A volte capita improvvisamente d’incontrare il dolore, nelle forme più infime, come il padre di stamani davanti al figlio giovane, invaso dall’eroina, traballante, col ciuffo biondo che protestava con la classica voce arrocchita, davanti ai suoi occhi sanguinanti, imploranti, stupiti, devastati. Quello sguardo raggelante, frutto di un impotenza annichilente, di chi vorrebbe ma non sa che fare, certificatore di notti passate a sperare di rivederlo il giorno dopo, assieme alle promesse mancate dalla dipendenza. Potesse quel giovane vedere col cuore quello sguardo paterno, probabilmente farebbe di tutto per ritornare a vivere. Soprattutto per farlo cessare.
Un luogo ideale per trasmettere i miei pensieri a chi abbia voglia e pazienza di leggerli. Senza altro scopo che il portare alla luce i sentimenti che mi differenziano dai bovini, anche se alcune volte scrivo come loro, grammaticalmente parlando! Grazie!
giovedì 31 luglio 2025
Ritratto al Pino
Boeri, l’archistar dagli occhiali tatuati che scruta dai rami
DI PINO CORRIAS
Stefano Boeri si è reso memorabile per gli occhiali tridimensionali tatuati sulla fronte che perfezionano il suo incedere nerovestito, come si conviene agli architetti di moderna architettura. Nonché per il suo Bosco Verticale che doppiamente svetta sul nuovo cuore pulsante di Milano – la piazza intitolata all’incolpevole Gae Aulenti – con i suoi 360 inquilini che hanno scucito 15 mila euro al metro quadro, in cambio del privilegio di vivere nel “grattacielo più bello del mondo”, tra le zanzare, 21 specie di uccelli residenti, 800 alberi, 21 mila tra piante e arbusti. Tutti accatastati intorno agli appartamenti, purtroppo al buio.
I magistrati che indagano sul Miracolo (del Mattone) a Milano – milioni di metri quadri destinati al cemento nella più classista tra le rigenerazioni edilizie di una metropoli sempre meno democratica – gli hanno perlustrato i progetti, le amicizie e il cellulare. Mettendo al centro dell’inchiesta le sue multiple relazioni con il carissimo sindaco Beppe Sala, con il dominus tra i costruttori, Manfredi Catella, con gli assessori funzionali, con i titolari della potente Commissione Paesaggio, più l’intero jet set della capitale morale, che gli hanno fruttato preziosi appalti a partire dal D Day dell’alta finanza internazionale sbarcata alla conquista di Expo 2015. Oltre che a tre avvisi di garanzia collezionati in due anni, uno per la riqualificazione del Pirellino, il secondo per turbativa d’asta e false dichiarazioni nel progetto della Beic, la Biblioteca europea di informazione e cultura; il terzo per lottizzazione abusiva e abuso edilizio nel progetto del Bosconavigli.
“Ho fiducia nell’autorità giudiziaria – ha detto Boeri in tutte e tre le spiacevoli occasioni –. E confido nella verità”. Giusto. Ma anche un po’ confida nella buona stella della sua carriera, nella fama mondiale conquistata a colpi di grattacieli costruiti nel mondo, da Shenzhen a Tirana, grazie ai progetti di riqualificazione dei porti di Marsiglia, Napoli, Trieste, alle risistemazioni di stazioni ferroviarie, centri storici, nonché per la sontuosa Casa del Mare all’isola della Maddalena, l’hotel extralusso costruito per ospitare il G8 di Berlusconi in Sardegna, anno 2009, abbandonato per i lavori troppo in ritardo e con troppi guai: 629 milioni di euro buttati nel mare blu, i cristalli masticati dalla ruggine, Obama e gli altri capi di Stato trasferiti sulle macerie di L’Aquila, monito involontario alle vanità di ogni architettura.
È imbottita meglio di un divano De Padova la storia di Stefano Boeri, nato nell’anno 1956, predestinato alla permanente prima classe con salottino insonorizzato. Formidabile fu la famiglia: Renato Boeri, il padre, neurologo di fama, direttore sanitario del Besta di Milano, oltre che comandante partigiano ai tempi suoi. Cini Boeri, la madre, anche lei staffetta partigiana in gioventù, mosca bianca dell’architettura al femminile, titolare di studio e carriera internazionali, allieva comunista di Portaluppi, Aldo Rossi e di Giò Ponti, signora social d’alta classe, amica di Giorgio Strehler, Aldo Aniasi, Giulio Einaudi. Una scheggia di nobiltà incorporata ai guanti bianchi dei maggiordomi che servono a tavola, anche quando vengono i ragazzi del Movimento studentesco, compagni di Stefano e dei due fratelli, Sandro, il più grande che farà il giornalista, Tito, il più piccolo, economista svezzato all’Ocse a Parigi, consulente della Banca Mondiale e del Fondo monetario internazionale.
Tutti rampolli di quella tormentata e colta e democratica borghesia milanese, con patrimonio annesso, casa su tre piani in piazza Sant’Ambrogio, davanti al Cenacolo di Leonardo, vacanze estive nella villa in Sardegna, vacanze invernali a Celerina, a due passi da St. Moritz, ma con più charme e meno gioiellerie.
Archiviato l’estremismo di gioventù, un po’ meno la spocchia, Stefano decide di seguire le orme di mamma. Laurea al Politecnico. Master a Venezia. Studio a suo nome. Dice da sempre di “essere ossessionato dagli alberi” e dall’idea di “guardare il mondo dai rami”. Anche se per lavorare non disdegna nulla di mattoni e calcestruzzo. Lavora per Letizia Moratti sindaco. Per Berlusconi premier. Per Salvatore Ligresti palazzinaro. E avendo sposato la nipote di Piergaetano Marchetti, plenipotenziario di Rcs, anche per la nuova sede di Rizzoli.
Tra i rami del suo futuro, intravede la carriera politica: nel 2010 si candida alle primarie del Pd contro Giuliano Pisapia, avvocato, anche lui d’alto lignaggio milanese. Perde. Non scende da cavallo e a Pisapia sindaco, chiede l’assessorato alla Cultura. Lo ottiene. Ma fare il numero 2 non gli si addice. Convoca conferenze stampa e annuncia progetti all’insaputa del sindaco, che lo sopporta per una ventina di mesi prima di convocarlo alle sette di sera del 13 marzo 2013 per licenziarlo in 15 minuti. Boeri fa il finto tonto e su Facebook scrive: “È una decisione che non mi è stata motivata”.
