Il lungo cammino verso la bellezza
DI MICHELE SERRA
«Bisognerebbe vietare i pantaloncini corti nelle città d’arte», mi dice un’amica al telefono mentre transita nel centro di Roma. In che senso?, le chiedo. «Nel senso che non ne posso più di turisti con le chiappe di fuori». Seguono considerazioni in buona parte tacciabili di body-shaming, che ometto per tutela (non dei turisti con le chiappe di fuori, ma della mia amica).
La mia amica è una persona evoluta, tollerante, lucidamente consapevole che la liberalità dei costumi, con annessi contraccolpi, fa parte delle conquiste della modernità. Il problema è che la società di massa mette a durissima prova anche la più democratica delle coscienze. È capitato anche a me, a Venezia, a Firenze, a Roma, di desiderare che una carica di carabinieri a cavallo disperdesse i bivacchi di turisti accosciati, con le ciabatte infradito anche a Natale, ruminanti ogni sorta di cibo a ogni ora del giorno e della notte. L’idea che “la bellezza salvi”, in quelle occasioni, diventa una patetica illusione, o peggio un alibi a tutela della nostra bilancia commerciale.
La bellezza, con ogni evidenza, è solo un consumo distratto e compreso nel prezzo, come i cartocci distreet-food che le comitive in visita alternano al cellulare, con la speranza che smettano di masticare almeno quando si fotografano. È uso dire che se anche uno solo di loro, folgorato da Rialto, o dalla cupola del Brunelleschi, o da Trinità dei Monti, sarà salvo, allora sarà salva, per suo tramite, l’umanità intera. Resta da capire se questa salva umanità, al prossimo tour, si presenterà con le infradito e le braghe corte, come i bambini di otto anni, avendone almeno, nella media, sessanta.
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