 anni, la stessa età di David quando si unì ai Pink Floyd. La risposta a tutto è lì, nello sguardo del padre.

Apparentemente largo

 

Il Campo Lagna
di Marco Travaglio
Il pallosissimo feuilleton dal titolo “Campo Largo”, volge finalmente al termine. E avrebbe evitato di fracassarci i santissimi per mesi se i suoi leader o aspiranti tali avessero chiarito cosa intendono con quella ridicola espressione bucolico-agronomica. C’è chi l’ha detto fin dall’inizio: Conte, Fratoianni, Bonelli, Calenda e Renzi; e chi tuttora non lo dice, preferendo parlare per supercazzole: la Schlein. Con una complicazione aggiuntiva: quelli che l’han detto con chiarezza lo intendono in maniera diversa l’uno dall’altro. Conte, Bonelli e Fratoianni vogliono un’alleanza tra forze compatibili, quindi non con Renzi e, quanto a Calenda, dipenderà dalle sue prossime evoluzioni. Neppure Calenda vuole Renzi (gli è bastata la sanguinosa “alleanza” del 2022), ma non esclude gli altri, anche se il suo programma è incompatibile con molti di loro. Renzi, respinto con perdite dalla destra, è talmente disperato che pur di tornare nel centrosinistra (cioè in Parlamento con immunità incorporata) digerisce di tutto. Poi c’è l’enigma della sfinge: la Schlein, che parla e lascia parlare Renzi come se avesse con lui un patto d’acciaio, ma s’è scordata di avvertirne gli alleati. Che se lo ritrovano fra i piedi dappertutto, insalutato ospite, senza capire chi l’ha invitato, mentre lui spiega che l’ha cercato Elly. Ma guai a domandarle se è vero, e quando, e perché, e su quali basi, clausole e condizioni: lei risponde tutta offesa che “basta veti” all’uomo dei veti. L’altro giorno i 5 Stelle, che in Liguria avevano sacrificato il loro Pirondini per unirsi a Orlando a patto che non ci fosse Iv, si sono ritrovati una lista piena di renziani camuffati da centristi. E Orlando ha dovuto depennarli in extremis con l’aria stupita, come se Conte non gli avesse detto che non li voleva. Intanto la Schlein intimava a M5S e Avs di non votare un organo di garanzia come il Cda Rai perché Pd e Renzi avevano deciso di sabotare la legge voluta da loro. E, siccome quelli l’hanno votato, li hanno accusati e fatti accusare di tradimento.
Ora, il feuilleton ha strarotto gli zebedei e non può durare altri tre anni, quanti ne mancano alle Politiche (salvo sorprese). È il caso di darci un taglio. I leader di opposizione si parlino e si diano appuntamento al 2027 o a quando sarà: per fare opposizione non servono alleanze, campi larghi o stretti o così così. Ognuno si oppone come può, poi fra tre anni i superstiti si siederanno a un tavolo e decideranno cos’è meglio per non rimandare le destre al governo. A naso, la soluzione è un contratto come quello fra 5Stelle e Lega del 2018 e quello fra 5Stelle e Pd del 2019: pochi obiettivi chiari e condivisi. E il premier lo decidono le primarie allargate ai partiti che ci stanno. Nel frattempo la lagna del Campo Largo è abolita per sfinimento degli italiani.

L'Amaca

 

L’epoca delle tribù
DI MICHELE SERRA
Netanyahu all’Onu ha parlato come un capo tribù che combatte contro altri capi tribù. In questo non è affatto solo, e anzi è molto rappresentativo della nostra epoca: è sempre più raro sentire un leader parlare nel nome di ideali e interessi sovra-nazionali, o addirittura (accadde!) nell’interesse dell’umanità e dei diritti di tutti, come fecero Kennedy a Berlino, Obama al Cairo, Gorbaciov nell’estremo tentativo di restituire l’Est Europa alla democrazia, e il socialismo al suo destino umanistico. E come fecero i padri dell’europeismo sulle rovine fumanti della Seconda guerra mondiale.
Ora è il turno dei capotribù. Non solo i leader di partito, dunque di una fazione, anche molti leader di nazione affrontano il mondo come un nemico da domare, o un impiccio da snobbare. Il loro maestro indiscusso è Putin: o il mondo mi obbedisce, o lo cancello.
È una specie di egocentrismo su larga scala, come se ogni comunità umana si accontentasse del suo selfie. Se i telegiornali sono un bollettino di guerra (confesso: cambio spesso canale, il livello di odio e di stupidità delle guerre non è più sopportabile) è anche perché il nazionalismo ha stravinto, in tutte le sue forme, e tutte o quasi le istituzioni sovranazionali che l’umanità è riuscita a darsi nella seconda metà del secolo scorso stanno perdendo potere e autorevolezza. Lo sguardo piccino della politica, nel Terzo Millennio, rende dolorosamente improbabile ogni ipotesi di pace. Netanyahu all’Onu non sembrava un membro della comunità mondiale, ma uno dei tanti che andava a dire alla comunità mondiale: non conti più niente, faccio quello che mi pare.

sabato 28 settembre 2024

Alla fine poi…





Finisci il tuo intervento, dici quello che vogliono sentirti dire, e poi ti accorgi di essere solo un semplice attore!

Statura




In effetti…





…mi sembra sia stato chiaro, senza…guanciale sulla lingua!

Natangelo

 



Vada all'inferno

 



Come stanno le cose

 

Asilo Aventino
di Marco Travaglio
L’altro giorno, siccome la Schlein aveva detto No, il Pd è riuscito a votare Sì alla risoluzione del Parlamento sui missili contro la Russia in 8 modi diversi. E si pensava che fosse un record ineguagliabile. Ma mai sottovalutare quella parodia di partito che pensa di essere democratico solo perché ognuno fa come gli gira. Infatti l’altroieri i dem si sono di nuovo superati. Siccome il Cda Rai è scaduto a maggio e va rinnovato secondo la legge voluta da Renzi e votata dal Pd nel 2015, il Pd e Renzi non hanno votato quello nuovo. Erano sull’Aventino col fu Calenda a ululare alla luna e ad accusare di “tradimento”, con tutti i media al seguito, chi rispetta la loro schiforma senz’averla votata, mentre loro che l’hanno votata e governato per 6 dei 9 anni seguenti senza cambiarla, fingono che non esista e non sia roba loro, ma della destra. Purtroppo la destra ha applicato la loro legge: Cda di 7 membri, di cui 4 eletti dal Parlamento (2 alla maggioranza e 2 all’opposizione, se si mettono d’accordo, sennò la prima ha i voti per prenderseli tutti e 4), 1 dai dipendenti e 2 dal Mef (cioè dal governo) come Ad e come presidente (quest’ultimo eletto dai due terzi della Vigilanza). Quindi 4 alla maggioranza, 1 ai dipendenti e 2 all’opposizione (se partecipa). Oltretutto il Cda scaduto era quello di Draghi. Solo che poi l’Ad pidino Fuortes se n’è andato un anno prima in cambio del San Carlo di Napoli (che però era occupato, allora gli han dato il Maggio Fiorentino), e il Mef l’ha sostituito con Sergio; e la presidente renziana Soldi è fuggita a luglio. Peraltro TeleRenzi e TeleDraghi avevano occupato tutte e tre le reti e i tg, mentre TeleMeloni ha lasciato al Pd il Tg3, i Palinsesti e decine di poltronissime e vicepoltronissime.
Per essere ancor più credibili nell’epica pugna contro TeleMeloni, Elly e i suoi astuti suggeritori hanno avuto questa ideona: l’intera opposizione doveva disertare il voto sul nuovo Cda, così le destre lasciate sole avrebbero fatto strike (7 su 7). E, ogni volta che l’opposizione avesse tuonato contro l’occupazione della Rai, le avrebbero risposto: “Ma siete stati voi a imporci di occuparla, prima con la schiforma e poi col rifiuto di eleggere i vostri consiglieri”. Per fortuna non tutta l’opposizione fa politica come all’asilo d’infanzia, a base di capriccetti e gné-gné: 5Stelle e Avs, da sempre contrari alla schiforma Pd-Renzi, hanno presentato le loro riforme, ne hanno fissato con la presidente Floridia la discussione in Vigilanza e, nell’attesa, hanno rispettato la legge vigente. Così nel nuovo Cda Rai siedono anche due sentinelle della minoranza: una indicata dal M5S, l’avvocato Di Majo; e una da Avs, Roberto Natale, ex portavoce della Boldrini e vicinissimo al Pd. Che riesce ad agguantare poltrone anche quando non c’è.

