venerdì 15 agosto 2025

Come se…

 


Ascoltare Ludwig dal maestro Bernstein è un po’ come vedere qualche azione del Cigno di Utrecht, scalare un ottomila con Reinold, vedere Tadej passare sul Mortirolo, dare un calcio nelle terga a Tyson, veder scendere Anna Karenina dal treno, gustarsi una madeleine con Marcel…



Misantropia

 

Stamani, essendo iscritto da anni all’associazione “Amici del novembre uggioso” ed avendo abiurato da lustri la festività odierna, mi sono alquanto sorpreso nel ricevere gli auguri di buon Ferragosto da inquilini e conoscenti incontrati in strada. Auguri de che? Vista la temperatura e l’impossibilità di restare abbracciato al Pinguino guardandomi una serie infinita, dapprima il desiderio è caduto sulla collina, o al massimo sull’Appennino, ma le rombanti auto già in coda rimbombanti di “musica - rumore” con schiamazzi incorporati, pregne di carbonella, m’hanno fatto desistere ancor prima di individuare il luogo, come trovarmi sul vagone Donzelli o lo scellerato pontista mi farebbe prediligere il posto del rag Ugo al ritorno da Sanremo col duca conte; ammettendo questa rara forma di misantropia che m’attanaglia, ho diretto l’attenzione verso i lidi marini oramai non più nostri, visto il rapto storico per mano dei pochi “salici sempre piangenti” che per pochi soldi si sono appropriati del demanio di tutti; naturalmente questa scelta comprende l’accettazione di tutto il kit ferragostano, ovvero: 


- Gli strilloni a riposo

L’ombrellone abitato da strilloni a riposo è deleterio, visto per parlarsi tra loro usano una tonalità d’ugola simile al Libiamo ne’ lieti calici della Traviata. 

- I ciacolanti 

Altra specie molto frequente nei lidi d’agosto, capaci di sviscerare per ore fatti e momenti sciapi senza alcun spessore (esempio: mezz’ora a parlare del netturbino che non pulisce bene la strada) 

Caratteristica del gruppo è che a turno un componente erutta una sciocchezza e tutti gli altri si sganasciano sbellicandosi come se avessero appena udito un’epitome della commedia di Woody Allen. 

- I sensazionalisti

Gruppo raro ma presente e ben camuffato, specializzato in lancio pedissequo di iperboli che il vino porta ad agevolare al Ballismo tipo “ho incontrato in edicola Raul Bova con una nuova fiamma!” o “ho appena sconfitto due pitbull affamati e li ho portati dal veterinario!” 

- gli Aficionados di Tinto Brass

Club molto preparato dotato di calamite del dialogo, che riesce, qualunque sia il tema della chiacchierata, ad incanalarlo dentro il recinto del soft porno. Si narra che in tempi passati un gruppo riuscì a parlare di sesso partendo dalle teorie della fisica quantistica. Capaci di usare magistralmente il dire-non dire, potrebbero turbare pure uno come Rocco. 

-Gli Omerici

Arrivano in spiaggia sul far delle 14, col viso già narrante le imprese della sera precendente, simile a quello di Cuck Noland disperso nell’isola, attendono che qualcuno gli chieda l’orario e partono in narrazioni epiche, di conquiste fenomenali, tra lo stupore dei presenti.

Buon ferragosto a tutti, ad un’ottantina di giorni dal novembre uggioso…

M'inchino

 

Dodicimila nomi di bimbi palestinesi letti uno a uno, quale segno di unicità, di progetto di vita soffocato dal genocidio sionista, tra il silenzio quasi generale di balordi insani di cuore e di mente. Grazie cardinale Zuppi!






PinoCinque

 

Il tic della truffa e l’arte dei legali
DI PINO CORRIAS
Siamo a New York City, primavera del 1983. C’è il sole, Donald Trump scende dalla sua Limousine Trump Executive, davanti ai cristalli della gioielleria Bulgari, al 730 di Fifth Avenue. Due commesse eccitate lo accolgono sulla soglia. In meno di 15 minuti il Tycoon sceglie una collana da 50 mila dollari e un paio di anelli da 15 mila. Le scatole vengono infiocchettate, sigillate e spedite all’indirizzo privato dell’avvocato Roy Cohn, nello Stato del Connecticut. La mattina dopo Roy Cohn riceve le due scatole, paga, apre la confezione, telefona subito a Donald, gli dice: “Sono arrivate e sono vuote!”. Ridono insieme, complimentandosi.
Non era una truffa. Era un piano. Anzi uno stratagemma. Lo scoprirono il mese dopo gli ispettori del fisco, in uno dei loro periodici controlli sugli incassi dei negozi. Non servì neppure ispezionare le fatture: tutti i nominativi con l’asterisco risultavano residenti fuori dallo Stato di New York e dunque autorizzati a non pagare la “sales tax”, la tassa di vendita, sugli acquisti fatti. L’elenco era di 202 nominativi. Per lo più milionari che dopo avere speso migliaia di dollari in gioielli non volevano rinunciare alla soddisfazione di risparmiare quelli delle tasse: spiccioli, per loro, ma che valevano il reato che stavano commettendo per dispetto, sentendosi furbi. Nell’elenco figuravano Frank Sinatra, Henry Kissinger, il trafficante d’armi Adnan Khashoggi, attrici, produttori, finanzieri. E naturalmente Donald Trump.
La storia venne rivelata dal settimanale newyorchese Village Voice. Deflagrò. Lo Stato istituì il Gran Giurì per l’inchiesta. Trump rischiava più di tutti. Se fosse stata provata l’accusa penale di evasione fiscale, Atlantic City gli avrebbe potuto revocare la licenza dei due Casinò. Schierò il solito Roy Cohn e Horward J. Rubenstein, re delle pubbliche relazioni, detto “il decano dei danni controllati”. Trump si preparò alla umiliante recita davanti al Giurì. Sostenne che aveva “agito in buona fede”. Le tasse per lui erano una cifra irrisoria, figuriamoci. Un centesimo di quello che ora gli costava la difesa. I tabloid ci andarono a nozze definendo i miliardari coinvolti: “avidi”, “goffi”, “stupidi”. Trump pagò l’ammenda e partì subito. Cosa c’era di meglio di un campo da golf per dimenticare?
(5 – Continua)

A proposito

 