Non conoscendo il vuoto, torna all’architettura. L’idea del Bosco Verticale racconta di averla avuta leggendo Il Barone rampante di Italo Calvino. Quasi mai aggiunge di avere studiato e ammirato i Muri vegetali, realizzati da Patrick Blanc, artista e paesaggista francese. Guai a dirgli che il suo Bosco Verticale costruito nel 2014 dalla Coima del suo amico Manfredi Catella, rappresenta un ecologismo di facciata, destinato alla falsa coscienza dei super ricchi che vanno ai meeting sui disastri climatici usando il jet personale e fingono di non sapere che l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio. O che tra costruzione, manutenzione, irrigazione, il doppio capolavoro dell’orgoglio milanese ha costi spropositati. Compresi quelli dei flying gardeners, i “giardinieri volanti” che ogni tre mesi si calano dal tetto delle due torri con corde lunghe 300 metri per disinfestare, disboscare, lavare.
Boeri sale anche lui sui tetti della carriera. Insegna Urbanistica al Politecnico di Milano e a Harvard. Dirige il Future City Lab di Shangai. Partecipa a tutti i Forum su Biodiversità e Forestazione urbana nel mondo. Nel frattempo dirige Domus e Abitare, le due più autorevoli riviste italiane di architettura, per poi trasferirsi alla presidenza della Triennale a Milano. Alla quale, nel 2020, associa la Fondation Cartier di Parigi firmando un accordo di collaborazione per otto anni, ottimo per il prestigio della Triennale, ma anche fortunata circostanza per lui, che viene scelto per arredare la nuova “Residence Cartier” di via Montenapoleone, definita “spazio flessibile tra sontuosità e minimalismo” qualunque cosa voglia dire. Gli odierni inciampi giudiziari, sono macchie d’inchiostro tra i rami. Se lavabili dai giardinieri volanti della procura, vedremo.
Russofobi di parte
Russofobi col broncio
DI MARCO TRAVAGLIO
Scandalo, orrore, raccapriccio: il ministero degli Esteri russo copia i migliori quotidiani italiani e pubblica una lista di proscrizione con gli “esempi di russofobia”, fra cui alcune perle di Mattarella, Crosetto e Tajani. Il quale convoca l’ambasciatore Paramonov per chiedere “spiegazioni”. Noi vorremmo essere una mosca o – se mosca è troppo russofilo – una zanzara, per assistere allo storico incontro. Tajani redarguisce da par suo il diplomatico russo: “Come vi permettete di darci dei russofobi?”. E quello se la ride: “Pensavamo che per voi l’aggettivo russofobo non fosse un insulto, ma un complimento”. Poi consegna al presunto ministro un paio di volumi della Treccani con la lista degli episodi di russofobia promossi o istigati o tollerati dai governi Draghi e Meloni col consenso o nel silenzio di Mattarella: direttori d’orchestra, artisti, intellettuali e sportivi cacciati-discriminati-perseguitati-insultati in quanto russi, balletti russi banditi dai teatri, corsi universitari su Dostoevskij sospesi, partnership scientifiche fra atenei italiani e russi cancellate, liste di proscrizione contro giornalisti russi e analisti italiani spacciati per putiniani e trascinati al Copasir e/o radiati dalle tv, vagonate di armi inviate all’Ucraina per “sconfiggere la Russia”, mega-piani di riarmo per l’auspicata guerra alla Russia. E, a mo’ di dedica, la lectio magistralis di Mattarella a Marsiglia che l’anno scorso paragonò la Russia attuale al Terzo Reich di Hitler, sconfitto soprattutto grazie al sacrificio dell’Unione Sovietica con 28 milioni di morti.
Tutte cose che parrebbero eccessive anche se fossimo in guerra con la Russia e risultano vieppiù incomprensibili in assenza di dichiarazioni di guerra di Roma a Mosca o viceversa. Anche perché chi le ha volute o avallate denuncia, giustamente, la peste gemella della russofobia: l’antisemitismo di chi confonde il governo israeliano col popolo ebraico. Ieri Mattarella ha attaccato l’“angosciosa postura aggressiva della Russia in Ucraina, un macigno sull’Europa” e poi i morti e la fame a Gaza, solo che lì non ha evocato né angosciose posture aggressive né macigni: ha deplorato, giustamente, la “diffusa tendenza alla contrapposizione irriducibile, alla intolleranza per le opinioni diverse dalle proprie, al rifugio in slogan superficiali e pregiudizi tra cui riaffiora gravissimo l’antisemitismo, che si alimenta anche di stupidità”. Ma lo stesso si può dire della russofobia di chi paragona ai nazisti i russi che li sconfissero, o esclude la Russia dalle celebrazioni per la liberazione di Auschwitz a opera della Russia, mentre finanzia e arma il battaglione Azov e altre nazi-milizie ucraine. Questi russofobi sono proprio dei bei tipi: se li chiami per nome, anziché appuntarsi al petto la sudata medaglia, si offendono.
L'Amaca
La teoria degli insiemi
di MICHELE SERRA
Riassumendo: se a uno non piace Putin, è russofobo. Se a uno non piace Netanyahu, è antisemita. Ne discende, per la proprietà transitiva, che se a uno non piace Trump è antiamericano, se uno detesta gli ayatollah è islamofobo, se uno non sopporta certi talk show è contro la televisione.
Qualcosa non quadra. Decisamente: non quadra. È sufficiente un elementare sondaggio dentro ognuno di noi per capirlo.
Io per esempio detesto Putin, che è russo, ma amo Tolstoj e Bulgakov e Stravinskij, che sono russi. Mi ripugna Netanyahu, che è ebreo, ma amo Dylan, Roth, Einstein (segue una lista interminabile) che sono ebrei.
Trump mi sembra l’ultimo gradino dell’umano, ma senza la cultura americana, il cinema americano e tante altre cose americane, la mia testa sarebbe molto più povera. Odio (sì, odio) il regime iraniano ma sono stato in quel Paese e quel popolo meraviglioso mi ha conquistato. E considero la televisione una grande occasione di conoscenza e di intrattenimento anche se alcune trasmissioni mi danno l’orticaria per quanto sono brutte e volgari.
E dunque? E dunque bisogna respingere al mittente la stupida confusione tra la parte e il tutto. Putin e la sua cerchia di pretoriani NON sono la Russia, gli ayatollah NON sono l’Iran, Netanyahu NON è l’ebraismo, eccetera. Già nelle scuole primarie (se sono aggiornato con i programmi) si studiano gli insiemi. Beh, io metterei nello stesso insieme, quello dei prepotenti, Putin, Netanyahu, Trump, gli ayatollah eccetera. E in insiemi ben distinti, ben differenti, i russi, gli americani, gli ebrei, gli islamici, le donne e gli uomini di tutte le latitudini che non si riconoscono nella prepotenza e nella brutalità.
mercoledì 30 luglio 2025
Uno splendido Alessandro!
Riforme La parola “sinistra” è ormai uno scioglilingua: urge una moratoria
DI ALESSANDRO ROBECCHI
Quando le parole diventano lise e consunte, mostrano l’usura del tempo e i danni dell’uso scriteriato, è meglio cambiarle, o smettere di usarle. Se una parola vuol dire troppe cose, allora non vuole più dire niente, se chiunque può usarla a vanvera e interpretarla in un milione di modi, o tirarla di qua e di là a seconda della convenienza, finisce che genera solo confusione. Direi che è il tempo di chiedere una moratoria di qualche anno sulla parola “Sinistra”, che risulta ormai la più grossa truffa in commercio dopo lo scioglipancia di Wanna Marchi, che almeno qualche speranza ai gonzi la dava, e la sinistra invece manco quello.
