domenica 31 marzo 2024

Non proprio pasquale!

 


Pasqua e pennivendoli

 

Con scappellinamento
di Marco Travaglio
Da quando, martedì sera su Rete4, Alessandro Orsini gli ha dato del cretino, Stefano Cappellini si è impegnato allo spasimo per dargli ragione. E ieri ci è riuscito senz’alcuna fatica. Nella quotidiana missione che lui stesso si è dato di decidere chi può parlare e chi no, ha stabilito che il fisico Carlo Rovelli non può parlare di guerra atomica. Rovelli aveva twittato contro le Sturmtruppen che preparano il terzo conflitto mondiale: “Fermatevi, pazzi! State trascinando l’Europa in una guerra enorme, in una catastrofe colossale… solo perché non siete più capaci di smettere di litigare dopo tutti gli insulti di cui vi siete riempiti la bocca per due anni!”. Apriti cielo. Il caporaletto di giornata l’ha zittito con una citazione ad mentula canis di Nanni Moretti in Sogni d’oro: “Parlo mai io di astrofisica?”. Peccato che Moretti si riferisse a chi parla di temi specialistici senza conoscerli, mentre Rovelli è un fisico teorico (non un astrofisico) e conosce benissimo le armi atomiche. Ma qui non discettava di fissione nucleare, bensì delle fregole belliciste degli sgovernanti europei. E quelle le vedono tutti e ciascuno è libero di temerle e denunciarle. Prima che uno scienziato, Rovelli è un essere vivente che tiene a restarlo. È un cittadino italiano ed europeo che ha tutto il diritto di criticare i governanti italiani ed europei su questioni tanto cruciali. Ed è un intellettuale che usa il suo prestigio per smascherare le imposture del potere, come hanno sempre fatto gli intellettuali prima di essere confusi con un Cappellini qualunque.
Un altro fisico teorico, Albert Einstein, tormentato dai sensi di colpa per l’uso che si fece dei suoi studi per fabbricare la bomba atomica e per aver convinto Roosevelt a dotarsene in funzione anti-nazista, chiese scusa e proclamò: “Non basta essere pacifisti, bisogna essere pacifisti militanti”. È un peccato che Cappellini non fosse nato, altrimenti avrebbe zittito anche lui. Ora, se Rovelli non ha titolo per parlare di guerra atomica, resta da capire che titolo abbia Cappellini per parlare di qualsiasi cosa (a parte l’astrofisica, da cui si astiene). Di solito parla di politica, ma non ci capisce nulla e colleziona figurine di emme più ancora di quando si avventura nella giudiziaria e negli esteri. Nel 2022 vaticina “la fine grillina”, poi rinviata a mai da una congiura degli elettori; si eccita per l’accordo Letta- Bonino-Calenda un minuto prima che Calenda molli i due per mettersi con un altro frequentatore di se stesso, Renzi; suggerisce al Pd di candidare la Moratti in Lombardia, grande “opportunità per indebolire la destra di governo” e ora quella si candida alle Europee con FI rafforzando la destra di governo. Potrebbe sempre darsi all’ippica, ma poi si zittirebbe da solo: “Sei forse un cavallo?”.

Lettera di Furio

 

Mi unisco a Furio Colombo per solidarizzare con Ilaria a cui vorrei dire di portare pazienza, perché non si è mai visto che alla lunga i fascisti abbiano mai vinto qualcosa! Non prevarranno! Vamos Ilaria!
Caro Roberto, non siete soli vi sostiene l’Italia antifascista
DI FURIO COLOMBO
Caro Roberto Salis, chiedo a questo giornale, che fin dal principio ha difeso Ilaria, lo spazio per creare un rapporto personale che le dica e le ripeta vicinanza, solidarietà piena e lotta in comune. Il governo italiano ha trattato le catene di Ilaria come una variabile del tutto ragionevole di ciò che può accadere in un’aula di tribunale (siamo in un altro Paese e ognuno ha le sue usanze) e ha sbadatamente invitato a non politicizzare un enorme fatto politico, voluto e guidato da un capo di Stato e capo politico fra i più discussi nell’Unione europea di cui è parte e nemico.
È importante che lei e Ilaria non vi sentiate soli anche se vi sono state manifestazioni pubbliche di sostegno. Per la seconda volta Ilaria è entrata e uscita in catene da un’aula di tribunale dell’Unione europea, e l’Unione europea e il governo italiano non hanno avuto nulla da dire, come se unproprio cittadino (dell’Unione e dell’Italia) potesse solo (e anzi dovesse), accettare gli usi di un regime barbaro. È vero: Ilaria, come lei, come me, come tanti italiani, è antifascista, una colpa che non si sconta neanche con tredici mesi di prigione preventiva, e le catene per la seconda volta (dunque una conferma e una deliberata provocazione). Infatti ripetere il macabro rito allarga l’offesa al Paese colpito e anche ai leader di quel Paese. Ma loro fingono dinon essere coinvolti.
La morsa resta stretta, e conta, certo, che nessuno in Europa abbia chiesto di tornare alla normalità. Quanti italiani tollerano che all’udienza, prevista per maggio, nel tribunale di Budapest, Ilaria compaia ancora una volta con le catene? Certo: Ilaria Salis è caduta nella trappola del rapporto strano fra due leader di due Paesi amici e nemici (la sua casa e la sua prigione). Un rapporto in cui, con grandesorpresa, gli italiani scoprono di essere il Paese debole che si sottomette alla volontà del predatore e non avanza obiezioni.
Anzi: è interessante e stupefacente constatare quanti commentatori di prima fila del partito di governo italiano difendano, anche con battute e sarcasmo, l’altro governo e le sue ragioni contro la cittadina italiana. Anche per loro, la macchia imperdonabile è l’antifascismo.
Ecco perché le scrivo, Roberto Salis.
Perché altri le scrivano, perché Ilaria e lei non siete soli, perché gli italiani che si ribellano alle catene delle aule giudiziarie ungheresi e fasciste sono per forza in tanti, altrimenti non avremmo la Costituzione che abbiamo. E non avremmo la forza e la persuasione dell’antifascismo, che i partigiani ci hanno consegnato dopo aver vinto la guerra contro le catene e il disprezzo.

Finalmente la Pina si svela!

 

Fantastica Pina! Il suo pensiero, dai chiamiamolo così, le sue dinamicità, culo incollato alla poltrona, le sue certezze, il suo modo d'intendere la politica, di parlare politichese, di "fassinare" l'aria, i valori, quella oramai banale idea di servizio che la politica dovrebbe possedere e che dinosauri imbolsiti le hanno sottratto da tempo immemore, trasformando appunto il servizio in lavoro, lautamente pagato e protetto da maleodoranti privilegi. 

Leggete Pina, molto innervosita dal probabile arrivo dell'ex direttore di Avvenire Tarquinio. Leggete l'intervista e capirete. Tenete il Maalox a portata di mano però! 


