domenica 31 ottobre 2021

Stronzi!



Questi coglioni esasperanti, questa feccia senza alcuna memoria, tristi figuri di un’era irriverente ed annacquata nella morale e nella dignità, idioti dallo spessore culturale nullo, angosciante nella vacuità più becera, cervici mononeurotiche indegne vivere nel sociale, hanno avuto la brillante idea di manifestare contro stokazzo di green pass indossando delle pettorine ricordanti lo sterminio degli ebrei, per accumunare la ghettizzazione, a parer loro, a cui sono sottoposti all’ecatombe dell’Olocausto. Stronzi! Vergognatevi di come l’idiozia vi ha ridotto! Stronzi!

Per il bene nostro…


Il sonnecchiante Joe a Roma con cinquanta auto di scorta, ricorda l’attore Di Caprio che girava il mondo per portare le sue idee ambientaliste a bordo del jet personale. Se si potesse calcolare quanta CO2 hanno sparato in aria i cosiddetti grandi del pianeta durante il G20 romano, con annesse pie e caritatevoli First Ladies anch’esse girovaghe con codazzi, e dal quale il nostro Dragone sperava di portare a casa risultati soddisfacenti per sperare in una riduzione dell’emissioni nell’atmosfera, all’unisono il rimbombante urlo di noi minori sarebbe sicuramente, lo dico in spezzino:  “Steve a ca’ vostra!”
Indiani e cinesi se ne sbattono la grolla in ambito emissioni, continuando a sputare merda in aere fino ad almeno il 2060. Tutti quelli che sulla carta appaiono come solerti nella riduzione, lo fanno solo perché fiutano il business. 
Probabilmente non ci sarò più, ma avverto sin d‘ora le parole che l’umanità intera rivolgerà un giorno a “lor signori”, identiche a quelle pronunciate dal secondo al comandate Tupolev nel film Caccia all’Ottobre Rosso: “Stronzi! Ci avete ammazzati tutti!”

Errori e caso per il nostro bene

 


C’è qualcosa nel “caso” che da sempre m’appassiona, avvertendo come misteriosamente da piccoli errori si possano scoprire meraviglie nascoste, utili per migliorare la vita sul sassolino blu.
Partendo dalla madre di tutte le disattenzioni, Fleming nel 1928, il quale inavvertitamente lasciò cadere in alcune piastre di coltura il fungo Penicillium chrysogenum, scoprendone l’azione di inibizione alla crescita dei batteri, anticamera per la Penicillina che negli anni successivi salvò la vita a milioni di persone, si arriva sino alle scoperte casuali in campo gastronomico, che tanto han fatto e faranno bene agli umori dell’umanità, come narra Mauro Bassini oggi su La Nazione:
“Tra i più celebri c’è la tarte tatin, la torta di mele capovolta in pasta brisée, che è un classico della pasticceria francese. Una delle sorelle Tatin, mitiche ristoratrici dell’Ottocento, preparò una torta di mele dimenticando di rivestire la tortiera con la pasta, prima di mettere le mele tagliate a pezzetti. Se ne accorse e, per tentare di rimediare all’errore, coprì il tutto con un velo di pasta. Poi accese il forno. A cottura finita rovesciò la torta e la servì. Quelle mele magnificamente caramellate ebbero un successo immediato. La corbelleria si trasformò così in un colpo di genio. 

Qualcosa di simile accadde a Milano qualche secolo prima. La storia (o la leggenda, se preferite) racconta che in una vigilia di Natale il cuoco degli Sforza bruciò il dessert destinato a Ludovico il Moro. Un garzone di nome Toni corse ai ripari, lavorando l’impasto avanzato con quel che trovò: uvetta, canditi, uova, farina. Il garzone divenne una celebrità. Quel dolce, apprezzatissimo dagli Sforza, prese perfino il nome del giovanotto: pan de Toni, che divenne poi panettone. 

Un altro apprendista alle prime armi è passato alla storia della cucina come inventore della crêpe suzette. Si chiamava Henri Charpentier ed era un allievo del grande Escoffier in uno storico e lussuoso locale della Costa Azzurra: il Café de Paris di Montecarlo. Anno 1895. Il principe di Galles, futuro re Edoardo VII, ordinò una crépe. Il ragazzotto, emozionatissimo, mise troppo liquore nella salsa che prese immediatamente fuoco. Sudando freddo, il maître decise di servire ugualmente il dessert. Il principe, estasiato, propose di chiamare quel piatto crépe Suzette (che non era il nome dell’apprendista, ma dell’unica donna seduta al suo tavolo). La storia della pasticceria è ricca di fortunati errori. 

La ganache di cioccolato nacque da un goccio di latte caduto per errore in un impasto di cacao. E pare che l’origine della pastiera napoletana si debba a un distratto pasticciere che dimenticò di mettere la farina nell’impasto di una torta di mandorle. Verità? Leggenda? Comunque sia, la storiella si tramanda da infinite generazioni. 
Tanti capolavori sono figli di un errore, tanti altri sono frutti del caso. È noto che il ghiacciolo nacque in America all’inizio del secolo scorso. Meno noto è il suo creatore, un ragazzino di 11 anni che si chiamava Franck Epperson e abitava a Oakland. Una notte d’inverno del 1905 dimenticò all’aperto un bicchiere di acqua e soda con dentro un bastoncino che aveva usato per mescolare il contenuto. Il giorno dopo estrasse dal bicchiere il primo ghiacciolo della storia e molti anni più tardi, nel 1924, ebbe l’ottima idea di brevettare la sua scoperta. Il caso, o qualcosa del genere, ha pilotato anche la fortuna della Coca Cola, nata come medicinale e diventata poi la bibita più venduta nel pianeta.”
Ricordiamo queste disattenzioni culinarie edificanti perché oggi salutiamo, commossi per quanto ha donato a miliardi di papille gustative, Ado Campeol, l’inventore, Dio lo abbia in gloria, del Tiramisù; il “caso” infatti volle che durante la preparazione di un gelato alla vaniglia, allo chef cascasse un po’ di mascarpone nella ciotola delle uova e zucchero e, assaggiandone dal cucchiaio, rimase estasiato dal sapore che ben ricordiamo, il capostipite delle prelibatezze. Lo chef Roberto Linguanotto e la moglie di Campeol, Alba, provarono quell’impasto su savoiardi bagnati col caffè, facendo detonare nelle ugole ancor oggi stordite, il primo “Tirame su”, divenuto negli anni seguenti l’ancora oggi estasiante Tiramisù.
Riposa in pace Maestro! E grazie per l’errore!

Fantastica!!




Dialoghi

 


Giovani travagliati

 