Basta una rapida occhiata all’eterna pochade italiana per rendersi conto di quanto sia intricata la matassa in un Paese dove si considera “di sinistra” Renzi, a volte persino Calenda, ma anche gli operai che chiedono il contratto scaduto da anni, ma anche i centri sociali, ma anche il Pd, sia quello di destra che quello di sinistra. È (sedicente) di sinistra Minniti che firma gli accordi con i libici perché tengano i migranti nei loro lager, e sono di sinistra le Ong che vanno a salvarli in mare quando quelli riescono a fuggire. È di sinistra chi ha scritto e votato il Jobs act, una legge contro i lavoratori, ed è di sinistra chi lo contesta, compresi i lavoratori, non tutti, perché molti, stufi di questo balletto delle millemila sinistre, hanno votato a destra.
Non passa giorno che qualcuno indichi questo o quello come fulgido esempio di sinistra, cosa che fanno soprattutto i furbetti della sinistra di destra. Esultanza scomposta a ogni passo, o dichiarazione, o decisione di leader che di sinistra non hanno nulla (per esempio Starmer, in Inghilterra, oggi bastonatissimo dai sondaggi dove si impone una sinistra vera, quella di Corbyn), e ieratica indicazione della via, sempre moderatissima, ovviamente. Dall’altra parte ci si arrampica sugli specchi per trovare parole più precise. Vera sinistra, oppure sinistra-sinistra, oppure sinistra radicale. Non si sa più che fare per districare la matassa, ma ancora una volta ci pensa la sinistra rosé a risolvere il problema: generalmente chi dice cose di sinistra (o che un tempo sarebbero state sacrosantamente di sinistra, tipo ridurre le diseguaglianze, o migliorare la posizione delle classi meno abbienti) viene bollato come “populista” e morta lì. Altro vezzo divertente è di far seguire l’aggettivo “liberale” ad ogni parola di senso compiuto, per cui c’è una “sinistra” che continua a berciare di “democrazia liberale”, come se non essere liberali (parola superelastica, che va da Pinochet a Einaudi) impedisse di essere “di sinistra”. È di sinistra aiutare i ricchi, così staranno un po’ meglio i poveri, ed è di sinistra lottare per aumentare le tasse ai milionari. In parole povere è di sinistra tutto quanto fa costantemente a botte, in un testacoda perenne che genera mal di testa e giramenti di capo (oltre che di coglioni).
Si aggiunga che, secondo la destra, è di sinistra tutto quello che non è riconducibile direttamente alla destra, quindi abbiamo un Sala sindaco del cemento “di sinistra”, e comitati di inquilini che chiedono il diritto a un abitare decente, che però non possono opporsi troppo, cioè non possono essere troppo di sinistra, perché sennò “vince la destra”. In tutto questo trionfa l’imbarazzo e domina l’autoanalisi. Sei di sinistra? Boh, dipende.
Date retta, urge una moratoria, e intanto che si sviluppi la ricerca di altre parole, meno consunte, più sensate, meno scioglipancia alla Wanna Marchi.
Come contraddirlo?
Scene da un manicomio
DI MARCO TRAVAGLIO
Forse è inutile pretendere un po’ di logica nel manicomio di questo dibattito pubblico, ma ci proviamo lo stesso.
In un autogrill di Lainate un gruppo di esagitati insulta un francese di religione ebraica e suo figlio, che indossano la kippah, urlando “Palestina libera”, “Assassini”, “Andate a casa vostra” e altre assurdità. Sono indignati per lo sterminio a Gaza, ma anche molto ignoranti, perché lo addossano a due persone che non sono né governanti israeliani (cioè colpevoli dello sterminio), né cittadini israeliani (cioè incolpevoli di tutto), ma francesi di religione ebraica (che, nel caso di specie, equivale alla fede cristiana, islamica, buddista, mormone). Poi si passa alle botte quando il francese, comprensibilmente offeso, trascende minacciando uno dei tizi: “Vieni fuori che ti spacco la faccia”. Quindi no, non si può dire – come fanno politici e media sfusi – che in Italia l’antisemitismo è arrivato al punto che la gente per strada lincia gli ebrei solo perché ebrei. Si può dire invece che questi episodi sono il frutto avvelenato di un mix terrificante: lo sterminio dei palestinesi a Gaza per mano del governo Netanyahu impunito, armato e spalleggiato dai governi europei; la doppia morale occidentale sui crimini di “amici” e “nemici” (se censuri e discrimini scrittori, musicisti e sportivi russi solo perché russi, scambiandoli per il loro governo, qualche somaro parallelo si sentirà in dovere di fare lo stesso con gli ebrei, confondendoli con gli israeliani e con il loro governo); l’ignoranza crassa sulla storia d’Europa e del Medio Oriente a ogni livello.
I commenti alla resa di Ursula von der Leyen in ginocchio da Trump sono quasi tutti insulti al presidente Usa: farabutto, mafioso, estorsore ecc. Come se fosse stato eletto per fare gli interessi dell’Europa e li stesse tradendo. Purtroppo è stato eletto dagli americani per fare gli interessi degli Usa: nulla di strano se li fa, taglieggiando gli altri Paesi per riequilibrare la bilancia commerciale del suo. Traditore è chi è stato eletto per fare gl’interessi dell’Europa e fa regolarmente quelli degli Usa: cioè la VdL e chi sostiene la sua demenziale Commissione (tutti i partiti italiani tranne M5S, Lega e Avs). Non tanto per i dazi, che della doccia scozzese sono il male minore: quanto per l’impegno a non tassare i Big Tech e a investire oltre mille miliardi in Usa per acquistare ancora più armi (per i piani di riarmo Ue & Nato), petrolio e gas liquido (che ci costa il quadruplo di quello russo). Prima di insegnare agli americani da chi devono farsi governare sventolando il manifesto di Ventotene o straparlando di sovranismo, dovremmo prendere qualche ripetizione. Se un fornaio ti chiede di comprare il pane da lui a 12 euro al chilo anziché a 3 da un altro e tu accetti, la colpa è sua o tua?
L'Amaca
Lo shining del fanatismo
di MICHELE SERRA
Pestare un francese ebreo incontrato in autogrill — senza sapere chi è, cosa pensa, come vive, e senza tenere conto che con lui c’è un bambino di sei anni — solo perché indossa una kippah e reagisce agli insulti; e pensare che pestarlo significhi essere “dalla parte di Gaza”, richiede una buona dose di stupidità. Ma la stupidità non basta. Bisogna lasciarsi possedere da quella specie di shining negativo, inconfondibile, che è il fanatismo, una specie di ossificazione del pensiero che devasta una minoranza di persone; però una minoranza così attiva, così rumorosa, così prevaricante, da guastare anche la vita degli altri.