Intervista all’eurodeputata dem
Picierno
“Penalizzate noi uscenti le liste non sono l’isola dei famosi”
DI GIOVANNA CASADIO
ROMA. «Non posso accettare che siano marginalizzate le dirigenti del Pd e, più in generale, gli europarlamentari dem uscenti. Il “panino” si mangia al bar. Si può accettare di non essere candidati, non si può pretendere che si accettino formule vuote». Pina Picierno è la vice presidente dell’Europarlamento, l’unica italiana a rivestire un ruolo-chiave a Strasburgo. Non è una che le manda a dire. Sulle liste ipotizzate dalla segretaria Elly Schlein ha dato battaglia. Casertana, 42 anni ma una lunga militanza dem, dice di essere «dispiaciuta» per le liste bazar e ilmetododa Isola dei famosi . Se ci fosse Schlein terza al Sud, potrebbe non esserci lei.
Picierno, lei è stata tra i primi a sollevare il problema della composizione delle liste del Pd per le europee. Cosa teme, la rottamazione degli uscenti?
«Noi eurodem siamo stati protagonisti di una legislatura importante e complessa, affrontando sfide epocali: dalla pandemia al Next generation Eu, all’aggressione cruenta dell’Ucraina da parte di Putin. Ci siamo mossi nel solco di David Sassoli, mostrando visione e autorevolezza. Nel gruppo S&D, di cui il Pd fa parte, siamo a Bruxelles un modello e punto di riferimento.
Questo è un patrimonio che non va disperso».
Quale è il problema, troppi esterni civici?
«Innanzitutto c’è un problema di metodo. Il nostro partito è democratico di nome e di fatto.
Sono gli organismi dirigenti regionali e nazionali e i militanti a discutere e indicare le decisioni.
Questa è una caratteristica a cui il Pd non può rinunciare per diventare il partito della donna o dell’uomo solo al comando. Io ho appreso la testa di lista della “mia” circoscrizione Sud da una trasmissione tv. La politica è una cosa seria, i nostri elettori non sono follower».
Lei si è sfogata: sembra l’Isola dei famosi.
«Si moltiplicano nomi, figure certo autorevoli. Il Pd ha sempre accolto indipendenti nelle sue file, ma è una anomalia sostituire il gruppo dirigente con esterni scelti come capolista. Soprattutto poi, se i nomi che circolano non rispecchiano la linea che il Pd si è dato in Italia e in Europa su questioni molto importanti, a cominciare dalla guerra in Ucraina».
Perché non vede di buon occhio l’ipotesi di candidare Marco Tarquinio?
«Il Pd è con nettezza a sostegno di Kiev e per l’invio delle armi perché l’Ucraina è stata aggredita in un disegno egemonico di Putin che minaccia le nostre democrazie liberali. Il Pse nel suo programma ha scritto con nettezza che non può mancare il sostegno, anche militare, a Kiev. Nella prossima legislatura noi dovremo affrontare il nodo della politica di sicurezza e difesa comune, in un coordinamento con la Nato ma anche in modo complementare. Dovremo sostenere inoltre lo sviluppo delle industrie europee per la difesa».
E Tarquinio?
«Ne rispetto le convinzioni. Ma la domanda è: lui condivide il programma del Pse? Altrimenti diventa un caos. Tanto più, ripeto, perché andremo incontro a una legislatura costituente con la riforma dei trattati. Le liste del Pd non possono essere un bazar. Se però il problema di Schlein è che la linea tenuta finora non è giudicata convincente, allora bisogna dirlo esplicitamente e aprire una discussione. Non si può fare adottare un cambiamento di rotta politica al Pd attraverso le candidature».
Ma c’è un caso donne dem penalizzate o è una faccenda appunto politica?
«È una questione politica, dentro la quale c’è quella di genere. Il Pd ha fatto del femminismo il suo tratto identitario. Ora se solo donne esterne guideranno le liste (senza il giusto riconoscimento del lavoro svolto dalle uscenti) e ci sarà la segretaria in una ipotesi “panino”, sulla base del meccanismo delle preferenze, io per essere eletta dovrei invitare gli elettori a non votare la capolista o la segretaria. Le pare comprensibile?».
Schlein si deve candidare?
«Sono convinta che se ci si candida in Europa, poi si debba svolgere quella funzione. Certo come capolista sarebbe un valore aggiunto, ma come capolista».

sabato 30 marzo 2024

Prima pagina

 


Pasqua Pellini

 


Il Cingo insegna la pace


 

Altro che in due staffe!

 


Pasqua travagliata

 

Divani&Divani
di Marco Travaglio
Il divano si porta su tutto. Per anni è stato usato dalle destre, dunque anche da Renzi, per criminalizzare i disoccupati col Reddito di cittadinanza (che di solito non avevano nulla, tantomeno un divano). Ora la Meloni, arringando i soldati della missione Unifil in Libano, lo evoca per screditare i pacifisti che “si riempiono la bocca di pace comodamente seduti sul divano di casa”, mentre “la pace non si costruisce con i sentimenti e le buone parole, ma con la deterrenza”. Quante scemenze in così poche parole. La deterrenza – come nota Lucio Caracciolo – funzionava nella Guerra fredda con l’equilibrio del terrore fra i blocchi Est e Ovest, che garantivano le proprie aree di influenza figlie della spartizione di Yalta. Poi nel 1989 cadde il Muro di Berlino, il Patto di Varsavia si sciolse, l’Europa orientale divenne polvere e polveriera, alzarono la testa nuove potenze del Sud globale dalla Cina in giù, e le grandi organizzazioni terroristiche islamiste, mentre gli Usa tennero in vita la Nato credendosi l’unico impero rimasto con l’Europa al guinzaglio. Il risultato è la guerra mondiale a pezzi evocata dal Papa: nessuno fa più paura a nessuno e tutti attaccano tutti.
La Meloni dovrebbe sapere che la missione Unifil non fa alcuna deterrenza: esiste dal 1978, cioè dal primo attacco di Israele al Libano per ripulirne il Sud dallo stato nello stato creato dall’Olp in piena guerra civile, dopo la cacciata dalla Giordania nel Settembre nero 1971, e usato dai faddayin per colpire la Galilea del Nord. L’Onu, cessate le ostilità, inviò una forza di interposizione che poi sempre rinnovò dopo ogni crisi militare (le invasioni israeliane del 1983, 2000 e 2006, gli scontri fra milizie libanesi, le scorribande di Hezbollah). Cosa c’entri tutto ciò con chi invoca la pace non è dato sapere: né l’Ue né l’Italia fanno nulla per il cessate il fuoco in Ucraina e a Gaza. Anzi, in Ucraina continuano ad alimentare, ampliare e allungare la guerra inviando armi senza muovere un dito per aprire un tavolo. E, senza un negoziato e un cessate il fuoco, è impensabile che l’Onu invii una forza di interposizione fra i due eserciti, che la ridurrebbero in polpette appena arrivata. Quanto al divano, è un mobile perfettamente compatibile con la pace, mentre è totalmente incompatibile con la guerra. È chi invia continuamente armi a un Paese belligerante (fra l’altro in barba alla Costituzione) e predica soluzioni militari (la famosa “sconfitta della Russia” per liberare le quattro regioni occupate da Mosca nel 2022 e la Crimea annessa nel 2014 e rovesciare Putin) che dovrebbe alzarsi dal divano: prendere atto dopo 25 mesi che la guerra per procura non funziona, muovere le chiappe e darsi da fare per battere i russi sul campo. Arruolandosi volontario. Anzi, volontaria.