L'Amaca

 

Un Aventino che vede lontano
DI MICHELE SERRA
Schlein (e con lei Renzi e Calenda) ha fatto benissimo a non partecipare alla scelta dei nuovi quattro consiglieri della Rai eletti dalle due Camere. È da molti anni che il mortificante controllo dei partiti sulla televisione pubblica viene considerato (da tutti, ma solo a parole) controproducente per la Rai e imbarazzante per la penosa ricaduta in termini di favori agli amici degli amici. E sono anni che si sente dire: bisognerebbe che qualcuno facesse un passo indietro. Ma alla fine, per la serie “comincia tu”, nessuno lo fa.
Adesso qualcuno lo ha fatto, e i calcoli sul grado di convenienza politica di questa scelta, che di fatto consegna questo Cda al governo senza colpo ferire, suonano piuttosto cinici e parecchio miopi. Cinici perché dovrà pure esistere una qualche questione di principio in base alla quale mettere da parte, almeno una volta ogni tanto, gli interessi di bottega. Miopi perché l’entrata in vigore delle nuove normative europee sulla libertà dei media e sul loro assetto (Media Freedom Act) potrebbe rendere illegittimo, di qui a breve, non solo questo Cda, ma l’intera procedura di nomine che ha fino a qui mantenuto la Rai sotto lo stretto controllo dei partiti politici.
Ovviamente, questa Rai a trazione sovranista sarà invogliata a considerare una inutile interferenza le normative europee: a casa propria ognuno fa come gli pare. La questione è legalmente molto intricata, ma se avesse ragione Schlein (“questo Cda è già fuori legge”), avrebbe avuto ragione due volte. La prima uscendo da quel decrepito mercato, la seconda vedendo che quel mercato viene finalmente chiuso perché disonora i principi di autonomia e libertà dell’Unione Europea.

Molto bello




Sono la GIOCONDA di Leonardo da Vinci.

L'opera d'arte più deludente del mondo.

In effetti, molti visitatori del Louvre rimangono delusi quando si trovano di fronte a me.

Ogni giorno, circa 30.000 persone vengono a vedermi, quasi 10 milioni all'anno. Fanno lunghe code solo per una foto o un selfie. Le loro aspettative sono altissime: dopo tutto, si sa, sono il quadro più famoso al mondo! Ma poi, quando mi vedono, così piccola, sommersa da questa folla di fan, se ne vanno dicendo che non ero poi così straordinaria...

Li capisco, poverini.

Semplicemente, ignorano la mia storia.

Innanzitutto, non sono un quadro, ma una tavoletta. Una tavola di pioppo di appena 77x53 cm. Forse ti aspettavi qualcosa di diverso. Mio padre, Ser Leonardo Da Vinci, iniziò a dipingermi a Firenze nel 1503, cancellando un altro quadro che si trovava sotto di me.

Rappresento il ritratto di Lisa Gherardini.

Infatti, mi chiamano anche MONNA LISA.

Monna è l’abbreviazione di “Madonna”, la parola latina "Mea domina", ovvero "mia signora". Lisa era la moglie di Francesco del Giocondo. Ecco perché mi chiamo Gioconda, perché ero la sua sposa, non perché sorrido felice.

Ma Leonardo non mi vendette mai.

Infatti, mi portava sempre con sé, mi adorava, ero il suo dipinto preferito. Mi ritoccava costantemente. Come dice Vasari, sono "INCOMPIUTA", non sono mai stata finita, lo sapevi?

Ero nella sua camera ad Amboise, in Francia, quando Leonardo morì nel 1519. NON sono mai stata rubata dai francesi! Fui acquistata regolarmente dal re di Francia Francesco I, che era un mio grande ammiratore. Quindi, ogni volta che voi italiani dite ai francesi: "Restituiteci la Monna Lisa!"

La mia casa è qui, a Parigi!

Nel tempo, mi hanno rubato, sfregiato, deturpato. Duchamp mi mise i baffi, Andy Warhol mi fece pop, Botero mi rese grassottella, Banksy mi trasformò in un mujahidin con un lanciarazzi. Sono un’icona moderna, una star o, meglio, una vera superstar.

E ci sono molti segreti nascosti in me.

A cominciare dal mio misterioso sorriso.

Alcuni dicono che sorrido perché Leonardo, mentre mi dipingeva, chiamava musicisti e giullari per intrattenermi. Altri, come Dan Brown nel suo Codice Da Vinci, sostengono che io sia la versione femminile di Leonardo stesso. Freud disse che rappresento un caro ricordo d’infanzia di Leonardo, forse sua madre.

Tutte sciocchezze!

Sorrido, perché quando vi vedo arrivare tutti trafelati davanti a me, in questo turismo di massa frenetico e superficiale, senza contemplazione, vedo i vostri volti delusi e capisco che non avete capito NIENTE di me. Ecco perché continuo e continuerò a essere per sempre l’immagine più bella del mondo!

(tradotto da web)

venerdì 27 settembre 2024

Adieu!




La Saggezza




Con rispetto


Scusi l’ardire Santità: possibile che sotto certi aspetti vi sia qualcosa di vero in quello che afferma; ma è anche verità, e Lei ne sono consapevole da tanto tempo lo combatte, che in Vaticano si preferisce vivere da soli con la servitù in appartamenti da centinaia di metri quadri anziché rimboccarsi le maniche ed uscire incontro alle innumerevoli situazioni estreme che attanagliano le nostre città. Non è chiaramente rivolto a Lei quanto detto, sappiamo bene infatti che ha lasciato il palazzo apostolico per vivere a Santa Marta! Ma attorno… non tutti… 

Proprio oggi




Domandina




Fatemi capire

 


Daje!