Sarebbe interessante sapere chi sono gli autori del gestaccio. Non per punirli o biasimarli (non serve a niente: il fanatico gode dei propri torti, li considera prove sul campo della sua eccellenza morale, si sente vittima anche quando è prevaricatore), ma per capire meglio. Cosa leggono, se leggono?
A quali siti si abbeverano e in quali chat si autobenedicono? In quali stanze refrattarie al mondo rinforzano i loro precetti (in questo caso: ebreo uguale Netanyahu. Che è come dire: russo uguale Putin, arabo uguale terrorista, americano uguale Trump, italiano uguale mafioso, eccetera)?
Se il fanatico di destra (il fascista) è in qualche modo coerente con un pensiero di prevaricazione fisica e di sottomissione degli altri, come fa il fanatico “democratico”, che si ritiene portatore di solidarietà e uguaglianza e, non c’è bisogno di dirlo, pacifista fin dalla nascita, a bruciare bandiere, picchiare persone, sbraitare insulti e odio, senza sentire cigolare i suoi cardini? Non c’è risposta, e anche la domanda è inutile.
Perché il fanatico, in ogni domanda, in ogni dubbio, legge solo cedimento e tradimento.
martedì 29 luglio 2025
Nella tragedia del genocidio
Gaza, lo sterminio a tre ore da noi
DI PINO CORRIAS
Noi che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, seduti ogni sera, davanti agli sbuffi di polvere che si alzano sulle macerie di Gaza, alle esplosioni che illuminano la notte di Khan Younis, ai cadaveri senza identità accatastati nelle fosse comuni, ai bambini ridotti a scheletri, ci chiediamo quanto veleno militarista, quanto veleno religioso, quanto veleno ideologico occorrano per trasformare una vendetta in un massacro senza fine. E come sia possibile ritrovarci a respirare di nuovo dentro al nero inchiostro della premonizione di Primo Levi: “Siccome è successo, succederà ancora”.
Al netto delle briciole concesse da Israele, un corridoio lungo dieci ore al giorno ai camion degli aiuti umanitari, siamo tutti precipitati indietro nel tempo. Di nuovo spettatori del lager, testimoni di un massacro che avviene davanti al mondo, a tre ore di volo dalle nostre vacanze, dai nostri fantocci della politica e della diplomazia, dalle balbettanti corrispondenze dei nostri telegiornali che chiamano lo sterminio “un nuovo raid delle Forze armate”, o peggio, “una nuova offensiva”. E dicano, come niente fosse “bombardata la tendopoli di Deir El Balah” e poi “nuova strage tra gli sfollati in fila per il cibo, oggi sono 32”, senza spiegarci come sia possibile bombardare una tendopoli che è “area umanitaria” per eccellenza, e sparare sugli sfollati, che sono donne e bambini, aggrappati alle loro pentole vuote.
Due inferni sulla Terra ha fabbricato il fanatismo ideologico, negli anni 30 dell’altro secolo: lo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento nazisti voluto da Hitler e dalla sua Germania uncinata, classificato come Soluzione finale. E lo sterminio per fame, imposto in Unione Sovietica da Stalin e dagli apparati comunisti, contro il popolo ucraino, l’Holomodor. Sei milioni di morti il primo. Tra i tre e i cinque milioni, il secondo.
Netanyahu e il suo governo, Israele e il suo esercito, li stanno imbracciando entrambi contro i palestinesi imprigionati a Gaza, per vendicare i 1200 ebrei uccisi da Hamas e i 250 rapiti, tutte vittime del 7 ottobre 2023, in un raid preparato per mesi dai miliziani, senza che gli occhi satellitari di Israele si accorgessero di nulla, come nel nulla erano finiti gli allarmi dei Servizi segreti militari. Per poi deflagrare nel furore di questa vendetta infinita e finale, 21 mesi di bombardamenti, che nessuno riesce più fermare.
Le bombe e la fame. I missili e le malattie. Quasi 60 mila palestinesi sono già morti sotto le bombe, altre migliaia di vittime sono scomparse sotto le macerie. I jet e i droni hanno raso al suolo il 70 per cento di tutto: le case, gli ospedali, le strade. Da marzo – secondo il piano ideato come seconda fase del massacro – l’esercito ha bloccato i camion di cibo e acqua degli aiuti internazionali al di là dei valichi di frontiera, per poi fucilare, ogni giorno, i civili che si addensano in folle rese isteriche dalla fame, nei punti in cui viene distribuita la farina: l’alimento indispensabile alla sopravvivenza, trasformato in trappola mortale.
Le briciole appena concesse da Netanyahu “per impedire all’Onu di continuare a mentire contro di noi” serviranno poco ai gazawi (e agli ostaggi imprigionati da Hamas) se non a prolungarne l’agonia. A morire da moribondi, proprio come accadeva agli ebrei ridotti a scheletri nelle baracche di Auschwitz, prima di essere avviati ai forni crematori. O come i contadini ucraini ridotti a larve umane nei campi bruciati dalla carestia.
Ma chi sono i soldati che obbediscono agli ordini sul campo? Che facce hanno? Nessuna è mai comparsa. Israele controlla, cancella, censura tutto. Non le vediamo, ma possiamo immaginarle. Sono quelle dei normalissimi ragazzi e delle ragazze che fino a sei mesi fa, a un anno fa, giocavano a pallavolo sulle spiagge di Eilat e Banana Beach, che bevevano l’aperitivo nei pub di Jaffa, che si scattavano selfie in quella che ancora oggi le guide turistiche chiamano “l’eccitante vita notturna di Tel Aviv”.
È stata la disciplina militare a trasformarli. È stata l’ideologia della smisurata vendetta a renderli così obbedienti, così impermeabili all’orrore, così indifferenti all’omicidio di massa. A persuaderli che sparare ogni giorno, da 660 giorni, contro civili inermi sia una guerra e non un crimine. Un ordine da eseguire. Una procedura consentita dal dominio totale che Israele, da decenni, esercita sui suoi nemici, in nome della propria nazione, della propria terra, della propria storia. Decenni nei quali ha steso il filo spinato intorno ai 56 chilometri di confine di Gaza. Installato telecamere e check-point. Consentito l’assalto dei coloni nei Territori. Praticato gli arresti arbitrari dei sospetti, sequestrati senza processo in carceri vietate a ogni controllo. Garantendo la perpetua impunità dei propri reparti militari.