Lo fanno per i gggiovani
di Marco Travaglio
Basta contare le 50 (cinquanta!) auto blindate sputazzanti del corteo di Biden che da giorni sfrecciano per Roma, senza calcolare quelle degli altri 19 presunti “grandi”, delle loro first lady, più tutte le vetture e gli elicotteri delle forze dell’ordine, per capire che né questo G20 né gli altri summit faranno mai nulla contro i cambiamenti climatici. Perché chi dovrebbe risolvere il problema è esso stesso il problema. Eppure, se c’è un tema che potrebbe avvicinare i giovani alla politica, è proprio l’ambiente, vedi il successo dei Fridays For Future. Ma la postura di “quelli che contano” verso quei giovani è plasticamente effigiata dall’ultima intervista del ciarliero e inconcludente ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, secondo cui “Greta dovrà evolvere”, perché “lei fa ‘bla bla bla’”, mentre lui e il governo han “voglia di accelerare”. Sul nucleare, sull’idrogeno blu, sul gas e su tutte le energie sporche e non rinnovabili. E ovviamente sulla plastica, visto che la Plastic Tax è stata rinviata un’altra volta: un altro bel messaggio ai giovani, come se non bastassero quelli di Draghi e della sua consulente Fornero sulle pensioni (“pensiamo ai giovani, ai lavoratori di domani”).
Farà piacere, ai giovani, scoprire di essere un’arma di distrazione di massa e un oggetto contundente contro i loro padri, madri e nonni. E figurarsi la loro soddisfazione nell’apprendere che chi vuole riallungare l’età pensionabile e tornare al contributivo secco lo fa per loro. Soprattutto se a dirglielo sono i partiti di destra e di sinistra, che da 25 anni sfornano precarietà a piene mani (dalla legge Treu alla Biagi-Maroni), e i Migliori che hanno svuotato il dl Dignità, cancellato dal Pnrr il salario minimo, smantellato il cashback e il Bonus 110% (fondamentali contro l’evasione e il lavoro nero) e trasformato il Reddito di cittadinanza da incentivo ad assumere a tempo indeterminato in istigazione al precariato (d’ora in poi le 5 mensilità di Rdc per ogni assunto non andranno più solo a chi assume con contratti stabili, ma anche a chi lo fa per pochi giorni). Questo cocktail micidiale di lavori saltuari e spesso al nero, salari da fame senza tetti minimi e sistema contributivo senza deroghe per i periodi di inattività involontaria avrà un solo risultato: “il 60% di chi è entrato nel mondo del lavoro negli anni 90 avrà una pensione inferiore alla soglia di povertà” (Felice Pizzuti, docente alla Sapienza), mentre chi ci è entrato dopo ha ottime probabilità di non vederla proprio. Il tutto grazie a chi ha usato e continua a usare “la previdenza come un bancomat” (ancora Pizzuti) e i giovani come manganelli per menare gli anziani. Se chi li nomina invano dovesse pagare ogni volta una tassa, saremmo tutti miliardari.

sabato 30 ottobre 2021

Dal Summit

 


Si sa, eccome se si sa!



Perché la sorte, si sa, è peripatetica!

La fanno, la fanno!

 


Fantastica!

 

Ddl Zan affossato? colpa di Pd-5s che l’han votato
DI DANIELA RANIERI
In questi giorni è diventata mainstream un’opinione che prima viaggiava solo in qualche canale criptato del dark web o in certi consessi alcolici della Garfagnana, dopo il nocino: se una legge approvata alla Camera non passa al Senato, la colpa non azzoppa la legge al Senato, ma di chi l’ha proposta, sostenuta e votata in entrambe le Camere esattamente come aveva detto di fare. A sostenere la bislacca tesi non è solo Renzi (non ci sarebbe da scriverci un editoriale, non essendo una notizia lo stato in cui versa), insieme a tutta l’amorfa pletora dei “renziani”, buoni solo a copiaincollare i tweet a pappagallo del capo; ma fior di analisti e commentatori, secondo cui la colpa del leggicidio Zan è di Pd e 5Stelle, e niente affatto dei renziani, che la stessa legge volevano modificarla.
Così accade che gente studiata imiti il vocabolario primitivo dei complici della destra in fondi di un certo spessore analitico: Se Renzi – che non ha votato in Senato, anche se sarebbe pagato per quello, perché momentaneamente impossibilitato causa impiego concomitante in Arabia Saudita – e i suoi emissari dicono che Pd e 5Stelle portano la “responsabilità morale e politica” di aver voluto “forzare” e “mettere le bandierine” con “arroganza”, Stefano Folli su Repubblica dice che il Pd ha voluto fare una “prova di forza” e un “braccio di ferro” rifiutandosi di modificare la legge secondo i desiderata di Renzi. Anzi, fa di più: invita a chiedersi quale fosse “la strategia del Pd”, e a dirla tutta “non è del tutto chiaro” nemmeno “l’obiettivo di Enrico Letta”, il quale forse non voleva che passasse la legge scritta dal deputato del suo partito Alessandro Zan, ma voleva perdere “per coprire problemi interni sia al Pd sia all’alleato 5Stelle”, e magari “rilanciare una battaglia più generale contro i renziani (accusati di boicottaggio)”. Poverini, è inspiegabile che alcuni abbiano pensato a loro come ai principali tra i 16 franchi tiratori che a scrutinio segreto hanno votato con la destra: un partito fondato da un politico di così preclara lealtà! Il Pd avrebbe dovuto fare un “compromesso” e una “trattativa”: una trattativa Pd-Renzi-La Russa-Pillon ed erano tutti contenti.
L’ipotesi che a Renzi del ddl Zan non fregasse niente dall’inizio ma si sia avventato su un suo punto, quello sull’identità di genere, per avere come al solito qualcosa su cui esercitare la sua volontà di prepotenza e dimostrare quanto il suo partitello valga in Parlamento a dispetto di quanto poco valga fuori, oltre che per godere della disfatta del Pd, non sfiora i commentatori.
L’opinione corrente è corroborata da interviste a personaggi come il senatore Marcucci, che parla di “gestione fallimentare” da parte del Pd, che sarebbe il suo partito; cioè, il Pd per non essere fallimentare deve ascoltare Renzi, che l’aveva portato al 18% e in proprio viaggia sotto il 2.
Letta intanto sta per fare sui giornali la stessa fine di Zingaretti. Come tutti sanno, Zingaretti si è dimesso dopo essere stato insultato per mesi perché sosteneva il governo di cui faceva parte, invece di dar retta ai capricci di Renzi come tutti i giornali auspicavano. Così è nato l’attuale governo: il sistema confindustrial-editoriale sperava che gli elettori si sarebbero sorbiti il beverone di una maggioranza con tutti dentro, con Renzi salvatore della Patria per “aver mandato a casa gli incompetenti e aver portato Draghi” (così dice ancora lui), solo che le cose non stanno andando secondo i piani. Conte è ancora il leader di partito più gradito e Renzi il meno gradito dagli italiani, che piuttosto che dire di votare per lui si tranciano la lingua coi denti come Zenone di Elea.
Nel coro di biasimo del perdente Letta, Folli offre un paio di idee: se Letta “intendeva vincere attraverso una prova di forza, forse non ha reso un buon servizio alla minoranza che voleva tutelare”. Ecco con chi deve prendersela la comunità Lgbtqia+, con Letta. E se proprio vogliamo andare a fondo della questione, “non si ricorda alcun gesto convinto di Conte a favore della legge” (non è chiaro che tipo di gesto, oltre a quello di esprimersi a favore di una legge “di civiltà contro ogni discriminazione”: forse avrebbe dovuto sfilare al Gay Pride inguainato in una bandiera arcobaleno). Ecco chi è stato: Conte, che non era in Senato (e non per presenziare a gettone ai trastulli megalomaniaci del principe che si fa ritrarre in cielo coi droni, ma perché non è in Parlamento).
Da ultimo, due curiosità irresistibili: Renzi, che il Senato lo voleva abolire come seconda Camera per infilarci dentro amministratori locali dotati di immunità e non eletti dai cittadini, scopre d’un tratto che il Senato gli serve eccome per fare i suoi giochini in vista dell’elezione per il Quirinale. Letta si è accorto che Renzi è un po’ di destra; gli manca solo accorgersi che Marcucci è renziano e che Venezia è cara e poi è a cavallo.