 

Poi te la spiego
di Marco Travaglio
“Antisemitismo”, “ispirazione omicida”, “15 anni di pura merda”, “feccia antigiudaica”, “Travaglio fascista di destra”, “diffamazioni, calunnie, oltraggi alla verità”, “caccia all’ebreo”, “bassifondi”, “schifo”, “russificazione”, “odio dal fiume al mare”, “vignette da Terzo Reich alla carbonara”. Abbiamo come il sospetto che Giuliano Ferrara non abbia apprezzato le vignette di Mannelli e Natangelo su Netanyahu e non ami neppure il nostro “fogliaccio finanziato solo da chi lo legge”: avendone lui fondato uno finanziato da chi non lo legge (cioè da tutti), possiamo comprenderlo. Certo non ci metteremo a spiegargli le vignette: quando uno non capisce le battute c’è poco da fare. È come spiegare le barzellette al tonto della compagnia, quello che non ride. Lui poi è un finto tonto che fa il furbo: sa benissimo che il miglior antidoto all’antisemitismo è dire che, se un ebreo è un serial killer, la colpa è di quell’ebreo e di chi non lo ferma, non di tutti gli ebrei. E sa benissimo che Netanyahu ha sterminato più civili innocenti in un anno che l’Olp, Hamas e Hezbollah in 50. Ma non vuole ammetterlo. O non può.
A noi piace ricordarlo in una precedente reincarnazione: il Ferrara capogruppo del Pci a Torino, tutto kefiah e odio per Israele (antisemita, direbbe oggi), che il 19 settembre 1982, dopo la strage di palestinesi perpetrata a Sabra e Chatila dai falangisti cristiani sotto gli occhi degli israeliani, si paracaduta su piazza San Carlo. Fin sotto il palco dell’orchestra di Luciano Berio che sta per esibirsi. Sudato e paonazzo, sbraita all’assessore alla Cultura Giorgio Balmas: “Ferma tutto, dobbiamo denunciare crimini di Israele e dedicare il concerto al popolo palestinese!”. Balmas tenta di spiegargli che è impossibile. Il concerto ipersperimentale, è tutto calibrato al centesimo di secondo: 300 orchestrali sparsi per la piazza, trombettisti appesi alle finestre, Berio che dirige a distanza con speciali ricetrasmittenti. L’ossesso si arrampica sul palo del palco, rischiando la catastrofe. Mostra i pugni e scalcia il suo incolpevole cane lupo. Poi corre da Berio, che lo prende per matto e dà il via al concerto. Un funzionario sbotta: “Ma che vuole quello stronzo?”. Lui lo atterra con un pugno in faccia. Poi chiama un amico cronista della Stampa, che l’indomani accusa Berio di avere rifiutato la dedica ai palestinesi perché sua moglie è ebrea. Chiede anche la testa di Balmas, che non si dimette. “Allora mi dimetto io”, tuona il compagno feddayin: “Balmas, col suo comportamento stupido e immorale, lede la dignità democratica e antifascista di Torino, offendendo i martiri palestinesi”. Lascia il Pci, passa al Psi e da lì a FI. Nel frattempo fa pure la spia prezzolata della Cia. Ed è un peccato che abbia smesso: oggi le battute su Netanyahu potrebbero spiegargliele gli americani.

Poof!

 


Questa è potente!

 



giovedì 26 settembre 2024

Wooooow!




Poche parole




Paragone




Vergogna!




Sante parole!




Si scherza dai!

 



Loro e gli altri

 



Buoni e cattivi

 

In Europa il “cattivo” Vannacci parla di pace meglio dei “buoni”
DI DANIELA RANIERI
Qualche giorno fa, al Parlamento europeo, sono risuonate parole di radicale chiarezza in merito ai “principi tesi a guadagnarci una pace prospera e duratura” sui quali è stata fondata l’Unione europea, minacciati dall’intensificarsi degli sforzi di Nato e Ue per fare la guerra alla Russia per interposta Ucraina: “A circa 2400 km da questo Parlamento, lei (Dombrovskis, in assenza dell’Alto rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri Borrell ndr) ci promette una guerra a oltranza per cercare una vittoria… E visto che la vittoria non arriva, fa delle pressioni continue sull’Italia, che ha deciso giustamente di cedere le proprie armi per garantire la legittima difesa a un Paese aggredito, ma che non vuole che quelle stesse armi si trasformino in uno strumento che ci potrebbe portare al baratro della distruzione termonucleare”.
Accipicchia, e chi è che parla come Adenauer? Sicuro un vero pacifista, europeista e amante della Costituzione italiana: Zingaretti? Bonaccini? Nardella? Picierno? Sarebbe ben strano: hanno appena votato sì, con capziosi distinguo da neurodeliri, alla risoluzione per permettere all’Ucraina di usare le nostre armi in Russia (hanno votato no solo Lega, M5S, Avs; nel Pd si sono astenuti Strada e Tarquino). Ebbene, a parlare è stato Vannacci. Eh, lo sappiamo. Si chiama dissonanza cognitiva, ed è quella tensione psicologica provocata dalla contraddizione sorta tra le nuove informazioni e le vecchie credenze, un fenomeno che si genera solo nelle menti inclini alla riflessione (quelle refrattarie manco avvertono la contraddizione, o la liquidano dicendo che Vannacci è putiniano, mentre gli altri, gli atlantisti pro-guerra, non possono esser detti guerrafondai e servi degli Usa perché sono buoni a prescindere).
Vannacci ha aggiunto: “L’Alto rappresentante Borrell vola in Medio Oriente per chiedere un cessate il fuoco a Gaza: da una parte chiede la pace senza condizioni, dall’altra ci promette guerra, missili, granate e droni. E critica Orbán, unico rappresentante europeo che cerca una soluzione negoziale”. Purtroppo è così: mentre gli americani, i pacieri del mondo che hanno portato ovunque morte e distruzione, avanzano insieme agli zombie colonizzati d’Europa nella danza macabra che ci sta portando in guerra con la Russia, è solo Orbán col suo portavoce a denunciare “la politica bellicista sbagliata, irresponsabile e pericolosa dell’élite occidentale che sta distruggendo l’Europa”; è Trump a lanciare l’allarme su un’imminente Terza guerra mondiale (mentre la Harris su questo, come su tutto il resto, è assai spensierata); è Salvini (!) a mettere in guardia sui rischi dell’uso delle nostre armi in Russia. Per dire come siamo ridotti. Invece di dire ottusamente che quelli lavorano per Putin, bisognerebbe forse notare che se i sovranisti, razzisti, omofobi etc. si sono accorti che stiamo andando verso la fine del mondo, mentre per i “democratici” va tutto benone, il problema sono i “democratici”. Ovviamente i pacifisti non possono votare o augurarsi che vincano i cattivi, pena la scomunica e l’esclusione dal consesso dei democratici; devono continuare a votare la Picierno e ad adorare il santino della Von der Leyen, presidente della Commissione europea, che con la sua cotonatura contundente sponsorizza modernissimi bunker anti-aerei finlandesi e gira agghiaccianti video bellicisti in cui promette di “potenziare (“turbo-change”,ndr) la nostra capacità industriale di difesa”, cosa che peraltro noi stiamo docilmente facendo, impegnandoci con la Nato per portare al 2% le spese in armamenti e dirottando fondi del Pnrr sulla produzione di armi facendo rientrare la spesa sotto la voce-fregatura “resilienza”. I pacifisti si astengano dal votare, restino a casa a costruire rifugi anti-atomici, cosa che tutto sommato ai Buoni va anche bene.

Minoli!