Al netto delle crescenti diserzioni (e suicidi) che le agenzie internazionali segnalano tra le file dell’esercito israeliano, non sono solo i decenni di guerra guerreggiata a rendere le migliaia di reclute così tanto indifferenti al destino di un intero popolo nemico, speculare al proprio. Lo è anche l’assimilazione dei canoni dell’apartheid respirati nella vita quotidiana, quella vissuta nella famosa “unica democrazia del Medio Oriente”, che li ha persuasi della completa disumanizzazione dei palestinesi, gli intrusi. Gli intralci da eliminare, i corpi da sfoltire, le masse irrilevanti da sgomberare. “Gaza sarà finalmente tutta ebrea”, ha appena auspicato Ben-Eliahu, ministro di Netanyahu. Perché “i palestinesi non sono un popolo” non sono nulla, come sostiene il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, quello che già un anno fa anticipava la strategia di Israele in forma di auspicio quando diceva che lasciar morire di fame due milioni di palestinesi “potrebbe essere giustificato e morale per liberare gli ostaggi”.
Dunque la guerra perpetua, la fame, lo sterminio. Ottant’anni fa, 2 dicembre 1948, Albert Einstein, Hannah Arendt e altri 26 intellettuali ebrei resero pubblica la loro denuncia sulla deriva del nascente Stato di Israele dove si predicava “un misto di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale”, e che il Partito della libertà, leader il futuro premier Manachem Begin, appariva “strettamente affine ai partiti nazista e fascista nei metodi, nella filosofia politica, nell’azione sociale”. E concludeva la lettera: “È nelle azioni che il partito terrorista tradisce il suo reale carattere: dalle sue azioni passate noi possiamo giudicare ciò che farà nel futuro”. Quel “noi” di allora siamo noi oggi. Il partito di Begin è diventato quello di Netanyahu. E quel futuro è adesso.
Il fascismo che è in loro
"Le sentenze sulla strage inchiodano l'Msi Proteggevano Bellini, Meloni non ha più scuse"
di Franco Giubilei
«C'è una sfilza di terroristi che arrivano tutti dall'Msi, chi proteggeva Bellini erano senatori del Msi, e la presidente del Consiglio comunque rivendica la sua formazione politica in quel partito». Mancano pochi giorni al 2 agosto, quando saranno quarantacinque anni dall'esplosione della bomba alla stazione di Bologna, e il presidente dell'Associazione familiari delle vittime Paolo Bolognesi torna con durezza ancora maggiore sulla polemica che l'anno scorso lo vide protagonista degli attacchi alla premier Giorgia Meloni.
Argomento, oggi come allora, il legame mai reciso fra la destra di governo attuale e il partito che fu di Giorgio Almirante, a sua volta imparentato – lo sostiene Bolognesi sulla base delle condanne definitive a Gilberto Cavallini, Paolo Bellini e ai mandanti della strage – con gli ambienti neofascisti da cui provengono i protagonisti di quell'evento terribile. È in questo clima che Bologna si prepara alla commemorazione del 2 agosto, con i discorsi nel piazzale della stazione e la partecipazione della ministra dell'Università Anna Maria Bernini.
Bolognesi, che dopo 29 anni sta per lasciare la guida dell'Associazione a Paolo Lambertini per raggiunti limiti d'età (ne ha quasi 81), intanto, rincara: «Ci sono tante altre cose passate in giudicato che inchiodano la presidente del Consiglio, che diceva che parlare di una genesi dei terroristi attraverso il partito di destra Msi metteva a rischio l'incolumità del Consiglio dei ministri».
Perché sente il bisogno di tornare sulla polemica con la premier?
«Perché mentre un anno fa c'erano sentenze d'appello, oggi quelle pronunce sono passate in giudicato, e adesso rispondiamo, in modo che così abbiamo già risolto il problema: parlo della condanna all'ergastolo di Gilberto Cavallini per il suo ruolo nella strage di Bologna e di quella di Paolo Bellini, oltre che dei mandanti».
E qual è il rapporto con la destra attuale?
«Bellini ha dichiarato più volte, senza essere mai smentito, che era infiltrato in Avanguardia Nazionale per conto di Almirante (allora segretario del Msi, ndr). Sempre Bellini era aiutato, quando si chiamava Da Silva, da uno o più senatori dello stesso partito. Siccome Giorgia Meloni diceva che il Movimento sociale è il suo partito di formazione, non deve prendersela se si parla di queste cose, perché sono i processi che le hanno portate alla luce. Un altro esempio? Carlo Cicuttini, allora segretario di una sezione dell'Msi a Manzano, in Friuli, telefonò ai carabinieri per una macchina sospetta che esplose, uccidendo tre militari: la strage di Peteano del 1972. Il Movimento sociale reperì 32 mila dollari per l'operazione alle sue corde vocali che ne rendesse la voce irriconoscibile».
Il 2 agosto dell'anno scorso la premier ha detto che i suoi attacchi erano ingiustificati e fuori misura.
«Gli attacchi sono venuti fuori dagli atti dei processi: se leggessero le sentenze dovrebbero ammettere che alcune persone del loro ex partito hanno avuto un passato di un certo tipo e che sono in sintonia con il mondo delle stragi».
Secondo lei ci sarebbe un rapporto fra le idee di Licio Gelli e la separazione delle carriere prevista dalla riforma della giustizia?
«Il Piano di rinascita democratica di Gelli, colui che ha voluto, organizzato e finanziato la strage di Bologna, prevedeva la separazione delle carriere per mettere la magistratura sotto il controllo dell'Esecutivo».
Ma questo stabilisce una relazione con l'operato del governo attuale?
«Dico solo che il progenitore della riforma è stato Gelli, che tutti i vertici dei servizi erano della P2 e sono quelli che hanno gestito il caso Moro, la strage di Bologna e l'uccisione di Piersanti Mattarella. Se ci dimentichiamo questi percorsi allora sono tutte fandonie. Quello di Gelli era un piano golpista».
Su cosa si fonderebbe la continuità fra il passato eversivo, il Msi e la destra attuale?
«Quella implicata nella strage è tutta gente che viene dal Movimento sociale e noi abbiamo una presidente del Consiglio, che ha giurato sulla Costituzione antifascista, che però non riesce a dirsi antifascista. Io ci vedo una continuità con quella gente: o la scarichi, oppure la continuità c'è. La premier d'altra parte rivendica con orgoglio di essersi formata nell'Msi».
Meloni ha anche detto, sempre rispondendole un anno fa, che i suoi attacchi mettevano in pericolo l'incolumità di chi è al governo democraticamente eletto.
«Io ho detto solo la verità (uno dei temi del discorso di Bolognesi era il mancato riconoscimento della matrice fascista della strage di Bologna, ndr), semmai l'incolumità era la mia, non la sua. Lei è a capo del governo, mentre io sono solo il presidente dell'Associazione familiari delle vittime della strage. Chi è l'indifeso, io o lei?».—
Come è umano lei!
Fantozzi va in Scozia
DI MARCO TRAVAGLIO
È falso che lo strepitoso accordo sui dazi Usa alla Ue siglato in Scozia da Trump con Trump davanti a Von der Leyen manchi di trasparenza. Ecco il verbale dello storico summit.