Pennivendoli alla Fracchia

 


Un tè con Jill il debutto da first lady di Serenella Draghi
Oggi visita ai Fori e al Colosseo, la colazione al Casino dell’Algardi e la Cappella Sistina La riservata consorte dovrà accompagnare le mogli dei Grandi e un paio di mariti
di Filippo Ceccarelli
Ebbene sì: anche i super tecnocrati, i più algidi, i più impassibili, prendono moglie. Nel caso di Mario Draghi, vuoi per privilegio vuoi per virtù, la condizione coniugale, che pure è in atto da quasi mezzo secolo, ha attraversato indenne sconvolgimenti tipo la fine della distinzione fra sfera pubblica e privata, così come sempre si è salvata dal cicaleccio gossippivoro che alimenta le perfidie di salotti e circuiti mediatici del potere romano.
Con tale premessa il debutto di Lady Draghi sulla scena del G20 – per restare a un’impostazione istituzional- maschilista – costituisce un evento e non solo per la mole di impegni: ieri tè con signora Biden; oggi visita ai Fori e al Colosseo, quindi colazione al Casino dell’Algardi e poi musei vaticani, Cappella Sistina e forse shopping; domenica Campidoglio, ari-musei, Terrazza Caffarelli, povera moglie di premier, cui la tradizione di questi terribili eventi affibbia il compito di sciropparsi le altre mogli dei Grandi (e, novità, stavolta anche un paio di mariti).
Eppure, da un altro punto di vista, si può forse dire che tale frenesia di incombenze ha chiamato a sé Maria Serena, Serena e/o Serenella Cappello, e già l’identità multipla, insieme all’autonoma riservatezza che finora l’aveva schermata, dice più delle poche notazioni che di lei si incontrano nelle cronache. Che si è dedicata allo studio della letteratura inglese; e che proviene da una antica famiglia di patrizi veneti. A quest’ultimo riguardo nessun giornalista resiste alla tentazione di ricordare la figura di sua antenata, Bianca Cappello, che nel cinquecento andò in moglie (anche) al Granduca di Toscana; ma quasi nessuno, a parte la benemerita Wikipedia , aggiunge che Bianca e il Granduca fecero una pessima fine, probabilmente avvelenati.
Sempre dagli archivi, in mancanza di meglio, filtrano un paio di foto e qualche ricordo. La prima immagine, recente, è dei coniugi Draghi al supermercato, nel carrello un paccone di croccantini per il bracco di casa, Buvech. Si conobbero da giovani, in montagna, e si vede che sono ancora molto uniti. La seconda foto risale a un G20 di ministri economici in Puglia e fuori dal teatro Piccinni lei gli sistema i capelli e lui sorride, cosa che in pubblico i tecnocrati si vietano fermamente. In quell’occasione testimonianze riferiscono che a Polignano, in un momento di relax, ha cantato con altri una canzone di Modugno e che a Bari, nella cripta della cattedrale di San Nicola, si è distesa a pregare per terra, al modo degli slavi. “Serena”, infine, ha nome la società che conserva il patrimonio della famiglia Draghi.
Ciò detto, molto lascia pensare che questo debutto se lo sarebbe volentieri risparmiato. E tuttavia altrettanto, se non di più, autorizza a credere che quando il dovere chiama, e qui non si tratta tanto di far fare bella figura al marito, quanto di svolgere a suo modo un servizio per l’Italia, beh, l’imperativo, la coscienza, lo stile e comunque la scelta di famiglia – tecnocratica o titolata che sia – è di prendere un bel respiro e di mettersi a disposizione. E di farlo, si può aggiungere, sotto gli occhi del mondo, letteralmente, che per una persona rimasta sempre felicemente nell’ombra, non è la cosa più facile, esposta all’immane, improvvisa pressione degli sguardi.
Va da sé che le first lady sono ormai soggetti di primaria importanza nell’odierna vita pubblica, ben oltre l’obsoleta funzione accessoria e il Comitato della Croce rossa. Accendono la fantasia, nutrono l’immaginario, accorciano le distanze, offrono modelli. In tal senso, rispetto a un comando così estraneo ai “normali” codici della visibilità politica qual è quello di Draghi e del suo governo, ecco che l’esordio di Serena Cappello, può interpretarsi come l’ovvia concessione, il ragionevole riconoscimento e la necessitata sottomissione a quell’entità del tutto aliena ai canoni tecnocratici che è la democrazia del pubblico. Perché la vita, dopo tutto, è più astuta del potere – e in fondo aveva ragione Draghi quando sul suo futuro disse: «Chiedetelo a mia moglie».

venerdì 29 ottobre 2021

A “Lui”



A questo pensiero stupendo di Flaiano associo d’incanto “Lui” molto dedito, tra l’altro, alla querela, e di conseguenza non lo nomino. Ma gli calza a pennello come un vestito di alta sartoria, maremma araba!

Nitidi segnali

 


Ogniqualvolta i cosiddetti "grandi" della Terra decidono d'incontrarsi, stavolta a Roma, mi viene in cervice la constatazione di come lorsignori stiano al loro ruolo in modalità clownesca, nel senso che lo spiegamento di forze, incredibile e becero, per proteggerli è il segnale inequivocabile della loro lontananza dalla realtà quotidiana. Diecimila persone delle forze dell'ordine dislocate nella zona romana dell'Eur; il sonnecchiante Joe, arrivato ieri sera, sarà accompagnato da 40, dicasi quaranta, mezzi ultramoderni; è stata creata una zona larga chilometri accanto al luogo dell'incontro ove nulla potrà transitare, compreso gli aerei. 

Considerando il pericolo islamico, e anche su questo ve ne sarebbe da discutere, la domanda che mi pongo è la seguente: perché attorno a loro si è creata questa inavvicinabilità? Cosa li tiene forzatamente lontani dalle masse? 

Credo che tutto sia accostabile a quella malsana idea di capitalismo, deviato, adulterato, che abbiamo lasciato che prendesse il sopravvento su altre ideologie più consone all'essere umano visto nella sua interezza e unicità. Ci siamo lasciati abbindolare, delegando a pochi il destino di tutti. Esempio eclatante è il problema enorme del clima che sta mutando: non gliene frega nulla a questi zotici inani, essi non sono altro che teneri araldi del pensiero imperante in ogni dove: produrre con minimi costi, leggasi stipendi da fame, per alzare il famigerato PIL che porta ricchezze inaudite al 10% degli attuali abitanti la sfera blu. Travolgendo diritti, divaricando sempre più la già di per se vergognosa scala sociale, abbattendo ogni frammezzo di proteste e polemiche per il fine comune, inconciliabile con le emergenze ambientali. Una strada destinata al dirupo, al dissolvimento di ogni buon proposito di comunanza d'intenti. Radunatevi pure, senza di noi, per parlare di fuffa per asini. Che siete voi tutti!   

Sagge parole Piero!




Verso la fine

 


Se un giorno un asteroide colpirà questo disastrato pianeta, una mano l'avrà data questa influencer di 'sta ceppa, agghindata e con viso trasmettente quella insalubre ed irrefrenabile voglia di apparire, rotore per tante idiozie obnubilanti la socialità. La poveretta decerebrata, seguita da centomila allocchi, ha pensato bene di immortalarsi davanti alla bara del padre, quale simbolo del degrado che attanaglia sempre più il sassolino blu. Provo pietà e ribrezzo, non dimenticando naturalmente, il canonico vaffanculo!

Allocchismo dragoniano

 


Peggio di così!

 


Sala di cemento

 