Un Toti è per sempre!

 

Toti riempie di soldi i giornali per fare propaganda sulla Liguria (e su di sé)
VERSO LE REGIONALI - Sansa: “Spesi fiumi di denaro pubblico”
DI G.B.
Un mare (ligure) di soldi per avere buona stampa: il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, spende ben 20 milioni di euro l’anno per comunicazione e pubblicità istituzionale. Una parte di questi soldi è impegnata per spot, pagine e iniziative che promuovono le bellezze regionali e il turismo. Ma una bella fetta è pericolosamente vicina alla propaganda. È quanto sostiene Ferruccio Sansa, consigliere regionale della Lista Sansa, che tiene aggiornato il conto delle spese, le denuncia in consiglio e le diffonde sulle pagine web.
L’ultima scoperta è arrivata con la risposta a un’interrogazione che Sansa ha presentato proprio in Consiglio regionale. La giunta Toti nel 2024 ha firmato contratti per 125 mila euro con il gruppo Corriere della Sera. Per pagine di pubblicità e azioni di comunicazione sui profili social del Corriere. Ma anche per l’organizzazione di eventi con la partecipazione del direttore Luciano Fontana, due vicedirettori e l’editore, Urbano Cairo. “Sono soldi ben spesi”, commenta Sansa. “Ho consultato gli archivi. Il quotidiano di via Solferino in un anno ha citato Toti 58 volte, una ogni 6,2 giorni. Il presidente della Regione ha avuto sul giornale ben otto interviste, una ogni 45 giorni. Altri otto servizi hanno parlato di Toti e del suo governo della Liguria. Il presidente ha avuto infine altre 42 citazioni. In undici occasioni, sulle pagine del quotidiano è comparsa anche una fotografia di Toti (una volta ogni 33 giorni). Insomma: diciamo che Toti non si può lamentare della copertura che il Corriere ha dato alla sua attività politica e amministrativa”.
Non è l’unico quotidiano a beneficiare degli investimenti regionali liguri. Anche il gruppo del Sole 24 Ore ha stipulato contratti per 112 mila euro. Per eventi e iniziative, per il “branding Liguria” e per “experience enogastronomica delle eccellenze liguri”. “Questa è la ragione per cui non comprerò più il Corriere e il Sole”, continua Sansa. “Credo che l’informazione abbia un compito altissimo: informare i cittadini e dare loro gli strumenti per partecipare alla vita della nostra società. Ma per questo i giornali non solo devono essere indipendenti dal potere, ma devono anche mostrarsi tali. Ne va del rapporto di fiducia con i lettori. Se ricevono somme da chi governa una regione, rischiano di mostrarsi condizionati quando devono scrivere e fare inchieste sul politico con cui hanno rapporti economici”.
Le somme sono spese in parte direttamente dalla Regione, in parte da agenzie e partecipate come Liguria Digitale e InLiguria. Nel bilancio previsionale di InLiguria è indicata la cifra di 11,8 milioni in un anno per spese di attività istituzionali finanziate con contributi ordinari. “È il più grande piano di propaganda degli ultimi anni”, dice Sansa. Giustificato con voci di spesa come “rafforzamento delle attività di possibile valorizzazione del territorio ligure”; o “attività di stesura e attuazione dei piani di comunicazione”. In un caso, era indicata questa arzigogolata causale: “La Regione Liguria ha assunto il ruolo di facilitatore e responsabile di azioni che hanno contribuito a creare l’ecosistema turistico ligure”. Gli 11,8 milioni di spesa previsti per il 2024 sono un salto del 256 per cento rispetto ai 3,3 milioni del 2022. “Il turismo è ormai il cavallo di Troia per far passare spese milionarie in pubblicità e iniziative di ogni genere”, conclude Sansa. “È propaganda pagata con soldi pubblici. Nessun’altra Regione italiana arriva a spendere oltre 20 milioni l’anno. Se fossero impiegati per la sanità risolverebbero il problema delle liste d’attesa”.

Strafalcioni in Val di Tara

 

Il magico mondo di Valditara, dove l’italiano è per stranieri
DI DANIELA RANIERI
Nel mondo pedagogico ideale disegnato dai buffi ministri del governo Meloni, dietro la lavagna stanno: i migranti (“irresponsabili” che fanno morire i figli); i magistrati (psicopatici fino a prova contraria); gli studenti (da punire e umiliare secondo i precetti emanati dal ministro Valditara insieme con Bruno Vespa e Maria Latella durante una cena-trasmissione Sky); i giovani di Ultima Generazione (puniti col carcere), i poveri ex percettori di Rdc. Liberi per i corridoi, invece, ogni sorta di mascalzoni, evasori, spalloni, bancarottieri (talvolta per ciò fatti ministri). In cattedra, in virtù del “merito” che è lo stemma del governo, i più ignoranti, quelli che non sanno di non sapere (nel Vangelo sono i farisei, i più duri da educare).
Da un tweet di Valditara: “Se si è d’accordo che gli stranieri si assimilino sui valori fondamentali iscritti nella Costituzione…”. Alt! La forma vacilla: “assimilarsi” richiede la preposizione “a”, non “su”; “iscritto” si usa quando qualcuno si iscrive a un corso o è inserito in un elenco, il ministro voleva dire “inscritti”. Avanti: “ciò avverrà più facilmente se nelle classi la maggioranza sarà di italiani”: ma manco per niente, non c’è scritto nella Costituzione che gli stranieri debbano assimilarsi ai valori inscritti in essa mediante acquisizione per contatto, ma che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. Ancora: “se studieranno in modo potenziato l’italiano laddove già non lo conoscano bene, se nelle scuole si insegni approfonditamente la storia, la letteratura, l’arte, la musica italiana”: avete sentito la sgommata prima dell’incidente? Tutti verbi al futuro (“sarà”, “studieranno”), poi un congiuntivo immotivato (“si insegni”), errore tipico dei malparlanti; poi di nuovo futuri: “se i genitori saranno coinvolti… nell’apprendimento della lingua e della cultura italiana”. E gliela insegna Valditara, con questa proprietà di linguaggio (sarà l’italiano potenziato che si impara nelle scuole di purissima razza milanese). Voi direte: vabbè, è un leghista. Ma amministra l’Istruzione (e il Merito)! Come s’usa tra politici insipienti, ora Valditara darà la colpa a qualche social media manager che gli cura l’account (uno straniero?) o dirà che ha dettato il post al telefono, e ci scriverà minacciando querele e punizioni.. A proposito: ma poi l’ha imparata la differenza tra “umiltà” e “umiliazione”?