Ore 10. VdL raggiunge il golf resort di Trump a Turnberry camminando sulle ginocchia, per non sembrare troppo alta. Vorrebbe bussare alla porta, ma le dita le scivolano a causa della sudorazione a mille. L’usciere-parrucchiere-tinteggiatore di Trump sente il fruscio e apre: “Perché non ha bussato?”. E lei: “Non ho le mani…”. Lui le stacca di netto lo strato di lacca dalla cofana (“Sua Maestà è allergico”) e rovescia sul pavimento un pacco di ceci e chiodi invitandola a farci due passi, sempre carponi (“Sua Altezza gradisce le posture penitenti”).
Ore 11. VdL continua a scorticarsi le ginocchia in attesa di Trump, che fa tardi sul green.
Ore 11.30. Arriva Trump in tenuta da golf roteando una mazza in titanio. Ma poi abbassa lo sguardo, vede il sangue sul pavimento e risparmia all’ospite ulteriori sevizie. VdL ringrazia a nome dell’Ue: “Com’è umano, lei”. Lui prende posto su una poltrona in pelle umana (quella di Rutte, che gliel’ha donata con dedica “Al mio Paparino” scritta col sangue). Lei strappa il privilegio di sdraiarsi ai suoi piedi, a pelle di leone.
Ore 12. Inizia, serratissimo e a tratti drammatico, il negoziato. Trump: “Voi europei siete ladri e parassiti”. VdL: “È vero, Maestà, e anche usurai!”. Trump: “Rivoglio tutto indietro. Dazi al 15%”. VdL: “Non sarà poco, Altezza Reale? Facciamo il 20!”. Trump: “No, cara la mia bertuccia, sennò pure quegli invertebrati dei tuoi alleati ti fanno la pelle, e a me servi viva. Non sai i guai quando cambi la servitù al giorno d’oggi”. VdL: “È un bel presidente, un apostolo, un santo! Non so come sdebitarmi, Duca-Conte, ho la salivazione leggerissimamente azzerata”. Trump: “Tranquilla, Cita, troveremo il modo”. VdL: “Idea! Mio Re, vi compriamo anche 750 miliardi di gas e di armi, ovviamente a prezzo quadruplo. E ci metto pure una batteria di pentole antiaderenti per la sua signora, pardòn Regina”. Trump: “Ok, babbuina, ma facciamo prestino ché il golf mi attende. Vuoi tirare pure tu due pallette?”. VdL: “Io non mi permetterei mai di giocare, si figuri se mi permetterei di vincere, Sire”. Trump: “Dimenticavo: come la prenderanno le tre emme?”. VdL: “Mio Signore, emme in che senso?”. Trump: “Macron, Merz e Meloni!”. VdL: “Ah, quelli: parlano, parlano, poi digeriscono pure i sassi. Scattano sull’attenti perfino per me, si figuri per lei!”.
Ore 12.06. Dopo ben 6 minuti di corpo a corpo, VdL accenna a una riverenza da sdraiata. Trump le passa sopra: “Ops, scusa, credevo fosse il tappeto”. “Ma sono qui apposta! Se non l’avesse fatto lei gliel’avrei chiesto io, Santità!”.
L'Amaca
Quando il cervello non è acceso
di MICHELE SERRA
Putin ha dieci-dodici giorni per fermare la guerra», dice Trump (è necessario ricordarlo: è il presidente degli Stati Uniti). Uno legge, verifica che il virgolettato è fedele («dieci-dodici giorni», ha detto proprio così) e si domanda: ma perché non tredici-quindici, o sette-nove? Su quali dati, quali informazioni, quali valutazioni oggettive si appoggia, l’uomo più potente del mondo, per dire che i giorni a disposizione di Putin per «fermare la guerra» sono proprio dieci-dodici, non di più, non di meno?
Torna in mente una delle sue prime esternazioni da neo-eletto, «fermerò la guerra in Ucraina in 24 ore». E si torna non all’ipotesi, ma proprio alla certezza, che costui apra bocca a vanvera, a casaccio, a capocchia, tanto per dire, senza pensarci, senza farsi carico della responsabilità di quello che dice, forse addirittura senza capire, lui per primo, quello che sta dicendo.
In piena effrazione del buon principio, appeso in tanti uffici, tanti luoghi di lavoro, “prima di aprire la bocca controllare che il cervello sia acceso”. E la cosa più triste — che ci tira in ballo tutti quanti, uno per uno — è che noi siamo costretti a dedicare a questo blaterone inattendibile, sprovvisto di alcuna autorevolezza, di alcun carisma, di alcuna dignità al di fuori delle sue bombe atomiche, l’attenzione che non merita.
Trump è la nemesi della democrazia, la sua eutanasia. È il trionfo (legittimo) del peggiore, del meno serio, del meno morale, del meno rispettabile e del meno rispettoso, del più bugiardo, del meno riflessivo. Viene da dire: ce lo meritiamo, ma non è vero. Non ce lo meritiamo. Siamo costretti a subirlo per volontà altrui, ed è tutt’altra cosa.
lunedì 28 luglio 2025
Promessa
Ahperò!
Stipendi da fame e arretrati: l’attacco al lavoro non è finito
DI PIERGIOVANNI ALLEVA
Non se ne sono accorti in molti, perché vi è stata una sorta di congiura del silenzio della grande stampa e della televisione, ma nei giorni scorsi i diritti dei lavoratori italiani hanno corso un pericolo gravissimo. Quello di non poter più rivendicare una retribuzione adegeuata, come garantisce l’art. 36 della Costituzione, e di non poter più far valere diritti economici o di altra natura, arretrati e negati dal datore di lavoro, senza rischiare rappresaglie, a cominciare dalla perdita del posto di lavoro. Questo gravissimo pericolo era il portato di un emendamento legislativo, a doppio contenuto, introdotto di soppiatto da Fratelli d’Italia, in persona del senatore Pogliese (ma con l’appoggio di tutto il centrodestra) nella legge di conversione del dl Ilva, cioè di una legge riguardante tutt’altro argomento. Una modifica micidiale, e che è stata evitata da una insurrezione dei sindacati e dei partiti progressisti, ma che non è ancora scongiurata: Pogliese, nel ritirare l’emendamento – formalmente per motivi tecnici – ne ha annunziato la prossima ripresentazione. E poiché il pericolo è incombente, conviene spiegare quali fossero i contenuti. Si tratta di due maxi-modifiche davvero centrali.