Tutto come previsto: sì di Sala a San Siro (ma solo dopo il suq)
DI GIANNI BARBACETTO
Come avevamo scritto in questa colonna già il 22 ottobre, il sindaco Sala ha deciso di dire sì all’operazione San Siro e questa sarà la sua prima mossa di rilievo dopo la riconferma a Palazzo Marino (“Trionfo” al primo turno, hanno scritto i giornali, in realtà risultato del voto di un solo milanese su quattro). Avevamo visto giusto. In politica le decisioni divisive e potenzialmente impopolari si devono prendere lontano dalle nuove elezioni e magari sfruttando l’effetto “luna di miele” dei primi cento giorni. Sala aveva già deciso, naturalmente, prima delle elezioni in cui è stato rieletto, e Milan e Inter lo sapevano. Ora c’è da fare un po’ di scena, un teatro per gli allocchi, una trattativa per i gonzi. In verità, un mercato dei tappeti: Milan e Inter hanno chiesto mille per ottenere cento. Sala lo sa, e si presta al suq. Da mesi il venditore del tappeto “cemento a San Siro” (Paolo Scaroni, presidente del Milan) e il compratore (il sindaco Sala) stanno facendo finta di trattare, di alzare le richieste, di abbassare il prezzo, di rilanciare, di allontanarsi con sdegno, di offrire un te alla menta, di riproporre l’offerta e così via. In un suq di Marrakech non saprebbero fare di meglio. Entrambi sapevano fin dall’inizio di questa pantomima che prima o poi ci sarebbe stato un punto di caduta, che il Meazza sarà abbattuto, che i permessi per il nuovo stadio saranno concessi, che – soprattutto – saranno costruiti nuovi edifici per oltre 150 mila metri quadrati di superficie lorda. Ed entrambi sanno fin dall’inizio che lo stadio è una scusa: potrebbe essere rinnovato, con minor spesa, il Meazza. Ma costruire il nuovo stadio – per cui non è stato neppure ancora scelto il progetto! – è l’innesco necessario per poterci costruire attorno 77 mila mq di spazi commerciali, 47 mila di uffici, 12 mila di alberghi, 9 mila di intrattenimento, 4 mila di centro congressi, oltre a 2,7 mila di museo dello sport e 1,3 mila di attività sportive. Il calcio non c’entra nulla: lo stadio a Milano già c’è, è la “Scala del calcio”. Ma abbatterlo serve per dare il via a una gigantesca operazione immobiliare, un affare da 1,2 miliardi di euro, che ridarà fiato ai traballanti bilanci di Milan e Inter, club di calcio che si trasformeranno in sviluppatori immobiliari.
Ora l’ultima parte del suq sarà in pubblico, la (falsa) trattativa avverrà sotto gli occhi attenti dei giornali compiacenti che scriveranno: oh com’è bravo il sindaco, che buon prezzo è riuscito a strappare per il “tappeto San Siro”! Un affarone! Possiamo già prevedere tappe e temi del mercato dei tappeti. E i comunicati finali di gioia e trionfo. Diranno: abbiamo salvato il Meazza! Perché resterà un triste moncherino, inutilizzabile per il calcio, utile solo per conservare la memoria come rovina, relitto, rottame; e per farci qualche shop turistico ed ennesimo localino milanese. Diranno: abbiamo ridotto la cementificazione! Perché, certo, partendo da un indice di edificabilità dello 0,70, poi sceso a 0,51, ci si fermerà a un indice forse un po’ più basso, ma vedremo se pari a quello che il Piano di governo del territorio (Pgt) di Milano impone ai comuni mortali (0,35). Diranno: ci sarà più verde per il quartiere! Ma continuerà il consumo di suolo di cui la Milano di Sala è primatista. E dal cantiere usciranno 1,8 milioni di metri cubi di materiale da scavo, con 153.312 viaggi di camion, 188.060 metri cubi di materiali da demolizione, con altri 18.806 viaggi, 658.250 metri cubi di materiale per le nuove costruzioni, con ulteriori 65.826 viaggi: sarà la sagra degli inquinanti, del Pm10, delle polveri sottili. Molto green! Diranno (e questo è il coniglio che uscirà dal cappello di Sala il mago): i due club offriranno risorse per risanare le case popolari di San Siro! Così dovremo anche dire a Scaroni, con la voce di Giandomenico Fracchia: “Grazie, com’è umano lei!”.

giovedì 28 ottobre 2021

Luciano il Saggio


“Il tempo è un’emozione ed è una grandezza bidimensionale, nel senso che lo puoi vivere in due dimensioni diverse: in lunghezza e in larghezza. Se lo vivi in lunghezza, in modo monotono e sempre uguale, dopo sessant’anni avrai sessant’anni. Se invece lo vivi in larghezza, con alti e bassi, innamorandoti e facendo pure qualche sciocchezza, allora dopo sessant’anni avrai solo trent’anni. Il problema è che gli uomini studiano come allungare la vita, quando invece bisognerebbe allargarla”.

(Luciano De Crescenzo)

Settennato vicino

 


Daje Daniè!

 

Draghi sfrutta i giovani come scudo per i tagli
di Daniela Ranieri
Un bel po’ di anziani ce li siamo tolti di mezzo col Covid, e già quello è un bel risparmio per le casse dello Stato; ma qualcuno è sopravvissuto e francamente costicchia, per l’establishment confindustriale governativo migliorista tutto teso alla ripresa e alla resilienza, concetti giovanili che esigono strade sgombre, menti sognatrici e affamate, cavalcate wagneriane verso il progresso.
Naturalmente nessuno dice che odia i vecchi, ci mancherebbe; dicono che amano i giovani. I giornali riferiscono con bonaria empatia di un Draghi “irritato”, che si alza e lascia la Sala Verde di Palazzo Chigi, dove si siglano storicamente i “patti sociali”. È che lui pensava che i patti sociali si facessero così: lui, in quanto amministratore delegato risanatore della ditta Italia, detta la linea, e i sottoposti eseguono. Sennonché esistono ancora fisicamente i rappresentanti dei lavoratori, che pretendono inopinatamente di dire la loro (perché assaltarne le sedi quando li si può silenziare e deridere, col consenso divertito di tutti i giornali?): così i segretari di Cgil, Cis e Uil hanno avanzato critiche alla riforma pensionistica inclusa nella legge di Bilancio, riforma che era già pronta: era la Fornero, che Draghi conosce bene, visto che l’ha imposta la Bce nel 2011 con una lettera firmata da lui. Ma come far passare agli occhi dell’opinione pubblica l’idea che il governo di Migliori non stia affatto derubando i vecchi delle loro pensioni, costringendoli a lavorare fino a 70 anni? Facendo colare in ogni dove il blob vischioso di un’insopportabile retorica pro-giovani. Così la mattina Draghi va in missione in un Istituto tecnico di Bari (anche per “fuggire dai partiti che lo assediano”, Corriere), dove sforna perle motivazionali “alla Steve Jobs” (Repubblica), consiglia ai giovani “un pizzico di incoscienza” (giacché tutto il resto, la sicurezza e le comodità, già ce l’hanno), e addirittura, umanissimo, “stringe mani” e “accorcia le distanze” (Corriere).
Intanto proprio la ex ministra (e neo consulente di Draghi) Fornero scrive via La Stampa una lettera aperta a Landini pregandolo di pensare ai giovani, alzando l’età pensionabile e ricostruendo “il patto” generazionale infranto dallo sbilanciamento del welfare sulle pensioni. Cioè: a minare il welfare sono le pensioni, che sono una parte del welfare, e non le politiche anti-welfare. Era tra i desiderata di Bonomi consegnati a Corriere: finirla di “mettere soldi sulle pensioni”, pure per i lavori usuranti.
Naturalmente i principali emissari di questa retorica pro-giovani sono i detentori di vitalizi, pronti a darsi fuoco quando gli si toccano privilegi da Ancien Régime, improvvisamente preoccupati per il destino dei giovani. I quali giovani sono stati massacrati da decenni di precariato, scientificamente privati del diritto alla futura pensione, costretti ad accettare ricatti, contratti finti, salari da fame e/o sostituiti da buoni pasto, tutto per volere del legislatore e dei governi anche di centrosinistra. Infatti il distruttore dello Statuto dei Lavoratori e inventore del Jobs Act (e della Buona Scuola, con la cosiddetta alternanza scuola-lavoro, una trovata per mettere i minorenni a lavorare gratis negli autogrill), twitta: “Che i sindacati attacchino il Governo sulle pensioni dimostra ancora una volta come parte dei dirigenti di questo Paese pensi solo a chi è già garantito e non ai giovani. Tanto il conto lo pagano sempre i nostri figli”. Giusto per geolocalizzarlo: il tweet parte da Riyad (o dall’aereo privato che ce lo porta), dove è atteso per parlare di “Cultura” (lui!) in cambio di soldi sauditi. È lo stesso Renzi che ha indetto un referendum per abolire il Reddito di cittadinanza (fallito, come tutto quel che indice lui) perché i giovani devono “soffrire”.
I sindacati sono rimasti soli e non hanno sponde in Parlamento. E vorremmo vedere: cosa vuol fare una pletora di privilegiati che hanno smesso la lotta politica pure per accaparrarsi voti, garantiti dal fatto che le elezioni sono una pura formalità per masse sempre più esigue?
È tutto coerente, l’etica neoliberale è questa: amare gli imprenditori e i figli di papà con alta capacità di rischio d’impresa (gli start-upper, i “rider per scelta” scopertisi milionari con qualche pedalata, etc.), e danneggiare i poveri di ogni età. Perciò si occulta il conflitto sociale dietro il conflitto generazionale: quando devono fare cose impopolari contro i vecchi, dicono che lo fanno per i giovani; quando devono fare qualcosa contro i lavoratori, dicono che lo fanno per l’occupazione, perché i giovani possano smetterla di chiedere prestiti ai nonni. “È il momento di dare, non di chiedere”, disse Draghi; ecco, quand’è così bisogna sempre chiedere “a chi?”. La vedete, la direzione nella quale va il fantastico Piano di ripresa e resilienza? A far riprendere e resilire i ricchi. Ne usciremo migliori: certo, come no.