I rancorosi

 



La rancorosa vaga idea di quel riformismo anomalo incentrato sulla poltrona incollata al culo, ha il suo massimo esempio nel pensiero di Giani qui riportato: Tarquinio, ex direttore di Avvenire, non si può candidare perché porterebbe via un posto al Nardella di tutti loro, quello che ha trasformato Firenze in un luna park, ma sopratutto ha delle idee balzane sull’Ucraina, le stesse del Romano Pontefice. Questo PD obsoleto ed informe non si discosta molto dal becero pensiero della Ducetta. Vamos Elly!

venerdì 29 marzo 2024

Legata all'Orban

 

Legata mani e piedi come vuole Orban solo per aver percosso dei neo nazisti!

Che sarebbe opera di per sé meritoria - ricordate i Blues Brothers?- se non fosse che l'amichetto della Ducetta è quanto di peggiore ci possa essere. 

E il governo silente ed immobile permette questa abissale vergogna! 

Bleah!  

Fatti non foste....

 


Val di Tara

 


Sempre colpa sua!

 

Ha stato Conte
di Marco Travaglio
Sta uscendo a puntate la nuova stagione della fortunata serie “Ha stato Conte”. Il quale lasciò Palazzo Chigi il 13 febbraio 2021 (1.130 giorni fa). Ma tutto ciò che accade di brutto nell’orbe terracqueo è sempre colpa sua. Invece le cose belle, tipo i 209 miliardi di Pnrr strappati in Europa nel 2020, mai: Sambuca Molinari e Severgnini scrivono che quei soldi li ha ottenuti SuperMario un anno prima di arrivare (con la sola forza del pensiero). Poi però Draghi e Meloni non riescono a spenderli e tutti tornano a scrivere che, sì, li ha ottenuti Conte, ma ne ha presi “troppi”. La puntata sul Superbonus è ancor più avvincente: varato il 19.5.2020, il 110% fu gestito per 8 mesi da Conte, per 17 da Draghi e per 17 dalla Meloni. Giorgetti l’ha seguito per 37 mesi, da ministro dello Sviluppo con Draghi e dell’Economia con la Meloni. E ora, tomo tomo cacchio cacchio, annuncia “norme per monitorare” il Superbonus “scriteriato e devastante per la finanza pubblica” e i nuovi bonus edilizi creati da lui, di cui ignora l’impatto dopo che il suo ministero ha sbagliato le stime di 60 miliardi. Ma la colpa è sempre di Conte, che aveva varato il 110% come misura provvisoria per rilanciare l’economia post-Covid (il più alto rimbalzo del Pil dell’intera Ue) e poi ricalibrarlo con un decalage negli anni seguenti, ma non poté farlo perché fu rovesciato e rimpiazzato da Draghi (che sul Superbonus pasticciò a lungo, ma senza mai denunciare alcun buco scriteriato e devastante) e da Giorgetti. Che ora finge di aver passato gli ultimi 37 mesi sulla luna: anche quando la sua Lega, FdI e FI promettevano di “mantenere e ampliare” il 100%; quando Giorgetta&Giorgetti s’inchinavano al Pacco di Stabilità franco-tedesco scriteriato e devastante che ci fregherà dai 13 ai 14 miliardi all’anno; e quando lasciavano alle banche miliardi di extraprofitti per non fare la bua a Mediolanum.
Ma la puntata più spassosa della serie è quella sui papaveri putiniani insigniti da Mattarella delle massime onorificenze repubblicane. Il radicale Giulio Manfredi ricorda a Francesco Merlo su Repubblica che nel 2017 il portavoce di Putin, Peskov, divenne Commendatore al merito: lo decorò personalmente Mattarella durante una visita di Stato a Mosca. Ma Merlo, dopo accurate indagini, scopre il vero colpevole: sono “le vergognose onorificenze elargite dai governi Conte-1 e Conte-2” e “ritirarle è difficile perché l’Italia filorussa è più forte e spavalda”. Quindi Conte, salito a Palazzo Chigi per la prima volta il 1°.6.2018, decorava putiniani a manetta già nel 2017, scavalcando l’allora premier Gentiloni e subornando il povero Mattarella, incapace d’intendere e volere. Ora Merlo è richiestissimo per la nuova serie “Balle spaziali”.

L'Amaca

 

Contano gli avi o contiamo noi?
DI MICHELE SERRA
La storia del nazista americano Frank Meeink che, grazie a un test del Dna, scopre di avere “sangue ebraico” e diventa un fervente ebreo ortodosso (la racconta Anna Lombardi su questo giornale) ha almeno un precedente. È la storia (raccontata inun docu-fiction di una decina di anni fa) del politico nazista ungherese Szegedi, che ha compiuto l’identico percorso: quando ha scoperto di essere in parte ebreo ha deciso di diventarlo radicalmente, sposando l’ortodossia religiosa.
Nel caso di Meeink colpisce, e un poco fa sorridere, il fatto che la sua “percentuale” di ebraismo sia calcolabile nel 2,5 per cento (una trisnonna, pare). E che abbia interpellato un rabbi per avere certezze che quella esigua percentuale di “sangue ebraico” gli bastasse per considerarsi ebreo a pieno titolo. È una domanda — io penso — improponibile per ogni essere umano e per ogni “tipo” di sangue (ma esistono, poi, “tipi” di sangue?): non essendo pensabile che le scelte etiche, culturali, politiche di una persona possano essere determinate dalla sua “fedeltà” al Dna.
Lambiccarsi il cervello sugli avi può essere interessante se si ha curiosità delle radici, ma il fatto che possa o debba avere una qualche influenza su ciò che si crede, su ciò che si sceglie, sulle idee che si professano, mi sembra insensato.
Avendo io un nonno sardo, devo cantare “a tenore” davanti a un nuraghe? O posso esimermi?
Ma poi, se un antisemita, per non esserlo più, ha la necessità di scoprirsi semita, dove vanno a finire i concetti dell’uguaglianza e della tolleranza, che sono universali, riguardano tutti e non richiedono alcun test del Dna? Se avete sospetti sul vostro grado di tolleranza, mi raccomando, non chiedetevi mai che tipi erano i vostri avi.
Chiedetevi che tipi siete voi stessi: è un materiale di indagine molto più recente.

giovedì 28 marzo 2024

Ops!

