sabato 23 agosto 2025

Michele sul Leonka

 

Dal Leoncavallo un’opportunità per il nostro futuro
di MICHELE SERRA
Chi, per comodità o per ottusità, volesse considerare la faccenda del Leoncavallo come una pura bega legale-burocratica, può sbizzarrirsi leggendo la relativa voce su Wikipedia. Tra ordinanze, sfratti, sgomberi, accordi fatti e disfatti, promesse e minacce, benevolenze private e pubbliche poi passate in prescrizione, non ci si raccapezza; e la sola morale che se ne ricava è che non basta mezzo secolo di scartoffie, tanto meno di gipponi della polizia, per risolvere una questione politica grande come un grattacielo. La questione è se e come la città di Milano possa garantire a se stessa, oltre che a una parte tutt’altro che marginale della sua cittadinanza, una identità sociale e culturale non compresa (in tutti i sensi) dal modello di sviluppo che l’ha resa al tempo stesso “più moderna”, più simile alle altre metropoli del mondo, e però meno inclusiva, in un processo centrifugo che edificando benessere in centro spinge all’esterno chi non riesce a pagarsi il biglietto.
E non solo: nell’omogeneità anche estetica del suo vivere, miliardi di localini con dehor ai piedi di una cordigliera di acciaio e di cristallo, i milanesi rischiano di non riuscire ad immaginare più niente di sorprendente, o di nuovo. Di diversamente urbano — essendo la città, per definizione, un insieme plurale e anche inatteso di condizioni umane. Non è in gioco, sia chiaro, la nostalgia della “Milano di una volta”. Ho già scritto, da milanese di lungo corso, che la Milano di una volta era peggiore di questa, più triste e sdrucita, come se strascicasse oltre il lecito un infinito dopoguerra. Né l’idillio delle vecchie “case di ringhiera” (edifici malsani e promiscui ora riattati da fior di architetti, e abitati da sciure abbienti che sperimentano l’incompatibilità tra le ruote di bicicletta e gli acciottolati di quei cortili), o dei Navigli che Delio Tessa metteva in poesia per dire quanto puzzavano, e Ivan Della Mea malediceva come “acqua marcia”, basta a far dubitare del presente.
È il futuro che è in discussione, e lo è anche alla luce di una vicenda, quella del Leoncavallo, che può sembrare “di nicchia” solo a chi conosce poco e male Milano. C’è una “produttività”, nella storia del Leoncavallo, che è parecchio milanese. Produrre socialità e cultura non è un piatto pronto, è un lavoro, in genere un lavoro lungo. La riottosità improduttiva e ombelicale che viene facile imputare a molte manifestazioni del cosiddetto mondo antagonista, al Leonka ha avuto vita breve. La storia politica di questa grande e anomala bottega milanese è, da quasi subito, inclusiva prima di tutto nei propri confronti: aperta al quartiere, ai movimenti e ai partiti della sinistra radicale e non extraparlamentare (leader del Leonka sono finiti, meritatamente aggiungo, in Parlamento), alla galassia della sperimentazione artistica, teatrale, musicale, letteraria. La mozione “aprire le porte” ha sempre avuto la meglio, e se pensate al settarismo mortifero che ha ammazzato in culla tanta sinistra ultrà, viene quasi da dire che il Leonka, nel vasto e difforme campionario dei centri sociali, è una specie di eccezione “riformista”, ancora una volta molto milanese.
Certo il Leoncavallo, nelle sue varie fisionomie e rinascite, e in virtù della sua natura “di quartiere”, poteva sempre rimandare in qualche maniera a una fisionomia popolare milanese classica, come se il dna della bocciofila e del circolo Arci si rigenerasse nelle forme tatuate e graffitare delle nuove generazioni urbane di tutto l’Occidente. Una capacità mutagena che dovrebbe far sobbalzare urbanisti, sociologi e soprattutto politici: quanto è preziosa, quanto utile la differenza? Quanto ci piace immaginare una Milano senza o con Leoncavallo? Quanto pesa, in tutta questa discussione, l’aspetto legalitario, che da solo non è mai bastato (lungo i millenni) a stabilire con nettezza il confine tra il giusto e l’ingiusto, la ragione e il torto? E quanto l’aspetto politico, ovvero la presa d’atto che “ai margini”, in uno spazio ricavato scavando dentro le dimenticanze del capitale, nei recessi dello sfitto, dell’inutilizzato, del postindustriale, possono fiorire la socialità, l’incontro, la cultura?
La ciancia puerile del Salvini e di quella parte ahimè dominante della destra che odia ogni forma di vita al di fuori di se stessa (perché la teme) sono cose scontate. Cose da fascisti, per dirla tutta. Esultano per lo sfratto del Leoncavallo, esultano per le fatiche giudiziarie di Milano, esultano per tutto ciò che giova alla loro cieca e modesta spedizione punitiva. Borghesucci improvvisati che invocano la legge solo quando giova ai propri comodi, e la scansano (Casa Pound!) quando tira in ballo anche il proprio dovere.
È la sinistra, tutta quanta, in primis il centrosinistra milanese che deve decidere se “Leoncavallo” è il nome di una scomodità oppure di una occasione. Se quel percorso impuro, anomalo, anche illegale, rappresenta una parte di città che merita di avere voce, o se il piano regolatore del futuro deve essere scritto solo da chi ha già voce in capitolo, e organizza lo skyline. Non è una scelta facile. Da milanese che confida nell’intuito generoso e futurista della sua città, spero, o mi illudo, che Milano non si dimentichi del SUO Leonka.

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