Se no?
DI MARCO TRAVAGLIO
A leggere le nostre gazzette, si direbbe che Trump e Putin attendessero con ansia le istruzioni di Zelensky e dell’Ue (o dei suoi soci più mitomani, detti anche “volenterosi”) prima di incontrarsi oggi in Alaska per discutere delle loro faccenduole: Medio Oriente, Cina, Brics, Pacifico, Baltico, Artico, armi strategiche, gas, petrolio, terre rare, IA. Le istruzioni sono perentorie: “Non decidete nulla senza di noi”. Ovvio che Trump e Putin prendano buona nota scattando sull’attenti: “Ci mancherebbe, ogni vostro desiderio è un ordine. Anzi, mandateci qualche riga in ucraino e noi firmiamo a scatola chiusa”. Questa versione fumettistica della geopolitica, basata sul manicheismo buoni/cattivi, anzi amici/ nemici, non smette di sortire effetti tragici: gli ucraini spinti 11 anni fa ad avventurarsi nella guerra civile poi sfociata nella guerra aperta con la Russia, entrambe perse in partenza. Ma anche comici: i governi che hanno perso la guerra dettano condizioni ai russi che la stanno vincendo ogni giorno di più e, già che ci sono, pure agli americani. La domanda che aleggia nell’aria quando parlano è semplice: “Se no?”.
Di solito chi lancia ultimatum con la faccia feroce e la voce grossa ha il coltello dalla parte del manico: se il destinatario disobbedisce, peggio per lui. Ma quali leve, armi di pressione, rappresaglie hanno in serbo i mitomani di Bruxelles e Kiev nel caso in cui Trump e Putin non ottemperino ai loro diktat? La linea Maginot europea si è vista alla prova dei dazi. Appena ha visto Trump nel suo golf club privato in Scozia, Ursula si è sciolta come neve al sole: “Hai detto 15%? Ma non sarà poco?”. Un budino avrebbe resistito di più. Zelensky è un presidente scaduto e sconfitto, tra l’esercito in ginocchio che tracolla su tutto il fronte e il popolo stremato che invoca una tregua purchessia e rimpiange i bei tempi della neutralità, dopo aver assaporato i balsamici effetti di quell’affarone chiamato Nato. Trump l’aveva avvisato alla Casa Bianca: “Non hai carte”. Era un consiglio da amico: i falsi amici europei lo convinsero che fosse un “agguato”. Ora, se firma la pace sul fronte attuale, passa per uno che “cede” o “regala” territori, come se si potesse cedere o regalare ciò che si è perduto (in Donbass i russi stanno già ricostruendo e tutti sanno che quella ormai è Russia, come la Crimea); e deve guardarsi le spalle da nazionalisti e nazisti “amici”, tipo Azov. Se non firma, condanna altri ucraini a morire senza sapere perché: l’ha ammesso lui stesso di non poter recuperare i quei territori. E intanto ne perderà altri, perché Trump un’arma di pressione ce l’ha: appena chiude il rubinetto delle armi, Zelensky alza bandiera bianca. Che non è l’inevitabile “pace sporca” oggi rifiutata: è la resa senza condizioni.

giovedì 14 agosto 2025

Memento

 



Come sarà

 

Da dei preveggenti di fama internazionale ho raccolto la predizione di come si svolgerà il vertice di domani tra USA e Russia. 

Molto sensibili come sono tutti e due i massimi rappresentanti delle superpotenze, ecco in sintesi ciò che accadrà domani. 



 

Flash!

 


Domandina

 



Vauro

 



Robecchi

 

Addio testimoni Israele e la mattanza di giornalisti prima e dopo il 7 ottobre
DI ALESSANDRO ROBECCHI
Avrei voluto dedicare questa rubrica a un elenco: i nomi e i cognomi dei giornalisti assassinati dall’esercito di Israele nel corso del genocidio di Gaza e degli atti terroristici dei coloni israeliani in Cisgiordania. Ho provato. Non c’è spazio abbastanza per quasi trecento nomi e cognomi, mi spiace, spero che qualcuno lo farà presto.
Premessa: non è corporativismo, né spirito di categoria, ammazzare un giornalista non è più grave che ammazzare un civile, una donna, un bambino in coda per un secchiello di farina, come Idf fa ogni giorno, deliberatamente. Ma assassinare un giornalista (che ha immagini, registrazioni, testimonianze) è più importante per chi sta compiendo un crimine contro l’umanità, perché si elimina un testimone che un domani – speriamo presto – potrebbe essere ascoltato dalla Corte dell’Aia contro chi pianifica, ordina ed esegue un genocidio.
Anas al Sharif, 28 anni, il reporter di Al Jazeera ucciso l’altro ieri (insieme ai colleghi Mohammed Qreiqeh, Ibrahim Zaher, Mohammed Noufal, Moamen Aliwa e Mohammed Al-Khaldi) aveva realizzato importanti reportage dalla striscia di Gaza. Prima sull’uccisione di civili innocenti, poi sugli agguati mortali a chi aspettava pane e farina, infine sulla fame usata come arma di guerra. Insomma, era uno che ci faceva vedere l’inferno del campo di sterminio di Gaza. Non un passacarte che legge le agenzie e le veline di Idf, non un corrispondente che staziona in albergo dalla parte dell’esercito occupante e della sua censura. Anas al Sharif era stato minacciato, avvertito per telefono di smetterla di raccontare la verità, gli avevano ucciso il padre, come monito, sempre con la copertura ideologica che Israele applica ad ogni sua vittima: stava con Hamas. Falso.
In attesa fremente che i sostenitori e i negazionisti del genocidio comincino la loro manfrina sul 7 ottobre causa di tutto – a cui è seguita una rappresaglia sulla popolazione civile che mira alla soluzione finale del popolo palestinese – vorrei ricordare qui un’altra giornalista vittima di Idf: Shireen Abu Akleh, uccisa da un cecchino israeliano – colpita alla testa – a Jenin, l’11 maggio del 2022, quando il 7 ottobre non esisteva, in una zona, la Cisgiordania, dove Hamas non c’è.
Shireen Abu Akleh era un volto molto noto di Al Jazeera, molto amata. Come da prassi consolidata, Israele accusò i palestinesi, poi, davanti alle pressioni internazionali (e grazie ad altri giornalisti testimoni) ammise che “forse” potevano essere stati i suoi soldati, cosa poi accertata dall’Onu, mentre l’indagine dell’FBI (ancora in corso, Shireen aveva passaporto americano) è sempre stata considerata da Israele “indebita ingerenza negli affari nazionali”. È un classico della narrazione dell’esercito genocida. Primo passo: non siamo stati noi. Secondo passo: sì siamo stati noi, ma per sbaglio. Terzo passo: apriremo un’inchiesta. Che finisce in nulla.
Il 13 maggio del 2022, ai funerali di Shireen, l’esercito israeliano in assetto antisommossa, ha attaccato il corteo funebre, caricato e malmenato chi seguiva il feretro della giornalista: i video di un esercito che attacca gente pacifica a un funerale e si accanisce a bastonate su chi porta a spalla la bara ha fatto il giro del mondo. Una buona metafora di cos’è – e cos’era anche prima del 7 ottobre – Israele. Tutto evidente, tutto filmato, tutto alla luce del sole: l’assassino che elimina i testimoni dei suoi crimini, sotto gli occhi di tutti, con molti complici, sostenuto da chi finge di non vedere, certo dell’impunità.