 


Nordionamente

 

Minnesota test, Nordio a metà fra Alberto Sordi e Licio Gelli
DI DANIELA RANIERI
Il ministro Nordio che, per giustificare l’introduzione di test psicoattitudinali per diventare magistrati, si vanta di aver superato ai suoi tempi il “test psicologico del Minnesota” è un notevole colpo di coda della gloriosa commedia all’italiana. L’albertosordismo rischia però di celare l’aporia principale: il fatto che Nordio l’abbia passato non ha instillato alcun dubbio nei membri del Consiglio dei ministri sulla precisione dello strumento appena approvato.
Il Minnesota test, a cui oggi viene sottoposto chi vuole entrare nelle forze armate e in polizia (gente che deve maneggiare armi, esplosivi, etc.) prevede 567 domande a risposta multipla e si fonda su scale, come la Scala L, che indica la tendenza alla menzogna e la Scala K, che indica il livello di psicopatologia, e può rilevare sintomi clinici come depressione, ansia, rabbia, etc. Secondo Nordio “può aiutare a scoprire problemi psicologici che possono essere curati” (abbiamo il ministro demiurgo e funzionario di salute pubblica), “disturbi latenti… certe piccole manie che possono vulnerare il tuo lavoro”. Infatti si potrà tentare il concorso 4 volte, così se un aspirante magistrato viene respinto in quanto psicopatico può riprovare finché non guarisce, o eventualmente entrare in istituto psichiatrico. Uno che viene bocciato perché tende a mentire, può nel frattempo imparare i trucchetti per sembrare una persona perfettamente sincera e passare il concorso l’anno dopo. Così, regnante Meloni (che si dice devota a Borsellino), si seleziona la Magistratura perfetta.
Posto che non si capisce come una persona ansiosa o depressa non possa diventare un ottimo magistrato, il test non ha evidentemente rivelato le manie del ministro (e sì che già l’abbinamento dei colori di giacca-camicia-cravatta di Nordio doveva far venire ai ministri il sospetto di aver votato un abominio): nel 2003, da magistrato brillantemente abilitato dal Minnesota test, Nordio cenava da “Fortunato al Pantheon” con Previti, un corruttore di giudici (condannato un mese dopo), perché “è simpatico e brillante e non è un mio imputato”. Una risposta che forse avrebbe fatto impennare la Scala L (menzogna), se non pure la K (psicopatologia). Sempre da pm, Nordio dimenticò nel cassetto un fascicolo su presunte (e inesistenti) tangenti a D’Alema e Occhetto invece di trasmetterlo a Roma: quando la cosa venne fuori, il reato era prescritto e i due politici fecero causa allo Stato, vincendo. Chissà se nel test c’è una scala in grado di rilevare il grado di sbadataggine dei magistrati. Fuori dal tunnel della Magistratura, Nordio ministro ha manifestato la sua principale ossessione: punire i magistrati e rendergli la vita impossibile, per esempio limitando le intercettazioni perché “i veri mafiosi non parlano al telefono” (dopo questa dichiarazione sono stati arrestati svariati mafiosi che parlavano al telefono tra cui Matteo Messina Denaro, latitante da 30 anni) e abolendo il reato di abuso d’ufficio perché “le condanne sono rare” (se fossero state molte, lui e tutta la destra compreso Renzi avrebbero detto che è da abolire perché non è un deterrente).
L’ultimo smacco, che viene dalla P2 di Licio Gelli passando per Berlusconi (che i magistrati li diagnosticò “mentalmente disturbati” senza Minnesota test, per dire quanto era avanti) rivela la logica sottesa a ogni atto o parola di Nordio: una pletora di magistrati psicolabili indagano politici irreprensibili rovinando loro la vita, “cioè l’onore, che non è secondario alla salute fisica”, a causa di “piccole manie” (la mania di condannare politici e colletti bianchi). Non è chiaro chi compilerà i Minnesota test, se sarà indetta una gara pubblica tra psichiatri, se ci saranno domande politiche la cui risposta può precludere una carriera in magistratura. Chi non lo passa, però, non si abbatta: può avere la cittadinanza onoraria del Kansas City (o diventare ministro della Giustizia).

Vuoi dire che...

 

Tutte d’un prezzo
di Marco Travaglio
La sempre autorevole Repubblica informa che Putin ha avviato la campagna primavera-estate delle fake news: “I troll russi dietro i complottismi sulla salute della principessa Kate” (che invece, com’è noto, gode di ottima salute). Ma i troll russi una ne fanno e cento ne inventano, infatti hanno messo in bocca a Elly Schlein la candidatura di Lucia Annunziata alle Europee. Una bufala clamorosa, visto che l’Annunziata aveva lasciato la Rai il 3 settembre 2023 per non diventare una collaborazionista di quest’orrendo governo e giurando solennemente al Corriere: “Non mi candiderò mai e poi mai alle Europee. Né con il Pd, né con nessun altro partito. Spero che questa smentita sia chiara abbastanza per mettere tranquilli tutti”. Chiunque abbia minima contezza della sua tetragona coerenza può mettersi tranquillo: mai e poi mai troveremo il suo nome nelle liste del Pd o di alcun altro partito. Stiamo parlando di Lucia Annunziata, mica di una pagliaccia qualunque.
Un’altra fake news, talmente dozzinale da non poter che essere putiniana, è quella che vuole un’altra donna tutta d’un pezzo, Emma Bonino, alleata di Renzi e Cuffaro. Anche lei ha parlato chiaro e, quando parla, non cambia più idea. Il 1° agosto dichiarò al Corriere: “L’accordo è possibile, fermiamo la destra putiniana. Renzi in coalizione? No”. Perché “non vivo di rancori, a differenza sua”. Lui del resto nel 2014 l’aveva cacciata dalla Farnesina (“Non sapevo nulla, mi ha fatta fuori dal governo senza nemmeno una telefonata”). E lei l’aveva poi accusato di aver chiesto all’Ue “che gli sbarchi dei migranti avvenissero tutti in Italia in cambio di sconti sull’austerità”, cioè di aver “barattato i soccorsi con la flessibilità sui conti, violando di fatto Dublino”. Figurarsi se la leader di +Europa potrebbe mai allearsi in Europa con chi strinse quel “patto scellerato” con l’Europa. Ne andrebbe della sua cristallina linearità che le ha garantito poltrone e sofà dal lontano 1976 passando dai Radicali di Pannella a Forza Italia di B., Previti e Dell’Utri all’Ulivo di Prodi allo Sdi di Boselli alla Rosa nel Pugno alla Lista Sgarbi-Pannella al Pd a Tabacci ad Azione di Calenda e di nuovo al Pd di Letta. E figurarsi se potrebbe mai entrare in una lista “Stati Uniti d’Europa” dopo aver formato a Bruxelles nel 1999 il Gruppo tecnico dei deputati indipendenti con i peggiori nemici dell’Europa: quelli della Lega e del Msi-Fiamma Tricolore, i fascisti xenofobi belgi di Blocco Fiammingo e l’intera delegazione del Front National di Le Pen (non la moderata Marine: il suo fascistissimo padre Jean-Marie). Casomai servissero altre prove della falsità della notizia, ne basta una: un serio favoreggiatore della mafia come Cuffaro non si mescolerebbe mai con gente tipo Renzi e Bonino.