L'Ebetino arabo su L'Amaca

 

Il centrosinistra d’Arabia
di Michele Serra
Il destino ha voluto che Matteo Renzi fosse a Riad, laddove la parola omosessuale è semplicemente impronunciabile, mentre sul suo manipolo di senatori si addensavano i sospetti di avere affossato la legge Zan. Ovviamente ognuno è libero di promuovere o bocciare una legge, il Parlamento esiste proprio per questo. Ma se davvero l’esultanza da stadio della destra italiana è dipesa anche dalla posizione, diciamo così non entusiasta, di Italia Viva sulla legge Zan, siamo liberi anche noi, semplici elettori, di trarne le dovute conseguenze.
Il Rinascimento arabo del quale Renzi parla a gettone non contempla, tra le sue opzioni, né i pari diritti delle donne né quelli (per carità!) delle minoranze sessuali. Si disse, ai tempi, che Renzi aveva qualche pecca, come leader del Pd, in termini di diritti del lavoro, ma qualche merito nel campo dei diritti della persona: la legge Cirinnà testimonia a suo favore. Ora la gran prudenza nell’arginare l’omofobia e la transfobia (questo, non altro, con qualche limite formale ma una sostanziale chiarezza, cercava di fare la legge Zan) lascia pensare che Matteo d’Arabia sia stato la più clamorosa svista di tutti i tempi nella storia della sinistra italiana.
Lo attende un radioso futuro — è giovane, ci ha il fisico — dentro quel grande incontro di wrestling che è la nascita del Nuovo Centro, già irto di partitini e leaderoni, più vanità che voti. Ma la sua appartenenza al campo del centrosinistra, di qui in poi, si fa davvero improbabile. A meno che ci si riferisca al centrosinistra arabo.

mercoledì 27 ottobre 2021

Tifosicamente


L'Arabo Ebetino

 


Quando succede qualcosa di squallido, c'è sempre di mezzo "lui", il signorotto prestato alla sinistra, l'amico del riccastro assassino da cui è volato per contratto, il tramante dietro i soliloqui oramai insignificanti più che le mefitiche liste della spesa del suo neo amichetto, il Cazzaro.
Dove ci sono miasmi di democrazia si staglia la sua caricatura di ondivago impenitente, la vignetta vivente che rappresenta tutto ciò che dovremmo rottamare. Vedere una parte dell'aula del Senato esultare davanti al soffocamento dei diritti in termine protettivi di moltissime persone, rende amaro questo momento, l'attimo in cui comprendiamo pienamente la bassezza morale di buona parte dell'emiciclo.

E "lui" ne è il capomastro, il regista, principalmente perché sta cercando di ricollocarsi per non scomparire, accentrandosi in quel centro fucina dei principali inganni della storia di questa nazione. Corroborato dai paonazzi fedeli al bisso e al lusso, spronato da quel Parolin-Parolon che insufflandogli la malsana idea di trasformarlo nel pio servente la cattolicità, lo ha indotto ad ergersi a paladino di quel demenziale irrigidimento abbattente il decreto Zan, utile ad accalappiare quel pacioso mondo convinto della propria superiorità e salvezza, tanto da ghettizzare, deridendoli, gli "altri", i diversi, per loro, i dispersi, gli sconfitti, i violentati.

Ed ora che il danno è fatto, non resta che sopportare ulteriormente i latrati di questi subdoli ed infingardi commercianti del nulla, con "lui" sempre in prima fila, fino a che il popolo sovrano, finalmente, non lo metterà a riposo per sempre in quell'anonimato in cui, a sua insaputa, è già immerso da tanto tempo.

Un fantastico Robecchi!

 

Pensioni. La solita moda di usare i figli per picchiare i padri e i nonni

di Alessandro Robecchi

Colpo di scena, tornano di moda i giovani. Non stupisce più di tanto, è una cosa che succede periodicamente quando si tratta di penalizzare i vecchi, e quindi si attua il facile barbatrucco di mettere generazioni contro generazioni, segnatamente quando si parla di pensioni e previdenza. Traduco: siccome le pensioni ci costano un bel po’ e data l’incapacità di chiedere qualche soldo ai nuovi ricchi (un milione e mezzo i neo-milionari italiani, cresciuti del 20 per cento durante l’età d’oro – per loro – del Covid), ecco che si indicano ai giovani i diritti dei vecchi additandoli come odiosi privilegi.

È un trucchetto antico come il mondo, che funziona sempre e che ha come unico effetto collaterale di rivelare la statura etica, morale e politica di chi lo conduce: poca cosa. Non mi addentrerò qui nel vortice attuale dei numeri e nel gorgo che si legge in giro: quota 102, no, 104, no Fornero forever, eccetera eccetera, e mi limiterò all’uso strumentale del giovane in quanto sfigato storico di riferimento, funzionale al dibattito, feticcio utile alla causa draghian-confindustriale. Un po’ occultati e nascosti sotto il tappeto (quando non se ne parla per dire che sono tutti scemi), i famosi giovani vengono buoni adesso per dire che loro probabilmente le pensioni non le vedranno, o le avranno sotto la soglia di una decente sussistenza. E si capisce: calcolandole col retributivo secco, e avendo fino alla mezza età lavori intermittenti e stipendi da fame, dall’Inps prenderanno due cipolle e un pomodoro. Da qui, dritta come una freccia, ecco la pressione sulle trattative per la previdenza di genitori e nonni: è colpa loro e della loro avidità se chi ha vent’anni oggi farà la fame domani. E giù interviste, pareri, interventi, per dire che il sistema è iniquo e penalizza le nuove generazioni (mentre i pensionati anziani, si sa, nuotano nell’oro). Naturalmente essendo le basse paghe e il precariato ad libitum a penalizzare eventuali pensioni dei giovani, bisognerebbe intervenire su quei punti: meno contratti fantasiosi, meno stage e tirocini, più stipendi veri, magari un salario minimo che finisca per rasentare la decenza. Invece, su quel versante, niente, mentre si spinge sul pedale della guerra tra generazioni, mettendo figli contro padri, cioè i futuri poveracci contro i “privilegiati” che dopo aver lavorato una vita prendono (addirittura!) la pensione.

Il trucchetto ha il suo fascino, e a volte funziona. A pensarci, è quello su cui basa la sua propaganda anti-immigrati Matteo Salvini che tuona “prima gli italiani”, cioè invita i penultimi (gli italiani poveri) a odiare gli ultimi (i migranti). Altro caso di scuola, la narrazione renzista che portò all’abolizione dell’articolo 18. Siccome moltissimi non l’avevano, invece di darlo anche a loro si additò chi ne usufruiva come egoista e privilegiato. Anche allora i giornali erano pieni di giovani che dicevano: io, precario, l’articolo 18 non lo avrò mai, e allora perché deve averlo un metalmeccanico? Il meccanismo culturale che sovrintende il “ridisegno” del sistema pensionistico è esattamente lo stesso: lasciare una moltitudine senza diritti e poi – fase due – additare chi i diritti ancora ce li ha come un pescecane profittatore. Questo il desolante quadro del dibattito: trasferire la guerra ai piani bassi della società, mentre ai piani alti si stappa e si festeggia la ripresa “oltre le previsioni”. Siamo sempre lì: un Monti, un Renzi, un Draghi, la stessa sostanza di cui sono fatti gli interessi dei ricchi.

Una storia per sognare



A Londra c'è una donna che si reca ogni giorno dentro la metropolitana e resta seduta sulla banchina solo per ascoltare l'annuncio registrato dal marito nel lontano 1950.

Margaret McCollum dopo che è morto il suo Oswald Laurence, si siede sulla panchina e aspetta di sentire quella registrazione divenuta uno dei più celebri "Mind the gap" (attenzione allo spazio tra il treno e la banchina) di Londra.