Amara risultante

 

Tutto qui?
DI MARCO TRAVAGLIO
Gli aedi turibolanti e sbavanti del governo Meloni celebrano il suo record di durata, dietro soltanto ai Berlusconi 2 e 3 e a Craxi. Ma non si vede cosa ci sia da festeggiare: se in questi 1024 giorni la Meloni avesse fatto qualcosa di notevole per gl’italiani, la sua longevità sarebbe un’impresa; invece non ha combinato nulla, quindi è un’aggravante. Viene in mente la gag di 20 anni fa a Rockpolitik di Celentano e Benigni nella riedizione della lettera di Totò e Peppino alla malafemmina. I due showman scrivevano a B. al termine del suo secondo mandato per scusarsi di averlo tanto sbeffeggiato: “Caro Silviuccio, hai fatto tante cose belle per gli italiani, come per esempio…”. E lì si bloccavano in una lunga pausa, finché Benigni chiamava un amico per farsi suggerire qualcosa. Ma invano: “Mi ha detto che fa un giro di telefonate e poi richiama”. E chiudeva la lettera così: “Le cose belle che hai fatto sono così tante che le sai te. Per scriverle tutte, ci vorrebbero talmente tanti fogli e biro…”. In effetti, nei suoi tre governi, il Caimano non fece null’altro che leggi per i suoi processi, aziende, compari e coimputati. Tant’è che alla sua morte, dopo 29 anni di carriera politica, i suoi fan disperati si videro ridotti a esaltare la patente a punti e la legge anti-fumo.
La Meloni non ha conflitti d’interessi e in 34 mesi non ha fatto leggi per sé. Ma neppure per noi. Anche il suo tifoso più sfegatato faticherebbe a rivendicare qualcosa di buono o di utile. La politica estera è appaltata agli Usa, prima con Biden e ora con Trump, e quella finanziaria ai falchi Ue (vedi Pacco di Stabilità: -13 miliardi l’anno per l’Italia): più che “sovranismo”, sovranità limitata; più che “pacchia finita per l’Europa”, per noi. E ora dovremo svenarci per buttare decine di miliardi in armi e perderne altrettanti per comprare gas dagli Usa a prezzo quadruplo rispetto al russo. Le “riforme” della giustizia ne allungano i tempi e allargano gli spazi di impunità per ricchi e potenti. Gli sbarchi di migranti, da quando c’è il governo anti-migranti, sono più che raddoppiati e buttiamo pure 1 miliardo negli inutili centri in Albania. La manna del Pnrr andrà quasi tutta sprecata in ritardi e opere assurde. I vecchi dossier irrisolti restano tali, dall’Ilva ai balneari. I salari e il tasso di occupazione sono i più bassi d’Europa, mentre abbiamo i record di povertà e di evasione. I pensionati aspettavano l’abolizione della Fornero: se la son vista riesumare e financo peggiorare. E l’idea sacrosanta della tassa sugli extraprofitti è svanita perché Marina B. (e dunque Tajani) non vuole. La Meloni poteva rischiare un po’ per cambiare qualcosa. Invece, come Andreotti, ha preferito tirare a campare per non tirare le cuoia. Il suo motto è quello futurista, ma alla rovescia: marcire, non marciare.

mercoledì 13 agosto 2025

Commozione

 


Scusate ma non riesco a trattenere le lacrime di gioia per questa notizia! Finalmente il passaparola che auspicavo da tanti anni sembra funzionare, Dio sia lodato! L’unico mezzo era quello per sfanculare la politica scellerata dei cervelli nostrani capaci solo di considerare la quantità come successo turistico, equiparando queste terre meravigliose per il silenzio, per il suono e il sapore del mare a una qualunque Gardland che al contrario si sostiene con i grandi numeri. Ma il passaparola internazionale sembra aver emesso la sentenza:”Cinqueterre? Per carità lascia stare! T’intruppano in treni costosi, scendi e sei appiccicato agli altri come sulla metro di Tokio; entri in un negozio e ti guardano in cagnesco e ti vendono la focaccia a prezzi della seta; devi fare la coda per mangiare, ti mettono a dormire in cantine riadattate a prezzi da 4 Stelle, se vuoi passeggiare sulla Via dell’Amore paghi in quattro 170 euro per dieci minuti. E gli rompi pure i coglioni!” Lascia stare, vai piuttosto in Spagna o in Francia!” 
Grazie amici turisti, mi avete commosso! 











Auguri a tutti noi!

 



Natangelo

 



Non le manda a dire

 

Chi boccia la pace sporca per interessi più sporchi
DI ELENA BASILE
I crimini israeliani si susseguono in questo agosto rovente, l’invasione di Gaza viene pianificata, le immagini macabre del genocidio in corso ci raggiungono sulle spiagge dove si continua a gioire di piccoli piaceri, a vivere distrattamente come se l’apparenza di un’umanità libera e spensierata, che ama i propri figli e gli animali domestici, piena di buoni sentimenti verso il cameriere di turno a cui lasciare la mancia, potesse resistere all’urto della cruda realtà. Ci sono due guerre in Europa e nel Mediterraneo: non in lande desolate che dobbiamo scoprire sorpresi sul mappamondo, ma nel nostro vicinato. Accanto a noi i ragazzi ucraini al fronte continuano a essere macellati in una guerra che non ha obiettivi strategici ed è già persa. In Palestina le torture inenarrabili di un popolo, di bambini e donne in maggioranza, non hanno fine, per mano del nostro alleato storico Israele, l’unica democrazia del Medio Oriente, come recita il catechismo occidentale. Del resto un ministro del governo Meloni ha comunicato recentemente la sua brillante sintesi, condivisa da una maggioranza di persone per bene, i benpensanti, coloro che fanno le code all’autobus o in un ristorante, esprimendo un grande senso civico: “La Russia è l’aggressore e Israele è l’aggredito”. Date le due minacce, il diabolico Putin e il terrorismo di Hamas, possiamo tornare ai nostri piatti stracolmi mentre la Democrazia trionfa, scannando bambini palestinesi e giovani ucraini.
Ritornando a quanto affermavo nel precedente articolo sulle variabili indipendenti in politica internazionale, mi sembra evidente come le classi dirigenti europee, non a loro nome ma sotto l’influenza di potentati che le coprono, osino oggi ostacolare il tentativo di accordo tra Putin e Trump in Alaska e chiedano a gran voce la partecipazione al vertice di un politico fantoccio, Zelensky, in rappresentanza loro più che del popolo ucraino. Oppure vogliamo credere che Macron, Starmer e Merz, instabili nei loro Paesi, in grado di rimanere a galla in virtù di tattiche imbarazzanti, siano oggi degli statisti che alzano la testa contro l’impero per difendere i valori democratici? Gli stessi che hanno subìto l’attacco ai gasdotti di proprietà anche tedesca e i dazi trumpiani, che balbettano patetiche contromisure accettando di fatto il genocidio a Gaza, bene, questi stessi sarebbero ora statisti che si oppongono nella Nato all’egemone statunitense? Se crediamo in questa narrativa, crediamo a Babbo Natale.
L’Europa e Zelensky non sono variabili indipendenti. Si oppongono alla “pace sporca” per difendere interessi, molto più sporchi, delle oligarchie mondiali. Sono stati messi lì e resistono aggrappati alla loro poltrona per questo. La Meloni, anche lei con le mani sporche di sangue palestinese, si accoda alle sanzioni alla Russia come arma di pressione al fine di ottenere un negoziato più favorevole all’Ucraina. È più scaltra di tanti e si aggrappa alla tesi più realistica e convincente. Peccato che il 18° pacchetto di sanzioni non influirà sul conflitto se non perpetuandolo e convincendo la Russia ad avanzare ancora e a conquistare nuovi territori. Non lo dicono i filoputiniani, ma la realtà, l’esperienza dei passati tre anni. Gli omuncoli al governo dell’Europa condannano Yaroslav, un giovane ucraino al fronte come Zahir a Gaza, aiutati dai pennivendoli che pullulano e dalla morte delle nostre coscienze.
Noi, i filoputiniani, quelli che amano il popolo ucraino e che per difendere le proprie analisi non prendono prebende dall’establishment, quelli sgridati da due anni perché osano parlare di genocidio, noi auspichiamo l’accordo in Alaska, basato sul riconoscimento della neutralità dell’Ucraina, dei territori conquistati a est del Dniper, sull’arresto immediato all’avanzata russa, sull’accettazione da parte di Mosca di un’Ucraina democratica vicina all’Europa (ma non pedina militare antirussa), sul ritiro delle sanzioni. Vorremmo anche la fine immediata di ogni cooperazione politico-militare ed economica con Israele, Stato genocida, da portare di fronte alla Cig come chiedono Sud Africa e Brics.
Purtroppo, data l’opposizione Usa, non sarà possibile un’azione di forza in Europa, Turchia, Paesi arabi moderati per impedire l’invasione di Gaza, né sarà possibile, come suggeriscono alcuni, che l’Assemblea generale dell’Onu grazie alla risoluzione 377/A del 1950 Uniting for peace avochi a sé, data l’immobilità del Consiglio di Sicurezza, le misure coercitive previste dal capitolo VII della carta e invii a Gaza i caschi blu contro il terrorismo di Netanyahu. I rapporti di forza contano e nessuno, né la Russia né la Cina, oserebbe sfidare Israele, pedina Usa e potenza sponsorizzata che tramite la lobby di Israele condiziona la politica americana. Siamo realisti e disperati. La demistificazione del linguaggio del potere continua senza grosse illusioni e concorre forse nel lungo periodo a una trasformazione culturale, prima che politica, della società occidentale.

