La guerra al cinema
DI MICHELE SERRA
Il cinema italiano non è una controparte del ministero della Cultura”, dice il presidente di Anica (una specie di Confindustria del cinema italiano), Benedetto Habib. Il solo fatto che senta la necessità di dirlo lascia intendere lo stato delle cose: un settore produttivo di questo Paese si considera trattato dal relativo ministero, che dovrebbe assisterlo e contribuire a rafforzarlo, come un avversario da piegare, un territorio ostile da bonificare.
Aggiunge Habib un altro concetto che potrebbe sembrare scontato; ma visto che ha sentito la necessità di enunciarlo, evidentemente non lo è: “i finanziamenti devono essere decisi da persone competenti”. Ogni riferimento alle nomine decise dal fu ministro Sangiuliano non è casuale.
Ora, i casi sono due. O anche produttori e distributori sono comunisti, come i registi, gli sceneggiatori, gli attori (comprese le controfigure e le comparse), oppure sono imprenditori che hanno a cuore le sorti delle loro aziende. In questo secondo caso, il più verosimile, l’intenzione punitiva di questo governo nei confronti dei luoghi e dei modi della produzione culturale italiana, Rai, teatro, cinema, editoria, musei, considerati in blocco un’illecita usurpazione della sinistra, è così sguaiata, e così maldestra, da colpire non solamente il suo presunto bersaglio ideologico, ma la struttura stessa del sistema culturale italiano. Il macro esempio è l’impoverimento della Rai grazie a epurazioni e fughe.
Il nuovo ministro della Cultura Giuli ha un enorme lavoro da fare. O da non fare, nel caso volesse lasciare le cose così come le ha lasciate Sangiuliano. Che creda in Odino, come dicono, pazienza. L’importante è che creda nel talento e nel lavoro, ché la cultura è una fatica.
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