Nel 2003 Oswald è morto lasciando un grande vuoto nel cuore di Margaret. Così da quel momento Margaret ha trovato il modo di sentire la sua presenza più vicina.

Ma da un giorno all'altro, dopo oltre mezzo secolo, quella voce è stata sostituita da una fredda e vuota registrazione elettronica.

Presa dallo sconforto Margaret ha fatto richiesta di quel nastro all'azienda dei trasporti della metropolitana londinese, per continuare ad ascoltare la voce di suo marito a casa sua.

Ma, venuta a conoscenza dell'emozionante storia, l'azienda ha deciso di ripristinare l'annuncio nell'unica fermata in prossimità della casa dove vive la donna, precisamente alla fermata di Embankment della Northern Line, dove oggi tutti i passeggeri possono ascoltare la voce di Oswald Laurence e pensare che l'amore eterno esiste davvero.

Rieccolo!



Ma guarda che si rivede! Reduce da delle verticali di Krug, amico e fedele ospite alle feste di conti, duchi e marchese, ondivago accanto alla cara consorte tra amene località tipiche dei riccastri, il Fausto pluripensionato ha inaspettatamente ricominciato a cazzeggiare dialetticamente, arzigogolando sull’aria fritta, blaterando di lotte sociali, disparità economiche e tutto quanto fa spettacolo per il famoso detto, ancora in auge, tipico del suo impegno “compagno, tu lavori e io magno!” 
Bentornato Faustino! Hai già in tasca il biglietto per la Prima della Scala?

Prossimo allocchismo

 


Abbè!

 


martedì 26 ottobre 2021

Sensazione

 


Ah ecco!

 


Amici votate!!



Per allontanare Al Tappone da quella che sarebbe una vergogna nazionale e soprattutto per portare al Quirinale una grande donna! Andate sul sito del Fatto Quotidiano e firmate!

Travaglio!


Non si butta via niente
di Marco Travaglio

Dovendo scegliere una canzone simbolo del 2021, non avremmo dubbi: “Ancora tu” (ma non dovevamo vederci più?). Per il proverbio: “Del maiale non si butta via niente”. E per l’odore: un misto fra due fragranze che iniziano per emme, la seconda delle quali è la muffa. L’Italia che doveva uscire dalla pandemia nuova e migliore perché nulla fosse più come prima, si ritrova vecchia e peggiore perché tutto sia come prima. Ma non il “prima” immediato del 2019: il “prima” preistorico di decenni fa. Il premier è un banchiere scoperto dalla destra Dc nel 1983. L’unico candidato ufficiale al Quirinale è un vecchio puttaniere, pregiudicato e finanziatore della mafia che infesta l’Italia dagli anni 70. Repubblica apre con un’intervista al ministro Brunetta, che negli Ottanta consigliava Craxi su come sfondare le casse dello Stato e ora illustra un progetto appassionante, almeno per i nostalgici degli anni 50: il centrismo. Nelle piazze tornano dopo mezzo secolo in forma farsesca la strategia della tensione e gli opposti estremismi. Le elezioni comunali si giocano sull’arrapante contrapposizione degli anni 20 (ma del secolo scorso): fascisti-antifascisti. Il governo riesuma dall’avello la riforma Fornero, datata 2011 e bocciata dagli italiani in tutte le elezioni degli ultimi dieci anni. E, già che c’è, riciccia pure la Fornero come persona, in veste di consulente. La ministra Lamorgese, con uno dei suoi proverbiali moti ondulatorii, arruola Bobo Maroni, che guidava il Viminale nel 1994, per combattere l’illegalità nel mondo del lavoro: lo stesso che nel 2010 annunciò querela a Saviano a nome della Lombardia perché osava ipotizzare la mafia al Nord.

Il noto “rottamatore” di Rignano, che nel 2013 scalò il Pd col chiodo alla Fonzie per rinnovare la politica, cena in Sicilia con Miccichè, che insieme al retrostante Dell’Utri sogna un grande centro con Cuffaro e altri teneri virgulti. Il ministro-ossimoro della Transizione ecologica Cingolani e quello dello Sviluppo Giorgetti resuscitano il nucleare. Il capo dei vescovi benedice in Draghi l’“uomo della Provvidenza”, come già Pio XI con Mussolini. Alla Rai il neo-amministratore tanguero Fuortes impone l’obbligo del “lei”, in attesa del “voi”. Sorgi, su La Stampa, invoca un “governo militare” se – Dio non voglia – cadesse l’attuale. Mieli, sul Corriere, butta lì un altro ballon d’essai: “E se decidessimo di non votare mai più”? E Repubblica, quella di sinistra, titola: “Pensioni, Lega verso il sì. Ma c’è lo scoglio dei sindacati” (aboliamo pure quelli?). Però il premier “tira dritto”, come la Buonanima. Mancano solo i telefoni a gettone e il borsello a tracolla. I seggi sono vuoti, ma in compenso la fiera dell’antiquariato è sold out.

A cena

 


Sembrerà strano, probabilmente dovuto alla mia formazione cattolica, ma io andrei a cena con il signor Fabio Tuiach, leader dei no vax di Trieste, che alcuni mesi fa dichiarò che il Covid "era una punizione divina contro i froci" ed ora, lo ha detto lui, colpito dal virus e a letto con 39 di febbre. MI siederei davanti ad un piatto prelibato e gli direi "oggi mi si è rotto il tubo dell'acqua e ho chiamato il mio parrucchiere per cercare di ripararlo!" Probabilmente il Tuiach obbietterebbe " e perché il parrucchiere e non l'idraulico?" E allora alzando il calice gli ribatterei "parli proprio tu che ascolti uno che ti convince a credere che il virus si possa trasmettere anche dall'acqua lanciata dagli idranti?" Per vedere l'effetto che fa.
(Potrebbe verificarsi anche la possibilità, non remota, che il Tuiach non obbietti nulla sulla chiamata del parrucchiere - idraulico. Nulla di strano: essendo fascista, la distorsione della realtà agevolerebbe in lui l'acquisizione a verità di una solenne fetecchia, come quelle in giro da quelle parti, tipo "il Crapone qualcosa di buono però lo fece...")

L'Amaca

 

L’organizzazione della pazzia
di Michele Serra
C’è il fascista triestino che prende il Covid e sostiene che la colpa è degli idranti della polizia, che “un cattolico non può avere paura del Covid” e che i virus sono “una punizione divina per i froci”.
C’è la No Green Pass romana che schiaffeggia in metropolitana una giovane dottoressa perché il personale medico è nemico del popolo. C’è la candidata trumpista alla carica di governatrice del Nevada che nel suo spot elettorale, come grande prova di destrezza politica, spara alle bottiglie con un pistolone.
E ci sono decine di dichiarazioni strampalate, veementi, incomprensibili, struggenti nei tigì di questi giorni, vaniloqui che farebbero sorridere se non portassero in piazza migliaia di persone: nella massima parte, sia ben chiaro, brave persone.
Le categorie politiche non bastano a capire che cosa sta succedendo in quella porzione di mondo che chiamiamo Occidente. Il complottismo, Qanon, l’assalto al Campidoglio, gli elmi cornuti, la denuncia della Dittatura Sanitaria, la stessa apparizione dell’incredibile Trump sulla scena mondiale, consentono una lettura solo parzialmente politica. Tantomeno ideologica. Valgono meglio le categorie psichiatriche: e sia detto senza nessuna superficialità o irrisione, semmai con la massima considerazione della sofferenza e del disagio di chi le porta addosso.
Ma questa è la sostanziale novità dell’epoca: la pazzia come agente politico, come organizzatrice delle folle. Poiché sono i regimi autoritari che bollano e dannano la pazzia, alle democrazie spetta il compito (ben diverso) di cercare di capire come mai, in misura così evidente, la pazzia abbia preteso e ottenuto la sua rappresentanza politica.

lunedì 25 ottobre 2021

Pericolo

 


Interessante Tomaso

 