Diversità

 

I sacri confini
DI MARCO TRAVAGLIO
Da che mondo è mondo, i negoziati che seguono alle guerre cambiano i confini degli Stati a vantaggio di chi le ha vinte. In Medio Oriente le guerre prima difensive e poi offensive di Israele hanno modificato decine di volte i confini di tutti i suoi vicini: Cisgiordania, Gaza, Egitto, Giordania, Siria, Libano. Solo nell’ultimo anno, nell’impunità totale, il governo Netanyahu s’è mangiato una fetta di Libano e una di Siria, dove anche la Turchia (membro Nato) controlla regioni a nord. Trump ha appena mediato, dopo 30 anni di guerra sanguinosa, la pace fra l’Armenia cristiana filorussa l’Azerbaigian islamico filoturco, che due anni fa cancellò dalla carta geografica l’enclave armena del Nagorno-Karabakh, con una spaventosa pulizia etnica e l’esodo di 120 mila superstiti. Dinanzi a queste e a molte altre violazioni del diritto internazionale e umanitario, l’Occidente non ha mai fatto una piega. Ora però è bastato l’annuncio che Trump e Putin si vedranno per chiudere la guerra in Ucraina con un compromesso territoriale perché i Dem Usa e l’Europa si sollevassero come un sol uomo sbraitando che “i confini internazionali non devono essere modificati con la forza”. Ma tu pensa.
Devono soffrire di amnesia o di narcolessia. Perché sono gli stessi Paesi Nato che nel 1999, regnante Clinton, mentre fingevano di trattare con la Russia (di Eltsin, non di Putin) a Rambouillet sulla crisi serba, iniziarono a spalleggiare i secessionisti albanesi e islamisti del Kosovo, fino a bombardare Belgrado e altri centri della Federazione Jugoslava per 11 settimane, col pretesto della pulizia etnica serba e fingendo di non vedere quella dell’Uck. Risultato: dai 1.200 ai 2.500 morti civili e un esodo di 300 mila serbi e rom cacciati dalle loro case, date alle fiamme insieme a ospedali, scuole, uffici postali e 150 monasteri ortodossi. La pace di Kumanovo, ratificata dalla risoluzione Onu 1244, impose il ritiro temporaneo dell’esercito serbo dal Kosovo, ma vi riconobbe la sovranità di Belgrado. Nel 2001 Milosevic fu arrestato dal Tribunale penale internazionale: fu trovato morto nel 2006, ancora in attesa di giudizio, nel carcere dell’Aja, dove spiccava l’assenza dei criminali di guerra kosovari. Nel 2008 il Kosovo proclamò unilateralmente l’indipendenza in barba a Kumanovo e all’Onu, cioè al diritto internazionale. Ma fu subito riconosciuto da Usa, Canada, Giappone, Australia e 22 Stati Ue, Italia inclusa (non invece da altri 91 Stati, fra cui Serbia, Russia, Cina e Spagna). Nel 2014 la Crimea e parte del Donbass si staccarono dall’Ucraina con tanto di referendum dopo il ribaltone di Maidan, ma nessuno in Occidente le riconobbe. Si erano scelti il nemico sbagliato: quello che confonde il diritto internazionale con il menu à la carte.

Pino Quattro

 