 

La serva serve
di Marco Travaglio
Questo articolo, con qualche data cambiata, l’ho scritto varie volte negli ultimi 15 anni e anche prima. Ma non è colpa mia: è che a ogni giro di nomine Rai arriva, puntuale come le tasse, la “candidatura Minoli”. Per non dire che l’unico a volere Giovanni Minoli è Minoli Giovanni, i gazzettieri fanno i vaghi: “spunta”, “avanza”, “se ne parla”. Ieri il Corriere, prima di intervistarlo, ha precisato che “gira il suo nome per la presidenza Rai”. E indovinate chi lo fa girare. Ma stavolta lui fa il prezioso: siccome nessuno gli ha chiesto niente, dice che se qualcuno gli chiede qualcosa “allo stato attuale non ci sono le condizioni”: “I poteri sono ben pochi, servono deleghe ad hoc”. Quindi bene così: nessuno lo vuole, lui non vuole, saluti e baci. Invece no: “Mi sono candidato a consigliere di amministrazione perché ritengo di avere la necessaria esperienza”. È in pensione da 15 anni, ma – tomo tomo cacchio cacchio – “ho attraversato i generi” con Un posto al sole. “Questo è servizio pubblico. Me l’ha detto anche Confalonieri di Mediaset. E ho anche ricevuto la cittadinanza onoraria di Napoli all’unanimità”. Mica pizza e fichi.
Purtroppo in Rai non regna “la professionalità”, ma “l’appartenenza”. E lui l’ha scoperto adesso. Non nel 1987, quando faceva gli spot elettorali a Craxi col garofano rosso all’occhiello. O quando gli scriveva con la saliva al posto dell’inchiostro: “Caro Bettino… in 10 anni ho prodotto molti dei programmi di Rai2 che hanno avuto più successo… Per questo ritengo che avrei potuto essere considerato un interlocutore nel momento dell’ennesima difficilissima scelta circa il destino della Rete 2… Non sono mai stato capace di spendere tempo nelle manovre di corridoio… Capirai lo sfogo ma anche l’amarezza di chi si sente a posto con la coscienza professionale e la lealtà politica, ma sempre scavalcato dai pregiudizi, dalle informazioni incomplete, tendenziose e forse cattive… Se servo, ci sono”. O quando da craxiano si scoprì martelliano, berlusconiano, veltroniano, prodiano, montiano, renziano e sovranista (“se sovranismo significa tornare a produrre programmi in azienda, non mi dispiace”). O quando la Rai gli regalò i diritti di 3 mila ore de La storia siamo noi, poi glieli ricomprò alla modica cifra di 1 milione e ora rimanda in onda il succulento programma. O quando lui passò a Radio 24 e a La7, dove lanciò un’epica intervista con queste parole: “Continuiamo il viaggio tra le donne top manager d’Italia. Siamo andati a incontrare la presidente della Lux, che da 25 anni sforna in continuazione successi d’ascolti per la tv. Lei è Matilde Bernabei!”. Cioè sua moglie, ma lui si scordò di precisarlo. Mille reincarnazioni e un solo, coerente motto: “Se servo, ci sono”. E la serva serve sempre..

Interessante opinione

 

Perché oggi l’atomica è di nuovo possibile

IMPARARE A NON AMARE LA BOMBA - Le guerre in serie dal Medio Oriente all’Ucraina, più quella che si prospetta con la Cina per Taiwan, possono sfociare in conflitto nucleare. È dissennato svilire la paura delle popolazioni 

di Barbara Spinelli 

Si sente spesso dire, da politici e commentatori, che gli europei non sono quelli d’un tempo: hanno paura della guerra, non sanno più farla. Anche quando combattono per procura, lasciando che siano gli ucraini a morire per i cosiddetti Valori Occidentali, son pronti a vendere le armi ma non la pelle.

Degli Stati Uniti si dicono cose analoghe, anche se Washington ha uno scopo specifico: fingere un’egemonia planetaria peraltro già perduta. All’Europa apatica e invertebrata mancherebbe il coraggio: quello che ti spinge entusiasticamente al fronte e all’economia di guerra per difendere una Causa.

Queste lamentazioni apparentemente vorrebbero risvegliare, smuovere, ma sono in realtà prive di senso. Il motivo per cui la guerra e gli stermini sono visti più volentieri in Tv che guerreggiati in prima persona – ma comunque visti volentieri e caldeggiati – nasce non dalla paura di essere coinvolti e sacrificare soldati, ma da una mancanza spettacolare di paura.

Le guerre del 900 sono ricordate, non senza timori, ma stranamente c’è una guerra che non sembra suscitare autentica e durevole paura nei politici: il conflitto nucleare, scatenato magari dall’uso russo di atomiche tattiche nel teatro di guerra ucraino e seguito non improbabilmente da uno scontro nucleare tra Russia-Occidente. Per quanto riguarda le guerre dello Stato israeliano (Gaza, Libano, Cisgiordania, Siria, Yemen, in prospettiva Iran) quel che viene occultato, più che dimenticato, è il potenziale atomico di cui Israele dispone dagli anni 60: oggi tra 100 e 200 testate.

C’è da domandarsi se questo grande lamento dei politici nasca da una memoria sepolta ad arte di quel che fu il bombardamento del Giappone nel 1945, prima a Hiroshima poi a Nagasaki, nonostante Tokyo fosse già pronta alla resa. A deciderlo fu il presidente Harry Truman. Poi durante la Guerra di Corea (1950-53) l’uso dell’atomica fu nuovamente contemplato dal generale Douglas MacArthur. Il comandante delle truppe nella zona di guerra supplicò Truman di colpire Corea del Nord e Cina con 34 bombe nucleari. Per fortuna fu licenziato.

Già in Corea dunque l’atomica era banalizzata. In Europa si moltiplicavano i movimenti anti-nucleari ma l’esperienza di Hiroshima e Nagasaki finì nel dimenticatoio. Fu certamente un crimine contro l’umanità se non un genocidio, ma molti esperti e politici continuano a dire che la guerra con il suo strascico di morte sarebbe durata per anni, se non fosse stata provvidenzialmente interrotta da “Little Boy” e “Fat Man”, i due nomi scherzosi dati alle ogive. Negli anni successivi il governo giapponese preferì nascondere il fatto che Tokyo prima di agosto era disposta alla resa, e che le atomiche furono sganciate per mandare un segnale all’Unione Sovietica, in vista delle imminenti spartizioni d’Europa.

Uno dei motivi per cui la banalizzazione e gli occultamenti sono stati possibili e accettati dai vincitori del ’45, secondo lo storico di diritto internazionale Richard Falk, è la “sbalorditiva coincidenza”, nel dopoguerra, di due eventi cruciali: la decisione dei vincitori di convocare il tribunale di Norimberga contro i crimini nazisti, l’8 agosto 1945, e i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki due giorni prima e uno dopo, il 6 e 9 agosto dello stesso anno.

Non solo il Tribunale adottò una giustizia dei vincitori, mettendo appropriatamente sotto accusa la Germania di Hitler, ma sorvolando sui crimini di guerra degli alleati (distruzione totale e indiscriminata di Dresda e di molte città tedesche, lucidamente descritta da Winfried Sebald in “Storia naturale della distruzione”). Ancor più gravemente, il Tribunale fu muto sulle atomiche impiegate in Giappone.

Il misfatto dei vincitori occidentali – responsabile Usa in testa – perdura nonostante le ripetute commemorazioni, e le due bombe non ricevono la denominazione che meritano: un delitto condannabile accanto a quelli nazisti. A tutt’oggi gli Stati Uniti non sono chiamati a rendere conto, e come minimo a scusarsi, di quello che fu un inequivocabile crimine contro l’umanità: né militarmente giustificato, né legale, né legittimo. Gli uccisi dalle due esplosioni a Hiroshima e Nagasaki furono 214.000, i feriti 150.000. Negli anni successivi migliaia di sopravvissuti morirono o s’ammalarono di cancro, leucemia e altri effetti delle radiazioni.

Scrive ancora Richard Falk, a proposito dell’impunità di cui godettero, e godono ancora, le amministrazioni Usa: “Non si tratta solo di insensibilità. Si tratta di intorpidimento morale, che predispone gli attori politici – siano essi Stati, imperi o leader – ad abbracciare crimini passati e a commettere futuri crimini” (Counterpunch, 12.8.2022). Rivelatore il titolo del film di Stanley Kubrick, nel 1964: “Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba”. La bomba atomica si abbraccia, si ama. Così si trasforma in impiegabile mezzo di guerra.

