Propaganda tra i cadaveri
di MICHELE SERRA
Alla luce dell’ennesimo ammazzamento di giornalisti a Gaza, la recente mossa del governo israeliano (sguinzagliare tra quelle macerie, comodamente scarrozzati, una decina di influencer amici per smentire che ci sia fame, che ci sia terrore, che si spari nel mucchio) suona così assurda, e al tempo stesso così oscena, da sembrare, lei sì, “propaganda di Hamas”, escogitata per screditare il governo Netanyahu e fugare le residue illusioni che la democrazia, che Israele vanta come suo unico sensibile vantaggio etico sui vicini, possa sopravvivere a questo momento di scervellato furore.
L’informazione così come la conosciamo, e così come si dispiega per il mondo, ha i suoi difetti, le sue distorsioni e le sue lacune, i suoi padroni e i suoi servi; ma è, nel suo complesso, un elemento strutturale — appunto — della democrazia. Scrollare sui social e fare zapping tra i tigì di mezzo mondo, no, non è la stessa cosa: la differenza tra le due fonti è quella che separa il cazzeggio dal lavoro. Tra i post di un influencer e la formazione di un notiziario c’è una differenza abissale in termini di controllo delle fonti, di discussione collettiva, di elaborazione formale della notizia. Pensare di “fare informazione” con un manipolo di esaltati, o di prezzolati, è da folli o da despoti, perché la massa delle informazioni mondiali, per quanto carente e/o faziosa, è pur sempre qualcosa di molto meglio della fuffa propagandistica.
Si dubita che uno solo dei ciarlieri influencer di Netanyahu sia in condizione di spendere qualche parola di cordoglio per la soppressione violenta dei giornalisti quelli veri. E tutto sommato è meglio così: il rischio è che si sentano “colleghi” delle vittime, usurpando un mestiere del quale non hanno la benché minima idea.
Nessun commento:
Posta un commento