L'Amaca

 

Un giudice non basta
DI MICHELE SERRA
Il caso Acerbi è la prova (ennesima) che non è possibile, né lecito, affidare a una sentenza il compito di sollevarci dal nostro giudizio etico, culturale, politico. La giustizia ha un limite “tecnico” evidente e necessario: non può condannare senza prove. La selva di telecamere schierate attorno alle partite di calcio non è stata in grado di documentare l’insulto razzista. Per questo il giudice sportivo non ha voluto/potuto condannare il difensore dell’Inter. Questo non vuol dire che Acerbi non abbia insultato Juan Jesus (è molto possibile, anzi, che lo abbia fatto: non si spiegherebbe, se no, come mai Juan Jesus si sia offeso); né che il calcio (più sugli spalti che in campo, non dimentichiamolo) non sia razzista. Vuol dire, semplicemente, che non tutte le questioni, le ingiustizie, le offese che gravano su una collettività possono essere risolte a colpi di sentenza. Nessun giudice, sportivo e non, può sentirsi investito di una “missione morale” che influenzi le sue decisioni. Il giudice sportivo in questione, per sua fortuna, non aveva il compito di combattere il razzismo; aveva il compito di stabilire se in quello specifico caso fosse provato un comportamento razzista, e ha ritenuto di non averne le prove. I comportamenti sbagliati, discriminatori, persecutori, si combattono adottando, nella vita quotidiana, comportamenti opposti. Dunque con la cultura, con la politica, con la battaglia delle idee. Non ci sono scorciatoie. I fallimentari precedenti di “giustizialismo” (ovvero: l’illusione di poter sostituire alla politica le carte bollate) dovrebbero avercelo insegnato. Del caso Acerbi, non essendo giudici, sappiamo comunque abbastanza per farcene un’opinione e inquadrarlo nel mondo del calcio, non solo italiano, così com’è. E un’opinione non è una sentenza.

mercoledì 27 marzo 2024

Saggezza




Sapevate?

 


Ancora lui!

 


Gazzetta Gene

 


Robecchi!

 

Unire i puntini. Frigo vuoto e cannoni pieni: salgono i poveri, cresce la guerra
di Alessandro Robecchi
“Unire i puntini” è quel famoso gioco enigmistico che consente di tracciare linee tra vari punti apparentemente incongrui per formare un disegno di senso compiuto. È anche il mettere insieme indizi e segnali per arrivare a una visione più complessiva (e complessa) della realtà. Così potrebbe capitarvi, con in mano un quotidiano, di tracciare piccole linee mentali tra le prime pagine dense di guerra, minacce di mobilitazioni, invio di truppe, spese militari, carri armati da acquistare al più presto, arsenali da riempire, e le pagine interne, lontane lontane, dove si dice che in Italia (ma anche in Europa, in misura minore) aumenta vertiginosamente la povertà. Per restare alle (brutte) metafore, si può dire che nelle prime pagine si chiedono a gran voce cannoni, e a pagina trenta, o anche più avanti, si registra sommessamente che manca il burro.
Puntuale come le cambiali, infatti, ecco il rapporto Istat che fotografa l’Italia del 2023, un disastro. Il 9,8 per cento degli italiani vive sotto o al limite della soglia di povertà, cioè fatica a procurarsi beni essenziali (era il 9,7 nel 2022, era il 6,9 nel 2014, dieci anni fa). Diventano più poveri anche gli occupati, l’8,2 per cento combatte con il frigo vuoto pur avendo un lavoro, precario, o malpagato, o ridotto in ore e diritti. Quasi un milione di famiglie (944.000) si collocano sotto la soglia di povertà pur avendo un lavoratore dipendente al loro interno, quei lavoratori che la leggenda italiana vuole più protetti e garantiti, una leggenda, appunto.
Si potrebbe continuare per ore, le statistiche sono fonte inesauribile di paragoni, confronti, misurazioni, ma naturalmente non è lì la verità. La verità si può trovare forse nelle facce, nelle vite, nelle storie di fatica quotidiana che fanno donne e uomini sottoposti a questa privazione costante e continua di bisogni e desideri, a questa ingiustizia. Se volete unire i puntini, potete farlo agevolmente: tracciate una linea dritta tra l’abolizione dell’unica misura a sostegno dei “poveri” – il reddito di cittadinanza abolito dal governo Meloni – e i dati sui nuovi poveri, quelli che per anni furono accusati e sbeffeggiati, insultati e derisi perché erano “fannulloni sul divano”. O, se volete un’altra linea dritta, tracciatela tra i poveracci che non possono riempire il frigorifero e gli extraprofitti delle banche (più 80 per cento nel 2023) che si dovevano tassare e poi non se n’è fatto niente, perché le banche hanno una lobby forte, e i poveri no.
Poi ci sono altri puntini da unire, apparentemente più lontani, quelli del vento di guerra che spira tutto intorno a noi. E se andate a vedere da vicino è una faccenda che intreccia geopolitica e finanza, geopolitica e economia, poteri forti e fortissimi, lobby danarose e miliardarie, apparati industriali, politici che di quegli apparati industriali sono solerti camerieri e servitori benemeriti. Chi vuole mandare truppe, comprare più armi, aumentare le spese militari – parlo dei politici, ma anche dell’informazione – è ascrivibile al sistema delle élite. L’Europa – parlandone da viva – che auspica (testuale) “un’economia di guerra” è a loro che pensa e si rivolge, non a quei numeri delle statistiche che faticano a mettere insieme il pranzo con la cena. Perché la guerra è un affare di ricchi e ricchissimi che pagheranno i poveri. Qui, in Ucraina, in Russia e ovunque. Lo diceva Bertold Brecht, ed è passato quasi un secolo, e i puntini sono ancora tutti lì, praticamente uguali, vergognosamente uguali, bisognerebbe unirli.

Che tristezza!