La Teologia della prosperità
DI PINO CORRIAS
A parte respirare, il principale scopo della vita, per Donald Trump è il dollaro. Quello che prospera per volontà divina, rende felici gli uomini, si moltiplica grazie agli affari. In nome dei quali vale tutto, la truffa, la prepotenza e i debiti da non pagare: “Ho fatto grandi cose coi debiti. Cioè, ovvio che si trattava di bravate, ma con me hanno funzionato, a me è andata bene”. Più che bene: eletto due volte comandante in capo, nonostante le quattro bancarotte, una infinità di indagini per evasione fiscale, dozzine di accuse per molestie sessuali, il buco nero dei suoi “viaggi di svago” con il pedofilo Jeffrey Epstein sul suo “Lolita Express”, la definitiva condanna nel processo per aver comprato il silenzio della pornostar Stormy Daniels.
La ricchezza, per Trump e per altri 40 milioni di evangelici convertiti alla “teologia della prosperità”, è dono di dio. La povertà una colpa. Le scusanti sociali sono cibo per i deboli. Il successo è il premio dei più forti. Chi contesta questa semplice verità dell’esistenza, sostiene Trump, è un perdente. Oppure un comunista. E il bello è che, nell’America profonda, gli credono sia i più poveri che i più ricchi.
La Bibbia è la sua ispirazione. Da presidente ne ha fatto stampare un’edizione da 60 dollari con la bandiera a stelle e strisce sullo sfondo della copertina in pelle, la scritta God Save America e ha aggiunto in appendice la costituzione americana, come fosse una integrazione del testo sacro, dedicata al popolo eletto. Presentandola alla stampa ha detto: “È il mio libro preferito, tutti dovrebbero averne una copia a casa”. In una delle sue dodici autobiografie – Pensa in grande e manda tutti al diavolo, anno 2016 – ha scritto che sono stati la Bibbia e il padre a insegnargli lo scopo della vita: combattere, vincere, avere successo. Lo stesso scopo da perseguire negli affari, dove serve perseveranza, coraggio, passione. Senza dimenticare il valore della vendetta: “Siate vendicativi negli affari”; “Attaccate alla gola chi vi ha fatto un torto”; “Colpite duro. Colpite in mezzo agli occhi”; “Fatevi ricchi a qualunque costo”. E per finire: “Se qualcuno mi dice pentiti, rispondo: perché dovrei pentirmi se non commetto mai errori?”. Neanche quella volta che provò a fregare il fisco con i gioielli di Bulgari.
(4 – Continua)

Improvvisamente

 


Nel brodo primordiale da anni impregnante quello che dovrebbe essere sulla carta un partito di sinistra, dopo decenni di consociativismo subdolo e puerile, dopo che cacicchi di ogni risma  ne hanno adulterato l'essenza, dopo che fanfaniani immobili, centristi della malora camuffati da riformisti solo per portare a casa la pagnotta, ronzini perennemente assopiti in modalità Gentiloni ne hanno smielato il desiderio di combattere le disparità, ma soprattuto, dopo che durante l'Era del Ballismo un Bullo ne ha deturpato l'anima con idee politiche tipicamente gattopardesche in grado di distruggere lustri di lotta politica come meglio non poteva fare lo zio puttaniere dell'egoriferito in questione, in questo momento politico in cui Elly, tra una supercazzola e l'altra, parrebbe essere sempre in procinto di avviare una sacrosanta pulizia di primavera atta a spazzar via acari e soprammobili protesi verso la glaciazione, e qualcuno pure con dei profumi in tasca non acquistati, ecco che, fulmineamente, come un passaggio illuminante di Pirlo, come un dritto in risposta di Jannik, stagliarsi nel già descritto bordo primordiale la figura di una persona già conosciuta e notata da tutti coloro che, da quel partito, attendono l'arrivo, da lustri, di qualcuno che proponga ragionamenti e traguardi dall'antico sapore di sinistra, lei, al secolo Silvia Salis attualmente sindaco di Genova, che, in semplicità, senza clamore, per pura dedizione alle proprie idee, si è recata a Stazzema nel giorno del ricordo della mattanza nazifascista - sottolineo: parteciparono attivamente fascisti, fascisti, fascisti - in cui persero la vita 560 martiri, di cui 130 bambini, per onorarne la memoria, per tenere in allenamento "il muscolo della Resistenza, che va allenato come la Memoria." 

parole sue: 

"La memoria della Resistenza è la nostra memoria, è la memoria di chi ha lottato per sconfiggere il fascismo e il nazismo. Com’è cominciato quell’orrore? Non con i carri armati o le bombe. Con le parole. È cominciato con il consenso di alcuni, ma soprattutto con l’indifferenza degli altri. Molti si girarono dall’altra parte, non tutti certo, e tanti pagarono un prezzo altissimo per questo, ma molti si piegarono o si abituarono. E il fascismo si nutrì di questo silenzio”. 

"la Resistenza non è un capitolo chiuso: la Resistenza è un muscolo. Ai ragazzi che sono qui vorrei dire: leggete, informatevi, incrociate le informazioni per distinguere il falso dal vero o ancora peggio dal verosimile, non lasciate che vi tolgano la capacità critica, il dubbio. Il dubbio è la cintura di sicurezza della democrazia. Chi vi dice che tutto è semplice, che c’è un nemico in agguato, che basta un ‘noi’ contro ‘loro’, non vi sta spiegando il mondo: ve lo sta restringendo. Imparate a dire no. Chiedo ai giovani: siate partigiani della complessità. Chiedo agli adulti: siate affidabili. Chiedo alla politica: siate all’altezza”. 

"non è più tempo di parlare di fascismo.  Il fascismo è un mutaforma. Non si distrugge facilmente. Il fascismo si traveste da hashtag e meme. Ma è sempre lui: il volto dell’odio travestito da protezione. È quando la politica smette di essere servizio e diventa culto della personalità”. Per questo, ha proseguito Salis, “Sant’Anna non è finita nel 1944. Sant’Anna continua a vivere oggi. Ogni volta che diciamo: io ci sono. Io non dimentico. Io resisto. Perché oggi la Resistenza non è finita. Oggi si resiste ogni volta che si combatte l’odio, la disuguaglianza, il razzismo, il negazionismo, l’indifferenza verso chi soffre, la violenza sulle donne, l’abbandono delle periferie, il silenzio verso le guerre lontane e verso quelle vicine, verso chi affama e massacra bambini. Oggi resiste chi ha il coraggio di pensare con la propria testa. Chi non si gira dall’altra parte. Chi sceglie il noi, non l’io. E allora io lo dico chiaramente: Non c’è spazio per il fascismo nella nostra Repubblica. Non c’è spazio per l’indifferenza nella nostra umanità”.

Già entrata nel mirino di pennivendoli peripatetici professionisti nello smerdare pericolosi avversari, come il Bazzone che dal suo giornaletto pulisciterga al tempo della campagna elettorale che la vide vincitrice, tentò di infangarla inventandosi calunnie su un incidente avvenuto anni prima, Silvia Salis rappresenta, se fossimo nel mondo Marvel, l'Anti-Picierno, la Pina guerrafondaia che paghiamo per sparar cazzate a Bruxelles, ma è anche l'Anti-Guerini, gli antipodi di quel modo insano di far politica per piacere ai poteri forti, per riverirne le scelte improvvide, per restare nello sciacquetio inconcludente di chi vede nella politica un mestiere da procrastinare per l'eternità. 

Per ultimo occorre evidenziare l'assordante silenzio della damigella del Trumpone, la pseudo democratica premier impelagata attualmente in vicende molto più grandi di lei, tipo l'immobilismo dinnanzi al genocidio sionista del popolo palestinese, o la constatazione di non contare una mazza assieme agli altri nani europei difronte alle psichiatriche vicende belliche internazionali. Non ha detto nulla riguardo all'anniversario della strage nazifascista di Stazzema. Non una dichiarazione, non un pensiero. Nulla, come la valenza della sua persona. 

Grazie Silvia Salis di esserci! 






martedì 12 agosto 2025

Perché mi piace...