La guerra di Israele in Medio Oriente e tra Nato e Russia in Ucraina, più quella che si prospetta con Pechino su Taiwan e sul Mar cinese meridionale, può sfociare in conflagrazione nucleare. Alla luce di questa possibilità, è dissennato svilire e denunciare la paura che pervade parte delle popolazioni. Dopo Hiroshima e Nagasaki, e da quando Israele e altri Stati si sono dotati dell’atomica, la natura della guerra è inevitabilmente cambiata. Anche il pianeta, barcollante com’è, non sopporterebbe simili disastri. Ripetere che in Ucraina l’Occidente “non sa più fare le guerre” è da scriteriati. Washington ne pare più consapevole dell’Unione europea.

Nel 1979 il filosofo Hans Jonas disse, nel libro Il Principio Responsabilità, che esiste un’euristica della paura, che impone di cercare e conoscere meglio noi stessi grazie alle energie racchiuse nei nostri spaventi, se si ha a cuore il futuro della terra. Esiste la possibilità di correggere politiche e comportamenti, scrisse, se non ci si affida a visioni salvifiche (esportazioni del comunismo, della democrazia) ma a visioni di possibili catastrofi.

Fa parte di questa euristica (ricerca, scoperta), la consapevolezza che le guerre in corso non solo si potevano evitare ma possono essere fermate, e che a questo scopo le parole di condanna non bastano, specie se provenienti dall’Onu e dai suoi veti. Può invece bastare l’interruzione totale dell’invio di armi sia a Israele, sia a un’Ucraina che non può vincere e per salvarsi dovrà trattare subito. La condizione è smettere la complicità dei governi con le industrie di produzione e commercio di armi, interessatissime a proseguire le guerre. Secondo il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) i primi tre fornitori di armi a Israele sono Usa, Germania e Italia. Quando se ne comincerà a parlare in Italia?

Ecco perché è davvero una controverità continuare a ignorare o insultare le paure dei cittadini, e a immaginare un’Europa bellicosa come nei “bei tempi passati”. È il coraggio della pace che ci vuole, ma unito alla volontà di prender sul serio la paura dell’atomica.

mercoledì 25 settembre 2024

Prime necessità




Firma, firma!





Firma le bombe il comico ucraino che spera che tutti insieme si aggredisca una nazione con seimila testate nucleari…

Immagino...

 

Jacques Lacan non avrebbe dubbi in merito: dinnanzi a tanta insensatezza, pochezza, voracità, compulsione, frenesia, schizofrenia il responso sarebbe netto e glaciale: incurabili nella loro follia. 

Stiam parlando dei rampolli - li chiamano così - della Famiglia Italica per antonomasia, quella che ha dato sì tanto lavoro agli italiani, ma ne ha pure ricevuto in cambio un'enorme e per certi versi vergognosa ricchezza: John, Lapo e Ginevra, nel parossismo più totale, già infarciti come tramezzini in bar siculo, vengono però assaliti dalla fobia classica di quelli come loro, non tutti ma tanti, tantissimi, ovvero l'orrore per i balzelli che, per il loro statuto, li devono pagare obbligatoriamente gli inferiori, molti dei quali vengono pagati, a volte, da loro stessi, anche se, con turnazioni indecorose, lo stato, che siamo noi, molte volte si accolla le spese tramite la cassa integrazione, di cui loro sono i più grandi approfittatori. Già il Nonno occultò cifre pazzesche alle grinfie malefiche del fisco, lo sappiamo grazie alla ribellione della figlia Margherita che ha aperto il vaso di Pandora; ma questi tre nipotini, questi Qui-Quo-Qua dell'effimera voracità, questi giovani smaniosi di accumulare risorse - aria fritta - han pensato bene di spartirsi come condor pure l'eredità della nonna volata nei cieli pochi anni fa. Me li immagino, mi sforzo d'immaginarmeli mentre carbonariamente s'incontrano, ci metto pure la penombra, per trovare l'escamotage liberatorio dalle grinfie statali! Mentre la nonna è ancora in vita confabulano sul da farsi, su come sottrarci altri centinaia di milioni, fingere cioè di aver ricevuto donazioni per non dover pagare l'eredità, la spaventosa eredità di donna Caracciolo. Fingono di ricevere in regalo quello che dovrebbero avere alla scomparsa della nonna. E Ginevra, tra l'altro diventa proprietaria di un paio di orecchini. Che c'è di strano? Il valore degli stessi! L'ho letto dieci volte da varie fonti: 78 milioni di euro per un paio di orecchini! Uno schiaffo, un calcio negli stinchi per i comuni mortali! 78 milioni di euro! E Ginevra che fa? Come gli altri, finge di averli ricevuti in dono  dalla nonna ancora in vita! 

Questa è la storia. La loro storia, la nostra storia. Per la tristezza aspettiamo i prossimi salassi, a noi riservati.  

      

Non fa una piega!


Elezioni Usa. Si vota in America, baby, ma tu non puoi farci niente

di Alessandro Robecchi 

Tra una manciata di settimane, né ridendo, né scherzando, sapremo chi è il nuovo padrone del mondo, o almeno di una parte considerevole del mondo, cioè il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America. Come avviene ogni quattro anni, assistiamo un po’ stupiti e un po’ atterriti allo spettacolo d’arte varia delle elezioni americane, il che è bello è istruttivo, perché non c’è italiano – dai banchi del mercato ai commentatori più accreditati – che non diventi per qualche giorno esperto di Ohio, occhiuto osservatore delle dinamiche sociali del Michigan, esegeta della Florida. Una specie di “Presidenziali for dummies”, insomma, che è un po’ quel che accade nelle grandi aziende, quando il magazziniere, l’autista o l’uomo delle pulizie assistono alla nomina del nuovo amministratore delegato, che guadagna quarantamila volte di più. Le loro vite dipenderanno da lui, ma il loro potere sulla scelta di chi comanderà è meno di zero.

Ad attrarre l’attenzione verso questa grande festa della presa del potere nello Stato più potente del mondo contribuiscono certo anche elementi prepolitici – o post-politici, se preferite. E cioè la trasformazione delle elezioni americane in un baccanale pop in cui la democrazia si misura su questo o quel vip che si schiera, sull’entità delle donazioni di centinaia di milionari che puntano sul loro cavallo, su cosa dirà Taylor Swift, sulle geometrie variabili degli oligarchi e delle mega aziende, su promesse bislacchissime. Insomma, un miscuglio fascinoso e inestricabile tra l’Isola dei famosi, la notte degli Oscar e lo scenario geopolitico mondiale, aggravato dal fatto che uno dei concorrenti, mister Trump, ha già fatto il diavolo a quattro l’ultima volta, con tanto di assalto al Congresso e tifosi con l’elmetto di corna armati fino ai denti.