Il “paradiso” di Mr Prada e la spiaggia inaccessibile
di Tomaso Montanari
“Vi fate schiavi: e poi odiate il padrone. Vi togliete tanto di cappello quando passano, e poi gli urlate dietro. Mi fa ridere che venite qui da me a sparare parole contro i potenti, quando i potenti li acclamate sempre e li festeggiate: riempite le piazze per i funerali dei re e per le nozze dei principi (…) Vi dico di drizzare la schiena, di guardare negli occhi la verità: se i potenti e i ricchi vi sembrano lo specchio dell’ingiustizia, allora smettetela di prenderli a modello!”. Questo passo delle prediche di Savonarola, riscritte da Stefano Massini e messe in scena dalla Comunità delle Piagge, va al cuore del rapporto tra gli italiani di oggi e i potenti, compresi i padroni dell’immaginario, tra i quali i signori della moda italiana.
Già, da che parte giocano oggi i grandi stilisti? Sono venerati come padri della patria (che oggi si chiama “brand Italia”), trattati come guru della cultura e celebrati come artisti alla pari di Leonardo e Michelangelo: ma in questo lento e inesorabile tramonto della nostra democrazia, in che direzione pesano? I segnali sembrano contraddittori, tra occupazione dei grandi siti culturali pubblici e slanci sociali, mega evasioni fiscali e apparente mecenatismo culturale.
Un caso recente dà da pensare. Un bell’articolo di Gea Scancarello su Domani ha raccontato di come Patrizio Bertelli, mister Prada, abbia comprato qualche settimana fa (per 18,4 milioni di euro) da una vecchia famiglia aristocratica il paradiso di Cala di Forno, nel Parco della Maremma: torri medievali e poi medicee, dogana granducale, bosco, case coloniche e accesso alla spiaggia. I vincoli impediscono di fare resort di lusso o piste da elicottero (motivo per cui un oligarca russo ha rinunciato all’acquisto), ma è un fatto che chi possiede la tenuta può rendere difficile (in barba alla legge) l’accesso alla spiaggia. Che è naturalmente demaniale, ma che si raggiunge da terra solo con una strada privata, che ora per esempio è sbarrata (con la scusa del Covid). In questi giorni un movimento di cittadini dà battaglia e raccoglie firme perché il Ministero della Cultura eserciti il suo diritto di prelazione, e compri per tutti almeno gli edifici storici.
È una possibilità concreta per salvare quello straordinario bene comune, e ce ne sono anche altre due: diametralmente opposte nel metodo, ma in realtà coincidenti negli obiettivi e nel risultato finale.
La prima. Lo Stato potrebbe espropriare Cala di Forno. L’articolo 1 della legge 327 del 2001 stabilisce che l’espropriazione è funzionale all’ “esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità”, e al comma 2 chiarisce che, ai fini dell’esproprio, “si considera opera pubblica o di pubblica utilità anche la realizzazione degli interventi necessari per l’utilizzazione da parte della collettività di beni o di terreni, o di un loro insieme, di cui non è prevista la materiale modificazione o trasformazione”. Dunque, lo Stato – uno Stato in cui, secondo Legambiente, il 50% del litorale sabbioso è sottratto di fatto all’uso collettivo – potrebbe dare un segnale straordinariamente forte mettendo fine d’autorità alla privatizzazione di un luogo simbolo. Naturalmente l’ammontare dell’indennizzo è già noto: il prezzo fissato nel contratto di vendita. Dunque, nessuna prevaricazione sovietica, ma sostanzialmente una forma di prelazione che consenta di non acquisire solo gli edifici storici ma anche il terreno: ricostituendo, e offrendo all’uso pubblico, quell’unità di paesaggio e patrimonio storico e artistico che è la forma stessa dell’Italia.
La seconda possibilità. Patrizio Bertelli compra tranquillamente tutto, e poi lo dona liberamente al Parco della Maremma, ente pubblico della Regione Toscana. E lo fa – sogniamo – dichiarando pubblicamente che intende così attuare il secondo comma dell’articolo 42 della Costituzione della Repubblica: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Un magnate che prende consapevolezza che in Italia esiste un enorme problema di redistribuzione della ricchezza; un ricco che capisce che non basta il mecenatismo autolegittimante delle grandi mostre e delle fondazioni private, ma che bisogna ricostruire l’idea stessa di ricchezza pubblica; un signore della moda, che vive dei bisogni indotti nei consumatori, che sceglie di mettere i suoi beni al servizio dei cittadini: e che dunque autolimita la sua proprietà privata per renderla – letteralmente – accessibile a tutti. Possibile?
Come mezzo millennio fa notava Savonarola, i ricchi e i potenti vogliono esser presi a modello pur continuando a farla da padroni. Sulla spiaggia meravigliosa di Cala di Forno, lo Stato o Mr Prada potrebbero provare a cambiare questo paradigma secolare: uno dei due lo farà?

domenica 24 ottobre 2021

Abemus saltimbacam!




Sbottare

 


L'Amaca

 

Se Charlie Chaplin tornasse tra noi
di Michele Serra

Si moltiplicano le inchieste sulle condizioni di lavoro nella logistica, e in specie sulla spersonalizzazione del rapporto tra sottoposti e gerarchia, con i salariati ridotti a numero, a ingranaggio, a pezzi di ricambio: come in Tempi moderni di Chaplin, pensato e girato negli anni Trenta del secolo scorso, sublime parodia del fordismo e della catena di montaggio.
Chiunque passi accanto a quelle cattedrali orizzontali che sono i poli logistici, immani distese di merci spalmate lungo capannoni mai visti (ettari di estensione), tutti uguali a parte la mano di vernice, internamente definiti in centinaia di corridoi numerati, ha il diritto di domandarsi come potrebbero, luoghi simili, generare rapporti umani, non importa se conflittuali o amichevoli e solidali.
La nostalgia della bottega, dell’impresa familiare, del "piccolo e bello", è certamente passatista, e a rischio di essere reazionaria.
Però, per aiutarci a una migliore sintonia con l’epoca, qualcuno ci spieghi meglio, per favore, come si costruiscono umanità e qualità (concetti che mi permetto di apparentare) dentro le sterminate cubature, gli infiniti numeri. C’è sicuramente una ratio economica, dentro l’accorpamento delle attività umane in enormi assembramenti, e con altrettanto enormi concentrazioni di potere e di denaro in poche mani. Ma se Chaplin tornasse tra noi, quasi un secolo dopo Tempi moderni , ci domanderebbe: ma qualche passo in avanti, come mai non l’avete fatto, in tutti questi anni?

Anguille e Anguillara

 


Tra i tanti motivi che aveva Anguillara Veneta di farsi notare, ha scelto il più demenziale: domani il consiglio comunale probabilmente conferirà la cittadinanza onoraria ad uno dei più squallidi e triati figuri del panorama mondiale, il presidente del Brasile Jair Bolsonaro, un concentrato di inettitudine morale, resposabile del massacro di centinaia di migliaia di persone durante la pandemia, frutto delle sue idee ad minchiam negazioniste. Un misogino della malora, un incendiario della foresta amazzonica che sta mettendo a rischio l'intero pianeta. Un gerrafondaio, inetto, psicolabile. E che importa se il trisnonno di questo imbecille nacque ad Anguillara Veneta? Chi se ne frega!
E perché allora non scartabellare meglio gli archivi, che magari spunterebbe fuori anche qualche parentela con Belfagor, o con Lord Fener?
Cara sindaca di Anguillara Veneta Alessandra Buoso: non sarà che nella sua cervice scorazzino allegramente delle anguille?

sabato 23 ottobre 2021

Per capirci



Bisognerebbe sempre avere lo sguardo alla Marotta, per intenderci!

E infine Marco!


Bianco, rosso e pappone
di Marco Travaglio

Al Tribunale di Siena gli avvocati di B., che da un anno allontanano l’amaro calice della sentenza Ruby-ter con certificati che lo danno morente per il Tribunale e sanissimo per il Quirinale, tentano di bloccare i giudici sull’uscio della Camera di consiglio con una ricusazione, certissimi della condanna, mentre i turboforzisti, da Zanettin a Gasparri, strillano al complotto contro il miglior candidato al Colle. Ma i giudici, più spiritosi, assolvono: il pianista delle cene eleganti Danilo Mariani mentì ai giudici negando i bunga-bunga, fu condannato per falsa testimonianza e ricevette 170mila euro, ma mica è corruzione: B. l’ha premiato per come suonava, non perché non cantava.

