domenica 13 giugno 2021

Giannini e i vaccini

 di Massimo Giannini

Sono un Sì-Vax adulto, convinto e consapevole. Lo sono perché ho fiducia nella scienza. Perché di fronte a ogni prova della vita resto inchiodato alle parole del Galileo di Bertolt Brecht: credo nella ragione e credo nell'uomo, che alla lunga non sa resisterle. Ci credo a maggior ragione adesso, di fronte a una pandemia che la vita ce l'ha stravolta e purtroppo anche tolta. E ci credo a maggior ragione dopo averla sopportata sulla mia pelle, questa pestilenza moderna che vuole risucchiarci dentro un altro Medioevo. Ho sentito lungo i 96 mila chilometri di vene arterie vasi sanguigni avviluppati nel mio corpo di cosa è capace questo agente patogeno, piccolo un decimillesimo del punto che vedrete alla fine di questa frase, eppure capace di mettere in ginocchio il mondo. Ho visto intorno a me, nella luce dolente e opalescente di un reparto di terapia intensiva, come circola, come aggredisce, come uccide.
Ma per tutti questi motivi oggi sono preoccupato. Dobbiamo essere onesti. Soprattutto noi, che combattiamo la superstizione e la strumentalizzazione, l'oscurantismo e il negazionismo, i No-Mask e i No-Vax. La morte di Camilla, diciottenne di Sestri Levante, ci ha colpito al cuore. Era una delle decine di migliaia di ragazzi che erano accorsi entusiasti agli Open Day vaccinali, lanciati dalle regioni e autorizzati dalla struttura Commissariale. Il messaggio era convincente: fate il vaccino, e riprendetevi l'estate, le vacanze e uno scampolo delle libertà perdute in un anno di lockdown. La reazione è stata straordinaria: tantissimi giovani in fila davanti agli hub. In un braccio l'iniezione, in una mano la Costituzione. Camilla se l'è portata via una trombosi, dopo una dose di Astrazeneca.
Non c'è antidoto al dolore dei suoi genitori, che hanno autorizzato la donazione degli organi. La loro figlia soffriva di una piastrinopenia autoimmune: l'inchiesta chiarirà chi ha sbagliato e perché. Ma a parte questo, ora qualche domanda dobbiamo farcela. E soprattutto dobbiamo farla alle autorità sanitarie, agli organismi della farmaco-vigilanza, al commissario straordinario, al ministro della Salute, al premier Draghi. Fino a quando deve durare, questo caos informativo ed emotivo sui cosiddetti vaccini "a vettore virale"? In conferenza stampa Locatelli, Figliuolo e Speranza provano a dare qualche risposta. Ma lo dico con amarezza: non ci siamo. Se non ci sono nuovi dati sugli effetti collaterali, perché ricambia di nuovo l'intero il piano vaccinale? Se Astrazeneca è un vaccino «sicuro ed efficace», perché se ne muta in continuazione l'utilizzo in base alle fasce d'età? Se invece non lo è, perché non viene vietato a tutti? E ancora: se il Comitato Tecnico Scientifico è un organismo credibile, perché formula semplici «raccomandazioni»? E perché il governo solo adesso sente il bisogno di tradurle «in modo perentorio»?
Sappiamo ancora poco su tutto, ma quel poco che sappiamo è che su Astrazeneca abbiamo sentito tutto e il contrario di tutto. Sul fronte europeo, tre mesi fa 275 casi di trombo-embolia in Uk producono il primo stop alle somministrazioni. L'11 marzo sospendono Danimarca, Norvegia e Islanda. Il 15 si aggiunge l'Austria. Il 16 arrivano anche Germania, Francia, Italia, Spagna, e a ruota quasi tutta l'Unione: Bulgaria, Cipro, Estonia, Grecia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Svezia. Il 18 marzo la direttrice generale dell'Ema, Emer Cook, annuncia tre cose: 1) c'è un nesso di causalità tra i decessi e l'inoculazione; 2) i benefici dell'immunizzazione superano i rischi di reazione avversa; 3) ogni Stato si regoli come crede. Comprensibili le prime due. Incomprensibile la terza. Quando è in gioco la tutela della vita umana, un'autorità comunitaria può lavare pilatescamente le sue mani e lasciare libere quelle di ogni singola nazione?
Può, purtroppo. Infatti ogni Stato fa a modo suo. Sul fronte italiano, il 9 febbraio una circolare ministeriale raccomanda Astrazeneca «per le persone dai 18 fino al compimento dei 55 anni». L'8 marzo si può somministrare «anche agli over 65». L'8 aprile è approvato «a partire dai 18 anni di età», ma è raccomandato un «uso preferenziale per gli over 80». Il 12 maggio, sull'onda dell'entusiasmo per l'arrivo di «20 milioni di dosi a giugno», il Cts certifica la validità degli Open Day, per offrire su base volontaria «i vaccini a vettore adenovirale a tutti i soggetti di età superiore ai 18 anni». Il 14 maggio la Struttura Commissariale invia il parere favorevole del Comitato alle Regioni, che dall'Emilia al Lazio lanciano la trionfale "campagna giovani", per maggiorenni e maturandi.