La prima riguarda la garanzia per il lavoratore di poter reclamare i suoi diritti, retributivi o di altra natura, anche durante il rapporto di lavoro senza tema di rappresaglie, aperte o mascherate. La regola vigente sin dagli anni 70 era tanto semplice quanto efficace: se il lavoratore non è tutelato dal diritto alla reintegra in caso di licenziamento ingiustificato, i suoi diritti non si prescrivono in corso di rapporto, sicché egli può rivendicarli dopo la sua fine anche se risalenti a molti anni prima. Il che, una volta, accadeva per i lavoratori addetti alle imprese con meno di 16 dipendenti, perché, nelle imprese di maggiori dimensioni, vi era, appunto, la regola (dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori) di reintegra nel posto in caso di licenziamento illegittimo, e si comprendeva, quindi, che le pretese potessero essere avanzate nell’ordinario termine prescrizionale di cinque anni. Poi, però, l’aggressione neo-liberista ai diritti dei lavoratori (con la legge Fornero e il Jobs Act) ha “semi demolito” l’art. 18, ancora vigente, per quel che ne è rimasto, solo per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, mentre per gli altri (che saranno maggioranza) la reintegra è un caso eccezionale.
Di questa mutata situazione ha preso atto, da anni, la giurisprudenza della Cassazione, la quale ha stabilito che, poiché anche nelle imprese con più di 15 dipendenti la reintegra non è più prevista, anche per i lavoratori di quelle imprese deve valere la regola della sospensione della prescrizione delle pretese in corso di rapporto. Ed esattamente contro questa giustissima regola giurisprudenziale è diretto l’emendamento Pogliese: prevede che, nelle imprese con più di 15 dipendenti, la prescrizione dei diritti decorra anche in costanza del rapporto di lavoro, anche se la reintegra si applica solo a casi limitati. Ma non è tutto, addirittura quel testo costruisce una vera e propria “trappola” per i lavoratori che debbano rivendicare diritti: oltre a doverlo fare con lettera di messa in mora entro i cinque anni della nascita del diritto, devono poi agire in giudizio nei successivi 180 giorni, così da “mettere la testa sotto la mannaia”, visto che oggi il diritto alla reintegra non è più garantito. Ed a tale garanzia occorre tornare, come è stato fatto per i dipendenti pubblici che godono di una perfetta garanzia di reintegra. La parità di diritti tra lavoratori pubblici e privati è stata una delle pagine più belle della legislazione degli anni 90.
La seconda modifica non è meno grave, è un attacco alla Costituzione, e al suo art.36, e alla giurisprudenza della Cassazione, che ha fissato un principio di grande civiltà: che la garanzia costituzionale della retribuzione adeguata è sufficiente e superiore a qualsiasi altra fonte sia di legge ordinaria che di contrattazione collettiva, anche se sottoscritta da sindacati comparativamente più rappresentativi. Quest’ultima può valere da “indicatore sociale” cui il giudice si ispira, tenendo conto di altri fattori economico- sociali e, in primo luogo, di ritardi e “debolezza” della contrattazione stessa nei confronti dell’inflazione e dell’impoverimento progressivo.
Dunque, il giudice può valutare l’adeguatezza dei minimi della contrattazione alla luce dell’art. 36 della Carta e non solo intervenire ai sensi di tale norma, come vorrebbe l’emendamento Pogliese, quando esista “grave inadeguatezza” degli standard retributivi e senza possibilità – si noti – di liquidare arretrati. È un tentativo davvero goffo di “mettere le mutande” all’articolo 36, di dubbia costituzionalità, e che conferma l’astio di questa destra verso la Carta nata nella Resistenza. Occorre la massima vigilanza: sono davvero in gioco libertà e garanzie costituzionali di prima grandezza.
domenica 27 luglio 2025
Auguri Mick!
Constatando
Siamo simili ai britannici e ai sovietici che negli anni ‘40 intercettarono le comunicazioni dei tedeschi, impegnati a sterminare gli ebrei; siamo simili a loro perché dinnanzi a questo genocidio, facciamo finta di niente, eccezion fatta per dichiarazioni mielose e stucchevoli che lasciano il tempo che trovano, alla Tajani per intenderci. Addirittura paesi carogne, come il nostro, capeggiati da quel pusillanime e psicolabile del Biondastro, continuano ad armare lo stato canaglia d’Israele.
Disconosco questa politica mondiale fatta di soprusi ed affarismo: non rispetterò più l’Onu, Circo Mondiale, né la guerrafondaia Nato; non faccio più parte di questa Europa soffocata dalla burocrazia ed impelagata in oscure manovre belliche; il presidente attuale degli Stati Uniti è un pagliaccio, il nostro governo una spelonca di affaristi destrorsi invasati che ci ridicolizzano davanti alla Ragione, alla Civiltà. Non riconosco più nessun potere politico, vedo nell’anarchia una speranza, nell’attesa di una sommossa generale di menti libere che scacci i mercanti dal tempio. Sempre che del tempio ne rimanga qualcosa!
Obbrobri
L’inutile e il vomitevole
DI MARCO TRAVAGLIO
I pacchetti di sanzioni Ue alla Russia sono 18, quasi uno a bimestre nei 41 mesi di invasione dell’Ucraina. Quelli a Israele sono zero in 21 mesi di mattanza nella Striscia di Gaza. Però, ora che i palestinesi ammazzati sfiorano ufficialmente i 60 mila (2.850 al mese, 95 al giorno, 4 all’ora), gli intrepidi governanti europei tirano fuori le palle e le unghie con mosse a dir poco temerarie. Macron, il più spericolato, annuncia per la quarta volta in un anno e mezzo che riconoscerà lo Stato palestinese, ma non subito: a settembre. Tanto c’è tempo e, nell’attesa, potrà annunciarlo e finire sui media un’altra dozzina di volte per non far parlare del suo governicchio in coma e dei suoi consensi da prefisso telefonico. E poi annunciarlo ed eventualmente farlo non costa nulla e non serve a nulla. L’hanno già fatto 147 Paesi del mondo, i tre quarti dei membri dell’Onu, ma lo Stato palestinese non s’è visto: continuerà a non vedersi ora che forse arriva pure Macron. Gaza è un cumulo di macerie e cadaveri, la Cisgiordania è infestata di 500 colonie ebraiche illegali, la Knesset vuole annettere tutto e né Israele né i palestinesi hanno leader rappresentativi disposti a parlarne: dove e come dovrebbe sorgere, di grazia, il famoso Stato?