 ...la letteratura russa! 


Tu sai che il capitale schiaccia il lavoratore. Da noi gli operai, i contadini sostengono tutto il peso del lavoro e sono posti in una condizione tale che, per quanti sforzi facciano, non riescono ad uscire dalla loro situazione di bestie da soma. Tutto il margine del guadagno, col quale potrebbero migliorare la loro sorte, procurarsi un po’ di tempo libero e con esso l’istruzione, tutto il soprappiù della paga è sottratto loro dai capitalisti. E la società è congegnata così che più quelli lavorano, più s’arricchiscono i mercanti, i proprietari di terre, mentre loro rimangono sempre bestie da soma. Quest’ordine di cose va mutato – e guardò fisso e interrogativamente il fratello.

Tolstoj, Lev. Anna Karenina 


Sono passati secoli da quando il grandissimo Lev scrisse Anna Karenina, ma nulla è cambiato, anzi, si è accentuato oltremodo l'abisso tra i lavoratori e il signor padrone, il quale, azzerando il rischio d'impresa, si è specializzato nel modello arpia, dilatando spaventosamente il profitto a scapito del lavoratore che, come diceva Marx, il salario è solo sopravvivenza, mentre il plusvalore derivato dal lavoro umano se lo pappa tutto il capitalista. E siamo ancor'oggi a trattare di plusvalore assoluto (vengono allungate le giornate lavorative che oltre alla sopravvivenza producono plusvalore) e relativo (con i macchinari che diminuiscono la tempistica per la sopravvivenza del lavoratore, aumentando il plusvalore.) 

Vi rendete conto che nulla è cambiato, e che tutto è peggiorato in questo tempo che lorsignori definiscono moderno? Ma de che?    

I piccoli sanno la Verità!

 


La Verità è incardinata nei piccoli, nelle coscienze libere che questo mondo infame, cattivo, stordisce crudelmente con soprusi e violenze inaudite. Ma loro sono i custodi della Verità, come Adam superbamente conferma con il suo desiderio: voglio studiare, voglio rompere i sigilli ed elevarmi, capire, comprendere, assaporare le beltà che criminali e manigoldi tentano di impedire, subdolamente attraverso media di potere che portano al rimbambimento, con decisioni animalesche che spazzano via il desiderio di conoscere. 

Adam lo sa da sempre che la via stretta è quella che conduce alla realizzazione di se stesso! Adam ha voglia di uscire dal mondo che ci stanno cucinando questi zimbelli dell'umanità, coloro che credono nel potere della violenza e delle armi, coloro che trafficano per i loro progetti violenti per circuire i sani di mente. 

Adam è il testimone della sollevamento delle menti contro il potere fascista che oltre a stordire, tenta di instradare giovani verso i ninnoli della visibilità, verso l'odio per i propri simili, verso l'arroganza capitalistica fine a se stessa. 

"Ora voglio studiare" è la chiave per annichilire gli stolti, gli assassini, i trafficanti di menti! 

Beoti brontosauri incastonati attorno al potere che perseguono proponimenti infingardi, subliminali, al fine di proseguire nella canicola dell'instabilità per essere perennemente in tolda a comandare, coadiuvati da quella pletora di lecchini sempre pronti a supportare le loro scelleratezze, tipica della stampa di regime che per un pezzo di pane è pronta, da sempre, a rinnegare libertà di coscienza, fermezza e ricerca del vero. 

Guardiamoci intorno: oltre agli analfabeti, ancora esistenti, un buon 40% non è in grado di comprendere quel che legge, altri sono attratti da programmi idioti e mortificatori dei pochi neuroni ancora in possesso; l'idiozia è padrona di casa, basta guardare la gentaglia che attornia il leader maximum della dabbenaggine, il gigante biondo americano che crede ancora di essere lo sceriffo del mondo, e che gli idioti europei al potere tendono a supportare non avendo nessuna visione politica decente. Guardate gli assassini sionisti deturpanti religioni millenarie, assetati di sangue nel loro analfabetismo umano. 

Adam ha assaporato il nettare e vuole conoscere, per capire, per lottare. Non sarai mai solo Adam!  

Basterebbe una foto!

 


Questa foto con citazione impazza nel web a proposito dell’infausto progetto delle separazioni delle carriere della magistratura, un desiderio inappagato dell’attuale residente nel mausoleo a cui hanno intitolato pure un aeroporto. Il bastardo in foto, Licio Gelli, fu il burattinaio per molti anni della politica italiana, pagò di tasca sua l’organizzazione dell’assassinio fascista alla stazione di Bologna; amico di clero fascista e di apparati dello Stato,fondò la loggia segreta P2 a cui aderirono politici, generali, uomini di spettacolo e pure il mausoleante di cui sopra. Basterebbe solo questo per tenersi alla larga da una scelta politica improvvida che pervicacemente i fascistelli al potere ci stanno presentando invece come modernità ed innovazione giuridica. Basterebbe se fossimo una nazione seria e libera, attualmente pura utopia.

Natangelo

 



PinoTre

 

Lo stratega anti-minoranze
DI PINO CORRIAS
Roy Cohn (1927-1986) ha gli occhi blu e il cuore nero. È avvocato di prima classe con parcelle adeguate. Difende John Gotti, il mafioso, Aristotele Onassis, l’armatore, Richard Nixon, il presidente. Negli Anni 50 cresce all’ombra del senatore McCarty, il cacciatore di comunisti che si nascondono a Hollywood, a Washington, al Pentagono. Dirige interrogatori spietati contro gli omosessuali, che accusa di essere un pericolo per la sicurezza nazionale e si vanta della condanna a morte dei coniugi ebrei Rosenberg, accusati di essere spie comuniste. Lui è ebreo, ma non se ne cura. È omosessuale, ma lo nasconde.
Siccome di lui dicono “se hai un problema con l’inferno, Roy te lo risolve”, Donald Trump non vede l’ora di ingaggiarlo. Accade nei primi Anni 70 quando il governo lo accusa di “discriminazione razziale” perché nei palazzi costruiti dal padre non si fanno contratti d’affitto ai neri. L’accusa è vera e documentata, ma Cohn rivolta la frittata, denuncia il governo per danno di immagine, chiede un risarcimento di 100 milioni di dollari: “È ingiusto pretendere che il mio cliente affitti a chi vive di sussidi”.
Trump lo ammira e impara da lui le tre regole per gestire il potere: “Attacca sempre”, “Non ammetterai mai una colpa”, “Grida che hai vinto anche quando hai perso”.
Non ha mai derogato alle tre regole, usandole in tutti gli affari a seguire, l’acquisto dei suoi primi Casinò ad Atlantic City e della tenuta di Mar-a-Lago a Palm Beach, in Florida. Le battaglie per costruire grattacieli e campi da golf nel mondo, gli scontri legali per difendersi da collusioni mafiose e scandali sessuali. E poi ancora le ha usate durante il primo mandato da presidente e dopo la sconfitta del 2020 contro Joe Biden, quando ha gridato ai brogli elettorali, aizzato i suoi guerrieri all’assalto di Capitolo Hill, negando sempre di avere perso. E specialmente le usa oggi, di nuovo seduto sul trono dello Studio Ovale, da dove attacca, nega, inventa.
Come tutti i clienti più potenti anche Trump molla Roy Cohn, quando a metà del 1985 si sparge la voce che sia ammalato di Aids, cosa che lui negherà sempre: “Ho il cancro al fegato e mi sto curando”. L’ordine degli avvocati, ora che è diventato debole e solo, lo radia “per condotta non etica”. In sei mesi, la malattia fa il resto.
(3 – Continua)