Appena scoperto di essere innocente a sua insaputa, B. annuncia che sta cercando un “federatore del centrodestra” e avvia il casting spulciando la rubrica telefonica, come Verdone in partenza per Cracovia a ferragosto. “Pronto Denis, siccome mi si è creata una situazione strana e mi si è liberato un posto di federatore… Ah, stai ai domiciliari per bancarotta… Vabbè, restiamo in contatto”. “Pronto Marcello, ti ricordi di me? Come sarebbe a dire che sono io che mi sono scordato di te, non ho testimoniato al tuo processo e ti sei fatto sette anni per mafia? Eddài, che sofistico… Vabbè, alla prossima”. “Pronto Cesare, chi non muore si rivede! Volevo proporti… ma no, che hai capito, non di comprarmi altri giudici: ormai mi assolvono pure gratis! No, era per fare il federatore… Non federale: fe-de-ra-to-re! Ah, dici che ti bastano i 7 anni e mezzo che ti sei beccato al posto mio? Ok, senza rancore”. “Pronto Paolo, fratellino, mi sei rimasto solo tu! Cerco un sostituto… ma no, non per finire in galera! Ora mi serve un federatore. Ah, dici che non saresti credibile, tipo come editore del Giornale? In effetti… Salutami Minzo”. “Pronto Nicole, come andiamo con l’igiene dentale? Ah ah, sono sempre forte, lo so. No, è che pensavo a una federatrice… Non reclutatrice: fe-de-ra-tri- ce! Ah, te la menano ancora con la nipote di Mubarak? Ma ormai se la son bevuta pure i giudici e in Parlamento mi scambiano di nuovo per uno statista… Che c’entra ora il mio culo flaccido? A loro mica l’ho fatto vedere… Vabbè, ci sentiamo”. “Pronto Ruby, sono Papi, allora sei poi diventata maggiorenne? Eh eh, buona questa. Te l’ho mai raccontata quella della mela? Ah, la sai a memoria… No, è che mi si è liberato un posto… non al bunga-bunga, magari, bei tempi… Voglio lasciare il centrodestra in buone mani ora che trasloco al Colle e sei l’unica incensurata che conosco… Mi han tradito pure la Mariastella, la Mara e Renatino… Ah, dici che fanno bene? Vabbè, se la metti così… Salutami tanto zio Hosni”. “Pronto, casa Renzi?”…

Favolosa




Daniela!


L’oligarchia draghiana sogna di abolire il voto

di Daniela Ranieri

Li vedete i ballon d’essai? Volteggiano nell’aere per saggiare la direzione del vento. Dopo il palloncino del governo dei militari suggerito da Marcello Sorgi su La Stampa (fantasticheria forse troppo spinta, poi derubricata dal suo autore a provocazione), negli ultimi giorni il cielo si è riempito di mongolfierine inequivocabili. Sopra ci sono scritte cose come “maggioranza Ursula”, “stabilità”, “riforme”, etc.: sono stringhe di codice tra iniziati che significano solo una cosa: il sogno proibito del Sistema – la fine della democrazia e l’instaurarsi dell’oligarchia draghiana – non è più proibito.

Paolo Mieli è il capovaro del pallone più grosso: “E se decidessimo di non votare mai più?”, scrive nell’incipit del suo editoriale sul Corriere. In pratica centrosinistra e centrodestra, più le forze di centro “pronube”, si devono unire – una volta esclusi la Lega e i “grillini” (sic) – sotto la guida di Draghi, che deve “restare a Palazzo Chigi per il resto dei suoi giorni”. Certo, concede Mieli, “gli italiani voterebbero sì, tra un anno o due, per le politiche, ma l’effetto delle elezioni sarebbe, per così dire, fortemente mitigato”.

Ecco cosa ci vuole: una democrazia mitigata. Ci fanno votare per darci un trastullo, ma poi tanto governa Draghi fino alla fine dei suoi giorni (ma siamo sicuri che è mortale?). Lo stesso giorno il Corriere ospita l’intervista al padrone delle ferriere Bonomi, che con la consueta protervia asserisce: “Noi siamo sicuri che il governo sappia bene ciò che va fatto, ma i partiti lo assediano”. I partiti, questa istituzione in cui secondo una vetusta Costituzione i cittadini hanno diritto di associarsi per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, hanno rotto le palle, “non hanno ancora capito” cosa devono fare, cioè piegare la testa a Draghi – e a Bonomi che detta l’agenda, il cui primo punto prescrive di piantarla di “mettere soldi sulle pensioni”, troppo generose, pure per i lavori usuranti.

Ieri invece su Repubblica l’intervistato era il ministro Brunetta, uno dei Migliori: “Abbiamo bisogno di partiti all’altezza di Draghi”: non della democrazia, non del popolo che i partiti rappresentano, ma di Draghi. Si era mai vista nella storia della Repubblica una così smaccata sottomissione volontaria a un uomo solo al comando? Almeno ai tempi d’oro di Berlusconi il Pdl (e Brunetta) i voti li prendeva, pur col trucchetto del Porcellum.

Poi spara il suo pallone: un “semipresidenzialismo con Draghi al Quirinale”, perché ce lo chiedono “i vaccinati, le cassiere, i colletti blu, gli impiegati” (quelli che lui ha costretto a rientrare in ufficio per rimpinzare il Pil delle aree urbane dove si vendono i panini). Non si contano poi i fiati d’essai, gli ottoni, i tromboni: Calenda – che si comporta come se fosse stato incoronato dentro San Pietro la notte di Natale, ma è solo arrivato terzo alle Comunali di Roma – detta la linea alla Nazione: “Serve un fronte da Bersani a Giorgetti per Draghi a Palazzo Chigi anche dopo il 2023”.

Poi c’è Renzi, il Re del flatus vocis, che vuole Draghi fino al 2023; i sondaggi lo danno all’1 virgola qualcosa per cento, ma lui non se ne cura; propone un referendum contro il Reddito di cittadinanza – perché i poveri non li ha colpiti abbastanza quando era “premier” – e non riesce a raccogliere nemmeno 5 mila firme: cioè non l’hanno firmato nemmeno i padroncini che costituiscono il suo elettorato.

Il Pd, un po’ ringalluzzito dopo le Comunali, sillaba delle delicate critiche a Draghi; ma non si farà problemi a piegarsi docilmente al nuovo corso: sanno bene che gli elettori li votano perché l’alternativa sono i fascisti, i no-vax, gente come Michetti… Hanno tutti capito che la lotta politica non paga: chi glielo fa fare? Prima cercavano il consenso, adesso sanno che per governare – per regnare, per vivere di rendita con tutti i bonus – i voti non occorrono. È una fatica star lì a parlamentare, al Parlamento o nel consiglio dei Ministri (dove Draghi sa già cosa fare), col rischio di far incazzare Bonomi. L’establishment applaude. Il popolo tace e ringrazia. Già è andata a votare la metà degli elettori; si può arrivare a un terzo, a un quarto, al voto d’élite, o eliminare del tutto le elezioni, come suggerisce il maggior quotidiano nazionale. L’oligarchia non ha bisogno di energia esterna per perpetrarsi, è un sistema chiuso che si legittima da sé. Come dice Brunetta: avanti “fino al 2030, un decennio di stabilità e riforme”! Conflitti sociali spianati, nessuna “protesta aggressiva” che ostacoli la ripresa economica (Mattarella dixit), testa bassa e lavorare, ché a governare ci pensa Draghi, con Brunetta, Calenda, Giorgetti, Renzi, Berlusconi e le forze pronube. (Nota: i giornali che insegnano la via sono quelli che dicevano che i 5Stelle erano anti-sistema e hanno passato anni a denunciare la pericolosa deriva dell’anti-politica).