Comunque l’impavida Meloni spiega che “i tempi non sono ancora maturi”: cioè non ha neppure il coraggio di fare una cosa inutile, figurarsi quelle utili tipo chiedere sanzioni o smettere di fornire armi. E Tajani dice che i palestinesi devono prima riconoscere Israele: non gli hanno detto che lo fece l’Olp di Arafat a Oslo nel 1993, appena 32 anni fa. Ma lui è solo il ministro degli Esteri e non è tenuto a saperlo. In compenso il governo, insieme al Pd e ai centristi, ha appena sgominato un direttore d’orchestra russo, quindi per quest’anno ha la coscienza a posto. Quando tutto sembra perduto, ecco levarsi alta e forte la voce dell’Europa grazie alle due lady di ferro. Von der Leyen tuona tutta d’un pezzo: “Scene intollerabili, situazione umanitaria abominevole”, poi riprende a spruzzarsi la lacca. E Kaja Kallas, inflessibile: “Situazione catastrofica, tutte le opzioni su Israele sono sul tavolo”, poi torna a preparare il 19° pacchetto di sanzioni alla Russia. A grande richiesta tornano a esibirsi i Volenterosi: Merz, Starmer e Macron nientepopodimeno “si telefonano” e poi le cantano chiare a Netanyahu: “Catastrofe umanitaria inaccettabile, deve finire ora”. Non domani: ora. Così impara. Quando ci vuole, ci vuole. Bibi, che un mese fa Merz ringraziò perché “fa il lavoro sporco anche per noi”, ci rimane male. Ma poi si rincuora quando i tre mitomani si dicono pronti a “lanciare su Gaza casse di aiuti dagli aerei”. Così qualche palestinese affamato glielo ammazzano pure loro: il lavoro sporco mica può farlo tutto lui.
L'Amaca
Come rugiada al primo sole
di MICHELE SERRA
In un vecchio monologo (uno dei primi della sua grande carriera teatrale) Giorgio Gaber raccontava il piacere di essersi perso spettacoli o film o libri che era considerato socialmente indispensabile avere visto, o letto. Qualcosa di simile mi capita (da molti anni) con il gossip, nei confronti del quale ho sviluppato un fiuto da segugio: lo riconosco a distanza, ne intuisco l’incombere e clicco oltre, o volto pagina, alla velocità della luce.
Un sollievo istantaneo mi pervade. Essermi perso quella vicenda, non saperne nulla, viene percepito dal mio sistema neurologico come un’acquisizione. Una crescita umana.
Esempio: l’occhio, passando velocemente in rassegna i titoli, coglie il nome di Raoul Bova, più un paio di nomi femminili che mi scuso di non avere memorizzato (ricordo quello di Bova solo perché era già solidamente memorizzato nella mia testa). La cosa si ripete per più giorni consecutivi. La mia fuga da quella vicenda è ogni giorno più veloce — ormai un automatismo — così da potervi dire, con un certo orgoglio, che non solo non so niente, ma mai niente saprò, di qui all’eternità, di cosa è accaduto tra le tre persone in oggetto. Chi ha lasciato chi, chi si è messo con chi, chi ha postato che cosa: assolutamente niente.
Ancora più facili da evitare i casi, sempre più numerosi, nei quali i protagonisti (e le vittime) del gossip sono a me sconosciuti, tipo “Uber Pagnacca accusa Yolanka Meraviglia”, o “Charlene diProvini delusa da Max Cucuzza si consola con il meteorologo di Tele Norba”. In quel caso anche i nomi, nel momento stesso in cui li leggo, svaporano come la rugiada al primo sole.
sabato 26 luglio 2025
Stipendificio
Ricci e gli altri che usano la ue come parcheggio e stipendificio
DI DANIELA RANIERI
Della vicenda personale e politica dell’europarlamentare Matteo Ricci, il cui agire da sindaco di Pesaro dal 2014 al 2024 è all’esame della magistratura, non si è sottolineato abbastanza un aspetto: è normale, e intendiamo eticamente irreprensibile, che un politico eletto dai cittadini per andare a Strasburgo, a (sperabilmente) rappresentare i loro interessi nel consesso europeo, sia pronto senza alcuna remora ad abbandonare quell’incarico dopo appena un anno per candidarsi alla guida della Regione da cui proviene?
Posto che il Parlamento europeo non conta niente e che le decisioni importanti di politica economica ed estera della Ue sono prese dalla Commissione, o meglio dalla sua capa tedesca Von der Leyen il cui precipuo compito è, ormai si è capito, quello di portarci alla guerra con Mosca, smontando “se necessario” (cit. Segretario della Nato Rutte) lo Stato sociale per riarmarci allo spasimo, non sarebbe stato più serio da parte di Ricci finire il mandato, rinunciando in tempo di guerre e genocidi alle ambizioni personali di diventare un “governatore” locale? Oppure: se proprio si sentiva di avere una missione come presidente di Regione, non poteva fermarsi un giro e non presentarsi alle Europee l’anno scorso? Comprendiamo la necessità di mantenersi finanziariamente, ma ci sono altri nobilissimi mestieri, oltre all’europarlamentare, che avrebbero consentito all’ex sindaco di non morire di fame fino a oggi.
Ricci è stato eletto con 106.482 preferenze: per quanto suoni stravagante, centinaia di migliaia di persone sono uscite di casa, l’8 e il 9 giugno 2024, per andare a mettere una croce su una scheda perché lui facesse l’europarlamentare. È corretto buttare questi voti nella spazzatura per dirigersi verso nuovi lidi professionali? C’è da presumere che, se dovesse ritirarsi dalla corsa alla Regione Marche perché indagato per concorso in corruzione, Ricci abbandonerà anche il seggio a Strasburgo per coerenza; o no? Non si offendano, poi, i nostri politici, se diciamo che usano il Parlamento europeo come un sondaggio su larga scala, o peggio come un parcheggio, intascando un rispettabile stipendio mensile di 15 mila euro netti più indennità varie e svolgendo la propria funzione pubblica come una seccante corvée per la Patria, a cui sperano di tornare presto per usufruire della sua nota generosità. Non che la casta dei parlamentari europei sia famosa per scaldare i cuori degli italiani: Salvini, vabbè, si recava a Strasburgo solo per collegarsi da Strasburgo con le Tv che lo ospitavano giorno e notte; Calenda fu eletto coi voti del Pd nel maggio 2019: ad agosto era già uscito dal Pd e si era già fatto un partito suo, continuando beninteso a fare l’europarlamentare del Pd, e un anno dopo, in preda a una delle sue famose bizze da ricco, già si era stufato e gli era preso l’uzzolo di fare il sindaco di Roma, pretendendo naturalmente l’appoggio del Pd. Meloni e Schlein, addirittura, si candidarono sapendo fin dall’inizio che non avrebbero mai accettato il seggio, solo per contarsi e pompare i voti al proprio partito.
Forse non è del tutto campata in aria l’impressione che i parlamentari europei siano punti di riferimento più per le lobby, specie le più danarose, che per i cittadini (vedi la Picierno, sempre Pd, che riceve la lobby sionista Israel Defense and Security Forum, che sostiene la colonizzazione illegale della Cisgiordania; e citiamo solo di striscio il cosiddetto Qatargate, lo scandalo di corruzione e riciclaggio in cui erano coinvolti anche italiani). Tutto a riprova che quando questi politici si disperano per l’astensionismo fingono, perché a loro va benissimo così, finché non c’è un quorum sulle elezioni. Basta sfangarla. Alle ultime Europee c’è stata in Italia un’affluenza del 48,31%, record di astensionismo: vista la faccia tosta di questi miracolati, è pure troppo.
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