Pazzi nani politichesi

 

Ma ci siete o ci fate?
DI MARCO TRAVAGLIO
Ormai è ufficiale. La cosiddetta Europa, dopo 70 anni di onorato servizio col suo mezzo miliardo di abitanti, il suo bagaglio di cultura e diplomazia, esiste solo per sfornare documenti destinati a essere smentiti, cioè a finire nel cestino o a incartare il pesce. E per tenere in vita una classe dirigente inutile e inconcludente che non troverebbe un lavoro normale neppure se piangesse in cinese. Dopo 41 mesi persi a sfornare sanzioni a Mosca, ad armare Kiev pur di non darle l’unica cosa che le serve (le truppe), a trotterellare come botoli dietro a Rimbambiden, a votare risoluzioni sulla “vittoria militare sulla Russia”, a sabotare ogni vagito di negoziato e a prendere a cornate la realtà, questi inetti scioperati non si danno pace perché Trump fa ciò che aveva sempre promesso: trattare con Putin per chiudere la guerra, facendo un favore a se stesso, agli ucraini e soprattutto all’altra vittima del conflitto: l’Europa.
Cosa vogliano Trump e Putin si sa. Trump vuole risparmiare sugli enormi costi della guerra per procura, normalizzare i rapporti con la Russia per usarla sui tavoli che gli interessano (Cina, Medio Oriente, Baltico, Artico), passare alla storia come il presidente pacificatore (anche perché, come presidenti guerrafondai, i suoi predecessori sono imbattibili). Putin vuole anche lui risparmiare sugli enormi costi della guerra, ratificando le conquiste collezionate sul campo e fermando l’avanzata della Nato a Est, e veder riconosciuto al suo Paese il ruolo di potenza mondiale; ma sa anche di poter continuare a combattere e vincere a lungo. Gli unici che non si sa cosa vogliano sono, oltre a Zelensky, gli europei. Zelensky va capito: non vuole passare alla storia come il presidente che cede il 20% del suo Paese, non volendo ammettere che l’alternativa è continuare a combattere, cioè ad arretrare, e perdere pure il restante 80% o almeno una parte. Dice: “Non regalerò i territori occupati ai russi”, ma dimentica che si può regalare ciò che si possiede, non ciò che si è perduto. Gli europei invece sono un caso psichiatrico. Alla notizia del vertice Trump- Putin in Alaska, il sestetto Ursula-Macron-Merz-Starmer- Tusk-Meloni ha scritto che “l’attuale linea di contatto dovrebbe essere il punto di partenza dei negoziati“, ma “i confini internazionali non devono essere modificati con la forza”. La linea di contatto è il fronte bellico di 1.200 km, da Odessa a Sumy, dove i russi avanzano ogni giorno da due anni ininterrotti: in che senso vogliono partire dai nuovi confini, ma senza modificarli? L’hanno capito che finire subito la guerra conviene solo all’Ucraina, militarmente ed economicamente in ginocchio, e sta a Kiev e agli alleati proporre concessioni per convincere Putin a fermarsi? O serve un disegnino?

lunedì 11 agosto 2025

Lunedì 23 settembre 1983

 


Ad esempio....

 



Ah però!

 



Coerenti

 

Alla Sagra dello Stoccafisso di Cittanova (RC) han deciso di dare 100mila euro ad uno stoccafisso per esibirsi! Quando si dice la coerenza!



Spontaneità

 



Natangelo

 



Sempre loro

 

Bilanci truccati. Parte il campionato, tutti in regola tranne la Juve: silenzio di Stato
DI PAOLO ZILIANI
Fra pochi giorni, sabato 23, comincerà il campionato di Serie A: che tutti sperano essere regolare. Ma se sull’imparzialità degli arbitraggi non resta che accendere un cero alla Madonna, sul rispetto delle regole amministrative non c’è bisogno di aspettare che il pallone rotoli per sapere se tutto è in regola. Già oggi, per quanto riguarda la Juventus, sappiamo che di regolare non c’è niente. E a dirlo non sono io, ma gli enti competenti e gli organi preposti ai controlli: anche se come sempre accade tutti fanno finta di niente. Ancora una volta si partirà con 19 club che hanno un regolamento da rispettare e il ventesimo (o il primo?) che le regole se le fa in casa. Senza che nessuno obietti.
Per chi si fosse perso le ultime puntate, il 25 ottobre 2023, cioè 21 mesi fa, con una delibera ufficiale (la 22858) la Consob ha ufficialmente comunicato l’accertamento della “Non conformità del bilancio d’esercizio al 30 giugno 2022 e del bilancio consolidato semestrale al 31 dicembre 2022 della società Juventus”. L’organismo di controllo aveva aperto un’indagine sul club bianconero che dopo le sanzioni subite nella primavera dello stesso anno (squadra penalizzata di 10 punti in Italia e squalificata per un anno in Europa per gravi e reiterate irregolarità amministrative) aveva cambiato l’intero CdA ma senza cambiare il modo, illecito, di stilare i bilanci. Contestate alla società le accuse, la Consob ha convocato la Juventus in audizione, ha ascoltato le contro-deduzioni portate a discolpa ma le ha respinte in toto. La nuova società presieduta da Ferrero si sta comportando come la vecchia, non rispetta i princìpi contabili basilari come lo IAS 38 relativo alle plusvalenze (e altri) e i suoi bilanci sono da considerare “non conformi”, cioè irregolari. Come quelli di Agnelli.
Cos’è successo a quel punto? È successo che nel più totale silenzio dei media sulla vicenda, che pure è la fotocopia di quella che nella primavera 2023 ha portato allo tsunami sportivo (e non solo: il processo penale a Roma è tuttora in corso) che tutti ricordiamo, il club bianconero ha fatto ricorso al Tar cristallizzando il procedimento. Sono passati ventun mesi e il Tar, udite udite, non si è ancora pronunciato. Nel frattempo la Consob ha sanzionato anche Deloitte, la società di revisione dei conti di Madama, per non aver correttamente operato: e Deloitte ha a sua volta presentato ricorso alla Corte d’Appello. Il tutto mentre al Tribunale di Roma il 27 giugno Andrea Agnelli e gli altri dirigenti juventini a processo per l’inchiesta Prisma hanno chiesto il patteggiamento: il 22 settembre il Gup Anna Maria Gavoni renderà note le sue decisioni. Inutile dire che anche se le delibere Consob sono atti pubblici e riguardano fatti nuovi, non compresi nelle carte dell’Inchiesta Prisma, la Procura Figc dorme il sonno dei giusti.
Come se non bastasse, in un diverso processo in svolgimento a Roma, quello sull’eredità sottratta alla madre Margherita dai figli John, Ginevra e Lapo Elkann, sul banco degli imputati oltre a John, che della Juve è il proprietario, è finito anche Gianluca Ferrero, commercialista degli Elkann e nuovo presidente della Juventus. Deve rispondere oltre che di truffa ai danni dello Stato anche di “falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico”. Posizione delicatissima. Quel che è certo è che la sua vita da presidente della Juventus, come fu per Agnelli a fine 2022, è ormai giunta al capolinea. Avanti un altro.
E insomma siamo alle solite: il campionato ricomincia ma con il verme dentro. E però, a casa (o meglio, alla Real Casa) tutti bene.