Viste da qui, poi, dalla periferia dell’Impero, dalla colonia pittoresca ma fedelissima, le elezioni americane consentono un simpatico tifo da stadio. Pare ovvio essere contro Trump, sostenuto apertamente quasi solo dall’estremismo salviniano, e sottotraccia da gran parte della destra, mentre per Kamala si spellano le mani gli onesti democratici del Paese, tra parentesi gli stessi che fino a un paio di mesi fa dicevano che Biden era in forma smagliante, praticamente un giovanotto. Bello, edificante, ma tutto teorico, perché alla fine, chiunque vincerà, chiunque entrerà alla Casa Bianca, noi andremo a baciare la pantofola al nuovo imperatore, lo faranno i patrioti post(?)fascisti oggi al governo, e lo faranno i democratici oggi all’opposizione se dovessero un giorno andare al governo, proprio come le tribù mesoamericane portavano doni e sacrifici umani a Montezuma. Del resto, l’Impero ha qui le sue basi e le sue bombe, e soltanto tre dei suoi fondi d’investimento gestiscono un quinto di tutti gli investimenti del mondo. Vengono qui a far la spesa quando vogliono (è notizia di ieri che Blackrock si è comprata il 3 per cento di Leonardo, e già possiede pezzettini non piccoli del sistema bancario italiano), e la “patriota” Meloni ha venduto a un’azienda Usa la rete Tim, che sarebbe un’infrastruttura strategica. Assisteremo dunque a una partita il cui risultato è rilevantissimo eppure irrilevante, perché la nostra fedeltà all’Impero non è in discussione, cosa che ci viene ripetuta ogni giorno, incessantemente, a volte come monito, a volte come lusinga e a volte come minaccia. In definitiva, si elegge il nostro capo, noi non votiamo, possiamo fare il tifo, ma chiunque sarà gli obbediremo.

Altro che dissing!





Mentre alcuni adulano due petomani vocali e il loro mefitico dissing, in realtà un modo per accalappiare allocchi, visto che sono in testa alla classifica, con le loro arie fritte!

25 settembre 1896




Vastità




Ops!



Una gran bella famigliola, non c’è che dire! Sportiva soprattutto… e ho detto tutto!

martedì 24 settembre 2024

Basilmente

 

Usa e Ue sono sempre più isolati, poveri e bellicisti
DI ELENA BASILE
È difficile credere che lo Stato profondo statunitense abbia cercato per la seconda volta di uccidere Trump senza riuscirci. Gli Stati Uniti sono il Paese democratico abituato a far fuori i propri presidenti. La Cia e il complesso militare industriale si sono sbarazzati dei due fratelli Kennedy, l’uno dietro l’altro, a pochi anni di distanza. Si ebbe allora la percezione che la realtà superasse la finzione. Sembrerebbe del resto verosimile che Trump sia funzionale al blob statunitense. Nessuno ha voglia di eliminarlo, di intimidirlo forse sì. Senza un personaggio estremo e peculiare come quell’imprenditore parvenu, come potrebbero i mezzi di intrattenimento del pubblico nella politica-spettacolo della più grande democrazia del mondo differenziarsi per far credere che esiste una lotta tra opposte fazioni? I democratici della Harris ridens possono oggi presentarsi come il partito che difende i diritti civili (Lgbtq+, aborto, apparentemente i migranti) e mostra un volto più educato e civile in Medio Oriente, grazie all’esistenza di Trump.
Nella sostanza nulla cambierà con la vittoria dell’uno o dell’altra, in quanto le politiche imperialiste dei neo-conservatori continueranno. Il dominio del mondo attraverso la supremazia militare e a vantaggio delle oligarchie finanziarie, delle armi e dell’energia sarà perseguito a rischio di guerra nucleare e mettendo da parte la mediazione e la politica.
La macchina della propaganda è all’opera per far credere che l’escalation in Ucraina sia dovuta alla Russia. Si nega l’evidenza. Le linee rosse della Nato sono state cancellate gradualmente di fronte al dissesto militare ucraino e Mosca si è limitata a rispondere, raddoppiando gli sforzi, ogni qual volta l’impegno della Nato è aumentato. Un ex diplomatico, in un suo recente articolo sulla Stampa, arriva a sostenere apertamente che bisogna autorizzare le armi letali per colpire la Russia in profondità affinché si possa, dopo le elezioni statunitensi, negoziare da una posizione di forza. Non spiega come mai una strategia che fino a oggi ha fallito dovrebbe all’improvviso divenire vincente. La Russia risponderà con altrettanta cieca violenza ai colpi della Nato e l’escalation conseguirà nuove sconfitte di Kiev. È avvilente che si adotti, per ragioni di carattere elettoralistico, una retorica bellicista che non ha obiettivi strategici. L’analista in questione sa perfettamente che i nuovi morti fino a novembre saranno inutili e non cambieranno le sorti della guerra. Sono funzionali al Partito democratico per evitare di presentarsi agli elettori mentre una sconfitta catastrofica è in corso in Ucraina. Un morto o un mutilato di guerra da un lato, dall’altro quanti voti per i Dem?
Dominique de Villepin, ministro degli Esteri francese nel 2003, stretto collaboratore del presidente Jacques Chirac, pronunciò all’Onu un discorso memorabile per opporsi all’intervento della “coalizione dei volenterosi” contro Saddam Hussein. Parlò della legalità internazionale assicurata dall’Onu e di un necessario ritorno alla politica e alla mediazione nella lotta al terrorismo e per la pacificazione del Medio Oriente. Ancora oggi, sulle reti francesi, rivolge appelli affinché l’Occidente abbandoni i doppi standard, la profonda ingiustizia della sua politica estera e ritrovi le ragioni della diplomazia, in Ucraina come a Gaza, in quanto le soluzioni esistono e sono a portata della politica.
Gli Stati Uniti e l’Europa che vorrebbero governare dividendo e isolando i Paesi nemici dagli amici, in una logica schmittiana (Carl Schmitt, politologo tedesco, considerava la dialettica amico-nemico costitutiva della dimensione politica), si sono di fatto isolati dal resto del mondo che non vota con loro alle Nazioni Unite e non applica le loro sanzioni. Il Sud globale, incluse India e Indonesia, non ha intenzione di assecondare le logiche di potenza degli Stati Uniti. Cerca di portare avanti una strategia estera per i propri interessi, mantenendo i rapporti con Cina e Russia, scegliendo il campo ogni volta in ragione delle proprie convenienze. L’Occidente predatore (purtroppo, caro signor Rampini, nessuno ci dice “grazie”) appare per quello che è: una regione in declino economico e morale, che utilizza la forza bruta a Gaza come in Ucraina per difendere i propri privilegi. Il premier laburista inglese Starmer rappresenta il bellicismo più spinto contro la Russia e, dopo la tappa a Washington, cerca di ottenere un coinvolgimento italiano più esplicito nell’uso dei missili Storm Shadow, costruiti anche grazie a Leonardo. La Russia dagli zar in poi è stata il nemico tradizionale di Londra. L’Italia, senza force de frappe nucleare, ha solo da perdere da una dichiarazione di guerra a Mosca. L’utilizzo dei missili Storm Shadow grazie a operatori e intelligence atlantici è percepita, a ragione, dalla Russia in quel senso.

Cascano dal pero!

 