Dopo un mese di somministrazioni massicce, dopo la morte di Camilla, dopo il sequestro del lotto di vaccino già inoculato a lei e a un'altra giovane 34enne ora in ospedale, tutto cambia di nuovo: niente Astrazeneca per gli under 60, e chi l'ha già assunto con la prima dose farà la seconda con Pfizer o Moderna. Dovremmo essere soddisfatti. Ma non lo siamo. Perché pensiamo allo stato d'animo dei ragazzi che si sono vaccinati con Astrazeneca fino ad oggi. Perché ci chiediamo quanto varrà questa ulteriore raccomandazione (solo più «perentoria» delle altre) visto che le stesse autorità che la riformulano oggi l'avevano disattesa nei mesi scorsi. Perché non sopportiamo più lo scaricabarile sistematico, con le regioni che accusano il Commissario e l'Aifa che accusa le regioni.
Intendiamoci: come scrive Fareed Zakaria (Il mercato non basta – Dieci lezioni per il mondo dopo la pandemia, Feltrinelli) la scienza è innanzitutto un metodo di indagine: pone domande e mette rigorosamente alla prova le ipotesi. Dalla scienza non possiamo pretendere risposte semplici e definitive, meno che mai quando "opera nelle nebbie" in cerca di un virus sconosciuto. Solo a gennaio 2020 Anthony Fauci, il più grande immunologo del pianeta, diceva testualmente: «C'è un bassissimo rischio per gli Stati Uniti… Non è qualcosa di cui devono preoccuparsi gli americani o di cui essere spaventati». Abbiamo visto com'è finita, 4 milioni di morti dopo.
Lasciamo che gli scienziati facciano il loro lavoro (magari lontani dalla cerimonia cannibale dei talk televisivi). Ma è dai politici che dobbiamo esigere una maggiore assunzione di responsabilità. Anche quando si consumano tragedie impreviste, ma forse non imprevedibili come quella di Camilla. Anche quando si combatte una guerra asimmetrica contro un nemico invisibile come la pandemia, che fiacca le nostre economie e indebolisce le nostre democrazie. Vale per Salvini, che specula sulla morte di Camilla bombardando l'esecutivo di cui è "azionista" e accusandolo di aver usato bimbi e ragazzi come cavie da "laboratorio", neanche fossimo nella "clinica" del dottor Mengele ad Auschwitz. Ma vale anche per Figliuolo, per Speranza e per Draghi, che hanno il dovere di decidere in modo chiaro e di comunicare in modo tempestivo. Per citare ancora una volta Zakaria: come nel Novecento il dibattito pubblico è ruotato intorno alla "quantità di governo" (cioè la dimensione e il ruolo dello Stato nella società e nel mercato), in questa crisi epocale l'unica cosa che conta è la "qualità del governo" (cioè l'efficienza delle strutture e l'efficacia delle scelte).
I vaccini sono la sola nostra ancora di salvezza, in una tempesta che ciascuno di noi affronta su barche diverse. Io voglio che tutti si vaccinino. Voglio che il G7 costringa Big Pharma a rinunciare ai brevetti, perché il vaccino sia disponibile e accessibile anche alla metà povera del mondo che finora non l'ha avuto. Di più: come dissi all'allora premier Conte, nell'ultima puntata di "Porta a Porta" prima della sua caduta, voglio che il vaccino contro il Covid diventi obbligatorio per legge. Ma questa volontà, individuale o collettiva che sia, non può prescindere dalla fiducia. Se manca quella, non c'è resilienza possibile. Se manca quella, come dice Galileo, «la mattina non mi sento la forza di alzarmi dal letto». —
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L’amaca
Il dosaggio del vaccino
di Michele Serra
Non riesco più a leggere una sola riga sull’argomento vaccini.
Non credo sia incoscienza: devo ancora fare la seconda dose, mi sento pienamente coinvolto, e direi che niente, negli ultimi mesi, sia stato socialmente più rilevante della campagna di vaccinazione di massa. Credo sia saturazione.
Se non mi entra in testa più niente, al riguardo, è perché ho letto e sentito, da quando siamo in pandemia, circa un milione di volte la parola vaccino. Con tutto il corollario di opinioni, previsioni, statistiche, ordini e contrordini, pareri di esperti e pareri di passanti. Un bolo gigantesco che da un certo momento in poi non sono stato più in grado di assimilare.
La saturazione è un processo di autodifesa.
Si chiudono dei ricettori, si ostruiscono delle aperture, ci si chiude per sfinimento.
Siamo adulti e vaccinati (appunto) e dunque sappiamo bene che l’informazione è un valore della democrazia. Che il cittadino disinformato — perché è escluso dal circuito o per menefreghismo suo — non è un buon cittadino. Ma sul dosaggio, ancora non siamo diventati bravi. Né il venditore, né il cliente.
Sia chi somministra informazioni, sia chi le riceve, non ha trovato la misura.
Dovessimo fare uno studio scientifico sull’informazione e il Covid, credo ci accorgeremmo che le informazioni utili e verificate sono state appena una parte, forse anche minore, del totale. Il resto era emotività, retorica confezionata per fare audience, concorrenza tra bancarelle adiacenti (il mercato è mercato). L’esistenza delle autorità sanitarie, che decidono anche per mio conto, mi è stata, da un certo punto in poi, di grande sollievo.

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