 

Fantocci, è lei?
di Marco Travaglio
Il cosiddetto centrodestra sta facendo di tutto per dimostrarsi persino peggiore di B.. Ma al momento, soprattutto con la fantozziana Operazione Puglia, è riuscito solo a rendersi ancor più ridicolo. Partito per guadagnare voti a Bari spacciando Decaro ed Emiliano per due amici della mafia, ne sta regalando altri al centrosinistra, visto che da quelle parti tutti sanno benissimo con chi sta la mafia (l’unica consigliera comunale indagata per voto di scambio è stata eletta nel 2019 col centrodestra prima di venire astutamente imbarcata dal Pd) e con chi l’antimafia (Emiliano da pm fece condannare centinaia di mafiosi e da sindaco ripulì Bari Vecchia, mentre Decaro è scortato da nove anni per minacce mafiose). Meraviglioso il finto scandalo per il racconto di Emiliano sui rudi colloqui con la sorella del boss Capriati e per il selfie di Decaro con un’altra sorella e una nipote del capoclan: scandalo dovuto al fatto che le tre donne sono incensurate.
Ma l’apoteosi va in scena al consiglio comunale, dove i parlamentari di destra tengono una conferenza stampa dando pubblica lettura dell’ordinanza del gip (mostrata su un maxischermo alle loro spalle) che a febbraio ha arrestato 130 persone, con tanto di intercettazioni. Cioè infrangono ben due leggi da essi stessi appena votate: la Cartabia sulla “presunzione d’innocenza” che vieta di nominare gli arrestati e il bavaglio Costa che proibisce la “pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare”, anche se non sono segrete. Alla sceneggiata presenzia quel gran genio del viceministro Sisto, già difensore di B. nella Puttanopoli barese e gran tifoso del bavaglio: “La scelta di non consentire la pubblicazione dell’ordinanza di custodia è in perfetta linea col diritto di difesa e la presunzione di non colpevolezza”, disse quando la porcata divenne legge. Ora, mentre i colleghi la violavano coram populo, s’è scordato di farli arrestare seduta stante. Intanto il forzista Raffaele Nevi, a Tagadà, confessava bel bello di avere “sul telefonino la richiesta di misure cautelari della Procura” e si offriva di “leggerne un pezzettino” agitando lo smartphone a favore di telecamera con il documento doppiamente vietato: se le ordinanze del gip non sono segrete (ma ora impubblicabili), le richieste del pm lo sono (dunque doppiamente vietate) e sarebbe interessante sapere chi gliele ha date. Purtroppo nelle carte non compaiono né Emiliano e Decaro, né le tre parenti di Capriati, tutte incensurate. Fossero state pregiudicate, il centrodestra figlio di B., Dell’Utri, D’Alì, Cuffaro, Cosentino, Verdini, Formigoni & C. creperebbe d’invidia per non aver pensato di farci un selfie o una chiacchierata, ma soprattutto di candidarle.

L'Amaca

 

Le balle dei potenti
DI MICHELE SERRA
Leggendo la ridicola versione del governo russo sulla carneficina di Mosca (sarebbero stati ucraini, americani e inglesi a organizzarla), ho ripensato all’abc del giornalismo, non sempre applicato da giornali e giornalisti (diciamo, ottimisticamente: non da tutti), ma insomma impossibile da ignorare per chi scrive le notizie e per chi le legge.
Verifica delle fonti al primo posto: vuol dire, grosso modo, che non puoi raccontare una cosa se non ne sei sicuro. Se non hai almeno qualche concreta, credibile pezza d’appoggio. In breve: non si devono dire balle.
Beh, mi sembra giusto valutare quanto questo concetto elementare di correttezza, già spesso disatteso sui media “classici” quanto sui social, sia sistematicamente aggirato in politica. La menzogna e la propaganda (termini quasi sinonimi) sono il bastione che regge la comunicazione di una moltitudine di governi. Inarrivabile la Russia di Putin, ma finché campiamo non potremo mai dimenticare le «armi di distruzione di massa» inventate da Bush e Blair per attaccare l’Iraq.
O le atroci balle di Boris Johnson durante la campagna pro-Brexit. Una bugia, benché occidentale, rimane pur sempre una bugia.
Ora, la domanda da farsi è questa: come possiamo pretendere dalla vox populi, che è l’anima dei social, un minimo di rispetto della realtà, se il cattivo esempio arriva dall’alto?
Se l’arte di negare l’evidenza, contraffare la realtà, manipolare gli eventi, è praticata spesso e volentieri prima di tutto dalla boriosa voce ufficiale di grandi potenze e di applauditi leader, come pretendere nitidezza di pensiero, e onestà di parola, dalla folla sottostante? Il pesce puzza sempre dalla testa, come si usa dire.

martedì 26 marzo 2024

Smargiassamente

 


Prefazione matematica

 