Andreotti? Non mi dire
di Marco Travaglio
Siccome non c’è nulla di più inedito del già pubblicato, la deputata FI Rita dalla Chiesa, appena 42 anni dopo l’assassinio del padre Carlo Alberto e di sua moglie Emanuela, allude ad Andreotti come il politico che i mafiosi volevano favorire. E la cosa fa grande scalpore sui media, come se fosse una novità dell’ultim’ora. Peccato che sia già tutto scritto nero su bianco nelle sentenze su Andreotti, assolto in primo grado, poi mezzo assolto e mezzo prescritto in appello e in Cassazione. Sentenze che nessuno osa citare, tantomeno Rita dalla Chiesa, devota a B. che definì i pm di Palermo “matti, antropologicamente diversi dalla razza umana” proprio per quel processo. Già nel 1971 il giovane Dalla Chiesa, capo della legione Carabinieri di Palermo, denuncia le collusioni mafiose di andreottiani tipo Lima e Ciancimino. E appena ci torna come prefetto nell’aprile 1982, solo e abbandonato senza poteri reali, scrive sul suo diario parole più dure di qualsiasi condanna: “Ieri anche l’on. Andreotti mi ha chiesto di andare e, naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia, si è manifestato per via indiretta interessato al problema; sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardi per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori; sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno… lo ha condotto e lo conduce ad errori di valutazione di uomini e di circostanze; il fatto di raccontarmi che intorno al fatto Sindona un certo Inzerillo morto in America è giunto in una bara e con un biglietto da 10 dollari in bocca, depone nel senso: prevale ancora il folklore e non se ne comprendono i messaggi…”.
Nel 1986, testimone al Maxiprocesso, Andreotti nega di aver mai chiesto di incontrare Dalla Chiesa (che dunque avrebbe mentito al suo diario) e di avergli parlato del mafioso Inzerillo. Peccato che il generale l’abbia raccontato al figlio Nando, aggiungendo che Andreotti “è sbiancato in volto”. Il 2.4.1982 scrive al premier Spadolini: “I messaggi già fatti pervenire a qualche organo di stampa da parte della ‘famiglia politica’ più inquinata del luogo hanno già fatto presa là dove si voleva”. E il 30 aprile, giorno del delitto La Torre, annota nel diario: “La Dc a Palermo vive con l’espressione peggiore del suo attivismo mafioso, oltre che politico… Lo Stato affida la tranquillità della sua esistenza non già alla volontà di combattere e debellare la mafia e una politica mafiosa, ma allo sfruttamento del mio nome per tacitare l’irritazione dei partiti… pronti a buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno o dovranno essere toccati o compresi”. Quattro mesi dopo, la lugubre profezia si avvera con una raffica di mitra in via Carini. Serve altro?

L'Amaca

 

Da che pulpito, Musumeci!
DI MICHELE SERRA
La nomina di Irene Priolo, presidente ad interim della Regione Emilia-Romagna, a commissario per l’alluvione, è quasi un’ovvietà: tecnica, amministrativa, operativa.
Ma rende ancora più grave, con il senno di poi, la scelta governativa opposta, nel maggio del 2023, quando il governo Meloni approfittò dell’alluvione (espressione orrenda, “approfittò dell’alluvione”, ma difficile da smentire) per “punire” l’allora presidente della Regione, Stefano Bonaccini, scavalcandolo nella gestione dei soccorsi, e commissariando di fatto un territorio politicamente “nemico”.
Si parlò di sciacallaggio. Con un eufemismo si potrebbe definirlo basso, anzi bassissimo spirito istituzionale, uso fazioso della catastrofe, speculazione politica sul fango.
Se uguale metro dovesse essere usato per la ben più catastrofica gestione territoriale della Sicilia, l’attuale ministro della Protezione Civile, Musumeci, in quanto ex presidente di quella Regione (dal 2017 al 2022), dovrebbe essere interdetto a vita, lui e l’intera classe dirigente siciliana, alla luce della pessima condizione del territorio, della fallimentare gestione delle acque, della scadente tutela del paesaggio.
E invece Musumeci ha inteso approfittare del suo ruolo per chiedere conto agli amministratori emiliani di come hanno speso i (non tanti) quattrini fin qui erogati dal governo. Pessimo gusto e soprattutto: da che pulpito. A differenza dell’Emilia, la Regione Sicilia gode di uno statuto di autonomia che rende impossibile attribuire ad altri, se non ai governanti siciliani in prima persona, la responsabilità del dissesto. E dello sperpero di miliardi.
Basterebbe questo per suggerire a Musumeci, siciliano di potere, estrema prudenza nell’esercizio del suo nuovo ruolo.

lunedì 23 settembre 2024

Riassunto di duemila anni




Bel pezzo!



«Allora, mentre tutto il mondo era concentrato a guardare quei due che poggiavano i piedi sulla Luna, Michael si allontanò a bordo del Columbia. In quel momento il satellite era distante 390.000 chilometri dalla Terra. Piú solitario di qualsiasi altro viaggiatore, Michael si inoltrò verso il lato oscuro della Luna. Verso la parte che ostinatamente ci viene negata a causa di un sortilegio, quello che i pianeti, muovendosi in un certo modo in ragione dei loro rapporti di forza, ordiscono tra loro. Michael, in quel momento, divenne remoto a tutti: l’unico uomo dell’intero sistema solare a essere separato da ogni cosa. L’unico alle prese solo con se stesso e con la gioia, irripetibile, che sentiva. Neppure Buzz o Neil, laggiú sulla Luna, erano soli. Neppure loro erano privi di un canale di comunicazione con chi era rimasto sulla Terra. Solo lui, per quarantasette minuti, conobbe quel rovescio di universo, quella vertiginosa quiete universale. Solo lui, da lí, non entrò in contatto con nessuno. Né con la base. Né con Buzz né con Neil. Solo lui riuscí a sentire il silenzio cosmico piú assoluto e sorprendente».

(Federico Pace, La più bella estate, Einaudi)

Auguri!!


Tantissimi auguri Fatto Quotidiano, unica fonte di stampa libera che non ha padroni né prende finanziamenti pubblici, cosa questa che dovrebbe essere normalità e che invece, qui ad Alloccalia, è purtroppo un cammeo unicum!

Noi, 15 anni di notizie e mai nessun padrone

di Antonio Padellaro

Costituzione, coerenza e comunità dei lettori. Sono i pilastri sui quali, al compimento dei primi 15 anni, noi del Fatto abbiamo edificato la nostra e la vostra casa. Lo ricordiamo tutti quando il giornale doveva ancora uscire e i cari colleghi scommettevano su quanto saremmo durati (un paio di mesi secondo i più caritatevoli). Convinti che con i primi (e gli ultimi) vagiti questo esserino, nato già morto, avrebbe invocato la protezione di qualche toga giustizialista. Si sussurrava che Antonio Di Pietro sarebbe stato il nostro editore ombra, in combutta con Beppe Grillo. Pensa tu. Sulla nostra prematura dipartita i tapini ancora aspettano, mentre sono le loro testate a sanguinare per l’inarrestabile emorragia di copie.
Quanto ai nostri presunti protettori, il primo editoriale sul primo numero, datato 23 settembre 2009, comincia con queste parole: “La linea politica del Fatto è la Costituzione italiana”. Con la mia firma che le rappresenta tutte: quelle della “sporca dozzina”, come Carlo Freccero chiamò il nucleo fondativo del giornale (a cominciare da Marco Travaglio, Peter Gomez, Marco Lillo, Cinzia Monteverdi). Sommate a quelle dei trentacinquemila eroici volontari che avevano sottoscritto l’abbonamento al giornale senza averne letto neppure una riga. Semplicemente sulla fiducia, circostanza unica e forse irripetibile nella storia del giornalismo italiano.
Che in questo quindicennio la Costituzione sia stata la nostra stella polare lo dimostrano l’archivio del giornale e le epiche battaglie, combattute e vinte da noi e da voi, per impedire gli stravolgimenti tentati dai governi Berlusconi, Letta e Renzi. Pronti come siamo a mobilitarci contro i nuovi strappi su autonomia differenziata, premierato e separazione delle carriere togate perpetrati dal governo Meloni-Salvini-Tajani. Quanto alla coerenza, è presto detto. Quindici anni fa ci siamo impegnati a fare un giornale libero, senza padroni e a cui nessuno avrebbe potuto dire mai cosa andava scritto o non scritto. È il testimone che ci siamo passati con Marco Travaglio quando nel 2015 ha assunto la direzione del giornale. Che Marco guida da par suo garantendo la convivenza delle opinioni e delle storie professionali più diverse. Lo abbiamo fatto ogni giorno pagando un prezzo salato, ma di cui andiamo orgogliosi. La nostra bandiera sventola sotto la testata ed è quella piccola e gigantesca frase che dice: “Non riceve alcun finanziamento pubblico”. C’è nessun altro giornale che possa dichiarare lo stesso, in una sistema dove le mammelle statali sono disposte a sfamare perfino dei fogli clandestini?
Quanto alle pagine pubblicitarie delle grandi aziende pubbliche e private che foraggiano questo e quello, perché mai dovrebbero rivolgersi a noi, sapendo che in presenza di una notizia ad essi sgradita il Fatto la pubblicherà comunque? Ma ilFatto è anche un’impresa e come ogni impresa che si rispetti garantisce la propria libertà mantenendo i conti in ordine. È stata la grande lezione che ci ha lasciato il nostro amato Giorgio Poidomani e che Cinzia Monteverdi ha ripreso e sviluppato diversificando le attività e dando vita a quello che rappresenta oggi un network modellato su una moderna e articolata domanda d’informazione. Perché il Fatto Quotidiano ha generato il Fatto quotidiano.it, ai vertici delle classifiche dei siti, e un’ampia gamma di proposte digitali. E poi un mensile (Millennium). E poi una casa editrice di successi (PaperFirst) E poi Loft che produce contenuti televisivi e macina ascolti (La Confessione di Peter Gomez, Accordi&Disaccordi di Luca Sommi e Andrea Scanzi). E poi la Scuola di cittadinanza del Fatto, concepita dal compianto maestro Domenico De Masi: “Per formare cittadini consapevoli e coltivare la democrazia attraverso la conoscenza e il pensiero critico”.
L’elenco dei nostri gioielli non nasce da inutile vanteria, ma dalla consapevolezza che per creare un giornale occorre una risorsa che non si trova in banca, ma nella passione civile di voi lettori. La vostra spinta inesauribile ci ha permesso di creare una comunità straordinaria. Quella stessa comunità che pochi giorni fa era la folla che ha riempito con presenze da record la Casa del Jazz a Roma per celebrare la nostra quindicesima Festa. Tutto nasce da quel primo numero che oggi potete rileggere. Da quelle edicole prese d’assalto che espongono un cartello che resta per tutti noi indimenticabile, commovente: “Il Fatto è esaurito”.