Conti in ordine?

 

Più povertà e più sfruttamento: l’occupazione modello Meloni
DI PASQUALE TRIDICO* E LORENZO CRESTI**

Il governo Meloni rivendica un trionfo occupazionale. Ma dietro i numeri del lavoro si nasconde un’operazione chirurgica – e crudele – sul mercato del lavoro: non un’espansione virtuosa dell’occupazione, ma un record di lavoro povero e un’espulsione silenziosa delle tutele. Un’operazione che è partita da un momento preciso: lo smantellamento del Reddito di Cittadinanza, la misura che aveva finalmente introdotto un minimo sindacale di dignità nelle dinamiche tra chi offre lavoro e chi è costretto a cercarlo.
La logica è quella della teoria del salario di riserva: se esiste un sussidio che garantisce un tenore di vita (per quanto minimo) alternativo allo sfruttamento, il lavoratore ha potere contrattuale. Le imprese – almeno quelle meno inclini a rispettare diritti e contratti – devono offrire di più. La risposta del governo è stata semplice: togliere l’alternativa.
Con la soppressione dell’RdC e l’introduzione dell’Assegno di Inclusione (Adi) e del Supporto per la Formazione e il Lavoro (Sfl), l’esecutivo ha ristrutturato il sistema di welfare in senso fortemente selettivo. I numeri forniti dal rapporto Inps 2024 parlano chiaro: dei 418.000 nuclei familiari che avrebbero potuto accedere alle nuove misure, meno della metà ha effettivamente presentato domanda. Circa 212.000 nuclei non hanno ricevuto nulla. Il risultato? Un drastico ridimensionamento della platea dei beneficiari e una ridistribuzione della povertà, non un suo contrasto.
Le nuove misure colpiscono soprattutto chi ha minori, disabili o anziani a carico. Secondo il rapporto, il 60% delle domande di Adi per nuclei fragili è stato respinto. A essere esclusi sono anche gli stranieri (solo il 7% dei percettori di Sfl è comunitario o extracomunitario), le donne con carichi di cura e chi ha un Isee appena sopra la soglia. L’Adi, con appena 52.700 domande effettivamente accolte, e il Sfl, con solo 17.600 persone effettivamente inserite in percorsi attivi, coprono una frazione minima di quanto copriva l’RdC.
Ma non è solo un problema quantitativo: l’accesso al Supporto per la Formazione e il Lavoro richiede competenze digitali non banali, diventando così una misura tecnocratica e classista, che punisce gli esclusi due volte: prima per povertà, poi per ignoranza digitale.
Questa selezione feroce ha prodotto un effetto immediato sul mercato del lavoro: un improvviso aumento della forza lavoro disponibile, soprattutto nella fascia bassa della scala salariale. Senza misure che garantissero una crescita della domanda, lo squilibrio ha provocato ciò che l’economia definisce uno shock di offerta: quando tanti cercano lavoro, ma pochi lo offrono, i salari crollano.
L’effetto? Più persone hanno un impiego, ma a condizioni peggiori. Secondo dati e testimonianze raccolte da associazioni e sindacati, si moltiplicano i contratti di poche ore, i part-time forzati, le paghe sotto la soglia della sopravvivenza. Persone in condizioni economiche modeste, cioè con valori bassi di Isee, vivono il ricatto di dover accettare qualsiasi contratto, anche se devono lavorare 30 ore a settimana per meno di mille euro al mese. Se poi vivi in una grande città devi scegliere se fare la spesa o pagare l’affitto. E chi non accetta queste condizioni, spesso, finisce nel lavoro nero. Ma per l’Istat questo è “inattivo”, e così la disoccupazione cala artificialmente.
In base agli ultimi dati Istat, relativi al 2023, la povertà assoluta in Italia colpisce l’8,5% delle famiglie e il 9,8% degli individui, per un totale di 2 milioni 235 mila famiglie e 5 milioni 752 mila individui. Negli ultimi 10 anni, l’incidenza della povertà assoluta a livello familiare è salita dal 6,2 all’8,5%, e quella individuale dal 6,9 al 9,8%.
È utile anche l’ultimo Rapporto Caritas per capire meglio. Non solo è aumentata la povertà di chi non ha lavoro, ma anche di chi ce l’ha: il 48% di chi cerca aiuto ha infatti un’occupazione formale, spesso anche a tempo pieno. Fra le testimonianze raccolte dalla Caritas troviamo Valeria, 36 anni, commessa part-time a Milano: “Lavoro 30 ore a settimana e a fine mese non arrivo comunque a 900 euro. Devo scegliere se pagare le bollette o fare la spesa”. Il Reddito di cittadinanza avrebbe almeno integrato il suo reddito familiare fino a 1.300.
E anche il rapporto Istat 2025 su condizioni di vita e reddito delle famiglie – riferito al 2024 – registra un aumento: il 23,1 % della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale (in aumento dal 22,8 % del 2023).
Nel frattempo il governo ha allentato le maglie dei controlli sui contributi: oggi un’azienda può trattenere i versamenti previdenziali dei dipendenti per tre mesi senza subire conseguenze immediate. Un credito a costo zero, pagato con i diritti dei lavoratori. Inoltre, sono tornati (peggiorati) i voucher, che non coprono più nemmeno le finzioni contrattuali del passato. Il rischio, concreto, è quello di una regolarizzazione del precariato sotto forma di “opportunità” e “flessibilità”.
Giorgia Meloni ha creato occupazione senza dignità e ha intrappolato forza lavoro in una trappola: povera, precaria, frammentata, invisibile. Ha ristretto le tutele ai “meritevoli”, dividendo i poveri in serie A, B e C. Ha trasformato il mercato del lavoro in un’arena in cui chi è disperato lavora per sopravvivere, non per vivere.
È un modello di Paese che non premia il lavoro, ma il ricatto. E che si regge su un’equazione disumana: se hai fame, accetti tutto. Anche l’ingiustizia.
*Economista, europarlamentare M5S