Evitiamo gli inganni da Gaza a Mosca
UNA BUSSOLA NEL CAOS - La gente non teme più di essere tacciata di antisemitismo quando critica Israele. Ma c’è chi deduce che, essendo imperativo schierarsi contro Netanyahu, lo sia anche essere antisemiti
DI PIERGIORGIO ODIFREDDI
Anticipiamo una parte della prefazione di Piergiorgio Odifreddi al libro di Alessandro Di Battista da oggi in libreria
Per combinazione, Alessandro Di Battista mi ha inviato il manoscritto di questo libro mentre ero in partenza per la Russia.
L’ho letto in viaggio tra Tallinn e San Pietroburgo, perché in seguito alle sanzioni da due anni non ci sono più voli diretti tra i Paesi europei e la Russia: chi vuole recarvisi deve giocare di sponda, per esempio con la Turchia, o strisciare per terra, come ho fatto io. Anche superare il confine non è immediato, perché il ponte di collegamento tra l’Estonia e la Russia è chiuso al traffico. Bisogna prendere un mezzo fino al confine estone, passare il ponte a piedi e tra i fili spinati, e poi prendere un altro mezzo dal confine russo a San Pietroburgo. E naturalmente, una volta in Russia, non si possono più usare carte di credito occidentali: una delle sanzioni ha bandito il Paese dal circuito Swift, e gli europei sono costretti a portare con sé direttamente la carta moneta, che va cambiata in rubli in banca prima di poter essere usata.
Si potrebbe pensare che queste e altre sanzioni abbiano messo in ginocchio la Russia, e che i russi vivano in un’economia di guerra, ma niente è più lontano dal vero. San Pietroburgo continua a essere la solita ribollente metropoli che era; la stessa descritta in maniera incomparabile nel romanzo Pietroburgo dal poeta e scrittore simbolista Andrej Belyj (Adelphi, 2014). Il teatro Mariinskij continua a offrire i suoi famosi balletti, il Museo Russo a esibire le sue straordinarie icone e i quadri di Malevi, i ristoranti e i negozi sulla Prospettiva Nevskij a rivaleggiare con quelli della Quinta Strada di New York, e la Russia a vivere esattamente come prima: solo con meno turisti europei e americani (il che, detto tra parentesi, non guasta).
Cos’è andato storto nelle misure politico-economiche contro la Russia, che erano state annunciate come strumenti per mettere in ginocchio il Paese e il suo presidente, che i nostri giornali chiamano zar (il che, di nuovo detto tra parentesi, è tanto corretto quanto chiamare duce la Meloni)? E, soprattutto, cos’è andato storto al fronte e sui campi di battaglia, nei quali l’enorme superiorità militare della Nato (che spendeva ogni anno il sessanta per cento delle spese mondiali degli armamenti) avrebbe dovuto sconfiggere l’esercito russo (che ne spendeva il 3 per cento) in men che non si dica? Non si doveva così ripristinare l’ordine mondiale del dopo 1989, quando cadde il Muro di Berlino, e soprattutto del dopo 1991, quando si dissolse l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti rimasero l’unica superpotenza al mondo? A queste domande risponde Di Battista in questo libro, nel quale rifulgono le sue note qualità personali. Per chi lo conoscesse solo come efficace polemista televisivo e youtuber, ricordiamo che la sua compassione verso i deboli l’ha portato a lavorare per anni da giovane in Guatemala con la Caritas. La sua passione per l’impegno l’ha fatto emergere in Parlamento come uno dei due leader del Movimento 5 Stelle. E il suo idealismo l’ha spinto a non ricandidarsi dopo un solo mandato, mentre i suoi compagni più realisti coglievano i frutti del loro impegno al governo, e ponevano le basi per la loro successiva sopravvivenza politica.
Alessandro infonde ora in questo libro le rare doti della compassione, della passione e dell’idealismo per raccontarci la discrepanza tra la fantasiosa narrazione della nostra politica e dei nostri media, e la prosaica realtà dei fatti: non solo per quanto riguarda la guerra in Ucraina, alla quale abbiamo già accennato, ma anche a proposito dell’ultimo capitolo della storia infinita del massacro dei palestinesi da parte di Israele. E non a caso le parole “massacro”, “menzogne”, “pretesto” e “verità” compaiono già nei titoli dei primi capitoli di questo libro. (…) Giustamente Di Battista critica anche quella che i militari e i politici israeliani chiamano “dottrina Dahiya”, che prende il nome dal quartiere di Beirut dove Israele la applicò per la prima volta nel 2006. La dottrina prevede una guerra asimmetrica basata su una letterale “risposta sproporzionata”, che va contro ogni ragionevole regola etica o giuridica. Non solo la legge del taglione, che prevedeva invece una risposta uguale e contraria: “occhio per occhio” (o tit for tat, come viene chiamata in teoria dei giochi). Ma persino la proporzione “dieci a uno”, adottata dai nazisti come rappresaglia all’attentato di via Rasella, che portò alla strage delle fosse Ardeatine.
Oggi Israele è già arrivato alla sproporzione “trenta a uno”, e non si fermerà, perché nessuno ha il coraggio di fermarlo, e di trattare Netanyahu e Israele come vengono trattati Putin e la Russia: con sanzioni sempre più forti agli aggressori, e armamenti sempre più potenti agli aggrediti. Il paradossale risultato che la dottrina Eban ha oggi ottenuto è che la gente non teme più di essere tacciata di antisemitismo quando critica Israele. Piuttosto, deduce logicamente che, poiché è diventato imperativo essere antisionisti, allora è diventato imperativo anche essere antisemiti. Da cui l’insorgere di un nuovo antisemitismo in Europa e negli Stati Uniti, frutto diabolico del subdolo gioco di Abba Eban, al quale troppi hanno giocato furbescamente e troppo a lungo in Israele e in Occidente. (…) La domanda cruciale, che Di Battista ci pone nell’ultimo capitolo, è cosa dobbiamo fare noi, e da che parte dobbiamo stare. Il suo libro ci aiuta a scegliere con cognizione di causa, e dobbiamo tutti essergli grati per gli strumenti che ci offre per poter effettuare coscienziosamente la nostra scelta.

Bari e dintorni

 

Due veri mafiosi
di Marco Travaglio
L’errore di Michele Emiliano non è stato raccontare (per l’ennesima volta) un episodio di vita vissuta col giovane Antonio Decaro nella Bari Vecchia degli anni 2007-2008. È stato non prevedere che, col caso Bari su tutti i giornali, il suo racconto sarebbe finito in pasto a chi quella storia (sua e della città) non la conosce e può persino credere alle panzane di politici e giornali di destra. L’attuale presidente della Regione è stato il pm che più di tutti, prima da Brindisi poi da Bari, ha ripulito la Puglia dalla Sacra Corona Unita ottenendo arresti, condanne e confische per centinaia di mafiosi. Nel 2003 prosegue l’opera da sindaco: il Comune inizia a costituirsi parte civile nei processi di mafia, confisca i beni alle famiglie e avvia protocolli e progetti di legalità e antimafia sociale (“Il magistrato trova i vasi già rotti, il sindaco cerca di evitare che si rompano”). Il Far West di Bari Vecchia, la Scippolandia dove si spara ad altezza uomo, cambia volto. Nel 2004, con assessore al Traffico il novellino Decaro, Emiliano la svuota dalle auto, scatenando la rivolta dei residenti, famiglie mafiose in testa. Il clima è rovente: il Sindaco Sceriffo e l’assessore, contestati e minacciati, girano per i quartieri, riuniscono i comitati, spiegano che la musica cambia per il bene di tutti.
In quelle assemblee infuocate e nei tour per le piazze dove si vive e si mangia per strada e si rincasa nei “sottani” solo per dormire, Decaro è un pesce fuor d’acqua, mentre l’ex pm conosce a uno a uno i parenti dei boss che ha fatto arrestare e condannare. “Dove prima si sparava nascosti dietro le auto, ora mettiamo le fioriere e i vostri figli possono giocare senza rischi”, è il suo refrain. E alle mogli e madri dei detenuti (per mano sua) o dei caduti nelle faide aggiunge: “Volete che i vostri ragazzi finiscano in galera o al cimitero come i vostri mariti e i vostri figli?”. È in questi giri nei vicoli più inquinati che Michele lo Sbirro, privato della scorta appena lasciata la toga, copre con le sue spalle larghe quelle gracili di Decaro e fa quel discorsetto alla sorella di Antonio Capriati (lei incensurata, lui ergastolano per omicidio), come ad altri parenti “eccellenti” che presidiano il territorio con aria bullesca di sfida: qui l’aria è cambiata, rassegnatevi; se avete qualcosa da dire all’assessore, fatelo col rispetto che portate a me. L’ex pm se lo ricorda perché sa con chi parlava e l’ha fatto infinite volte. Decaro no, perché non ha in testa l’albero genealogico dei clan. Tant’è che ieri è uscito un suo selfie del 2022 con due donne imparentate con i Capriati alla festa di San Nicola davanti alla loro boutique. E lui ha dovuto chiedere al parroco chi fossero (non lo sapevano neppure i carabinieri). Peccato non avere in casa un esperto del settore, tipo Dell’Utri o Mangano.