Già Tomaso!

 

Soldi, regole a parte e politici: il virus delle università online
MUTAZIONE GENETICA DEGLI ATENEI - “For profit”. I patron delle telematiche offrono cospicui finanziamenti alla destra e vengono “ricambiati” con provvedimenti (tasse e & c.) ad hoc: cortocircuito perfetto
DI TOMASO MONTANARI
La distanza delle ‘università a distanza’ dall’idea stessa di università è sempre più grande. E non solo perché “le università sono fra i pochi luoghi in cui le persone si incontrano ancora faccia a faccia, in cui giovani e studiosi possono capire quanto il progresso del sapere abbia bisogno di identità umane reali, e non virtuali” (Umberto Eco, 2013). Ma anche per la loro drastica mutazione genetica, innescata dal parere del Consiglio di Stato del 14 maggio 2019 che ha aperto le porte alla possibilità che le università possano appartenere a società di capitali. Poche settimane dopo, la telematica Pegaso si trasformava in una srl, e in quello stesso anno il fondo britannico CVC, con sede in Lussemburgo, entrava nella proprietà della società Multiversity di Danilo Iervolino (che possedeva Pegaso e Universitas Mercatorum), prendendone poi il controllo nel 2021, e formando, con l’acquisizione dell’Università telematica San Raffaele di Roma e dell’85% del Sole 24 Ore Formazione, il più grande polo universitario italiano in assoluto, con 140.000 iscritti (trentamila in più della Sapienza di Roma…), oggi presieduto da Luciano Violante. Un’idea dell’influenza di questo colosso for profit in mano a un fondo di investimento estero può essere data da alcuni dei nomi del suo advisory board: Maria Chiara Carrozza, già ministra dell’Università e attuale presidente del CNR; Pierluigi Ciocca, già vicedirettore generale di Bankitalia; l’ex capo della Polizia, e già ai vertici dei Servizi, Gianni De Gennaro; Monica Maggioni, già presidente Rai; Alessandro Pajno, presidente emerito del Consiglio di Stato; Giovanni Salvi, già pg della Cassazione. Non è difficile immaginare che anche per questo le università telematiche riescano di fatto a eludere i rigidi controlli che Ministero e Agenzia nazionale per la valutazione della ricerca impongono invece alle università in presenza. Come ha rilevato la FLC CGIL in un puntuale rapporto dell’aprile 2024, le telematiche praticano “soluzioni organizzative e dinamiche di funzionamento che snaturano la stessa funzione di verifica degli apprendimenti delineata dalla normativa italiana per gli esami di profitto… Ad esempio, diversi atenei nel corso del 2023 e anche del 2024 permettono di fare esami di profitto on line, sostenendo la prova da casa, o da altro luogo privato, tramite l’uso del pc o di altre piattaforme… anche se tale possibilità normativa è venuta meno il 31 marzo 2022, con la fine dello stato di emergenza”. E non sono solo gli esami: il rapporto medio studenti-docente negli atenei a distanza è di 384,8 a 1, mentre nelle università ‘vere’ è di 28,5 a 1 (dati 2022); e nella principale telematica l’83,5% dei docenti è a contratto. Che formazione è, questa? Eppure, una laurea su dieci è ​ oggi a distanza: nate come funghi (ben 11, di cui 9 private) tra 2004 e 2006, in seguito a una legge del secondo governo Berlusconi, le telematiche intercettano l’11,5 % degli studenti italiani.
Ma si può davvero parlare di ‘università’? Un ateneo for profit ha una natura diversa: non forma cittadini, ma vende a clienti; non ha come fine ultimo la ricerca e la cultura, ma il profitto dei padroni; deve stabilire una gerarchia tra l’interesse economico e la libertà accademica, e non è difficile capire come si risolva questa gerarchia; vive di un rapporto lobbistico con la politica che inquina alla radice il processo legislativo. La destra italiana ha una particolare simpatia per questa mutazione genetica: e non solo per ragioni, diciamo, di personale politico (per dire, il ministro Francesco Lollobrigida ha preso nel 2014, quarantaduenne, una laurea in giurisprudenza presso Unicusano di Stefano Bandecchi, il quale ora è entrato direttamente nella maggioranza di governo), ma anche per la cospicua entità dei finanziamenti (leciti, e in chiaro) che i patron delle telematiche versano alla destra e ai suoi vari partiti. È un fatto che il ministro della PA Paolo Zangrillo abbia esteso alle telematiche il provvedimento che addossa alle casse pubbliche il 50% delle tasse universitarie per i dipendenti pubblici che intendano laurearsi, per non parlare dello sfacciato vantaggio che è stato accordato alle università virtuali nel campo cruciale della formazione degli insegnanti. E non ci sarà un nesso con l’inerzia dei governi nel promuovere una vera attuazione del diritto allo studio investendo in mense e studentati, visto che uno degli argomenti più ricorrenti nella pubblicità delle telematiche è che “non dovrai pagare affitto, spese da fuori-sede né materiale didattico”? L’immaterialità delle telematiche comporta l’assenza di comunità studentesche capaci di manifestazioni di dissenso, e l’erogazione del ‘pezzo di carta’ (sul quale non è scritto, come invece dovrebbe essere, se lo si è preso in una università reale, o in una virtuale…) diventa di fatto l’unica missione, il profitto l’unico fine: per questo le ‘università’ virtuali sono la perfetta compagnia di un potere che odia il pensiero critico.