lunedì 30 giugno 2025

Neil

 

Fumantino, ecologista, militante: la fiamma di Neil Young è eterna
DI ANDREA SCANZI
Vai a vedere Neil Young, 80 anni a novembre, e ti chiedi come lo troverai. Dubbio lecito: un tempo gli eroi eran tutti giovani e belli, mentre adesso son quasi tutti vecchi e provati. Da una parte i mostri sacri di ieri, con tutto il loro passato irripetibile. E dall’altra gli artisti bagatellari (non tutti ma troppi) di oggi, con tutto il loro presente prescindibile.
E invece il vecchio Neil è in gran forma, e il palco è ancora casa sua. Per questo tour, lui che i grandi classici non li ha mai garantiti dal vivo, propone pure una scaletta conciliante e addirittura indulgente, perfetta per il fan talebano come pure per chi di Young conosce giusto Harvest e poco più.
Copenaghen, terza data europea del suo Love Earth World Tour, che andrà avanti fino a metà luglio ma che purtroppo non toccherà l’Italia (e per questo, se lo si vuole vedere, tocca spostarsi). Uno spazio verde enorme e strapieno, poco distante dall’aeroporto. Neil si presenta alle 20 spaccate, dopo un apripista danese tutt’altro che irrinunciabile (Peter Sommer). Sedici brani, quasi tutti torrenziali, con code chilometriche di chitarra/basso/batteria (a partire da Be The Rain e Sun Green). Cento minuti di musica che parte piano – complice qualche guaio tecnico nella iniziale Comes a time – e deflagra canzone dopo canzone, fino a un’ultima mezz’ora semplicemente irresistibile.
La generazione di Neil – Pink Floyd, Rolling Stones, Led Zeppelin, Eric Clapton, Bob Dylan eccetera – è incredibile e inspiegabile. Hanno vissuto mille vite, bevuto e fumato di tutto. Eppure, se non sono morti prima e sono arrivati chissà come fino a questo nostro presente cacofonico e vuoto, mangiano ancora in testa a tutti.
Young, poi: da bambino gli diagnosticarono diabete e poliomielite. Col successo – vissuto malissimo e ottenuto con un album che continua a mal sopportare – si è scornato con droghe, alcol e depressione. Ha perso troppi amici per overdose e suicidio, sentendosi ogni volta dannatamente in colpa come se tutto (anzitutto il dolore) dipendesse da lui.
Negli anni ha avuto un aneurisma, problemi di udito, altri acciacchi ancora. Eppure adesso te lo ritrovi lì, stesso look iconico di sempre e stessa voce benedetta dai demoni. Talento totale, scorbutico, poliedrico. Carisma a fiotti, chitarrista viscerale, mai di maniera bensì passionale e brutalmente sincero.
Gibson per la parte elettrica (dominante), Martin per quella acustica. Con lui ci sono i The Chrome Hearts, schietti e privi di fronzoli come Young.
L’unica concessione dal periodo Crosby Stills Nash & Young è Name of Love. Gli evergreen eseguiti non sono pochi: Hey hey, My my, The Needle and the damage done, Old man, Harvest Moon, Down by the River, Rockin’ in a free world. A un certo punto, proprio durante l’ultimo bis, il cielo si mette a piovere di colpo, ma lo fa giusto quaranta secondi, non per disturbare ma come tributo ulteriore a un artista molto più rigoroso e coerente che pazzo.
Ecologista ante litteram (aveva ragione pure lì). Militante (detesta Trump, e come dargli torto). Fumantino (con laurea ad honorem). Unico a beccarsi una denuncia da una sua casa discografica (la Geffen) perché, negli Anni Ottanta, fece effettivamente di tutto per non vendere una mazza e proporre sonorità che c’entravano pochissimo con l’idea che gli altri avevano di lui.
Tra il ’69 e il ’79 ha sbagliato al massimo mezza nota, nei Novanta ha vissuto un altro decennio di ispirazione irreale. Detesta il successo e, se potesse, cancellerebbe per davvero Harvest (e sbaglierebbe, buon Dio!).
“Padrino del grunge”, maestoso tanto nel rock più incendiario coi Crazy Horse quanto nella rarefazione acustica più ancestrale (il suo Live at Massey Hall del 1971 andrebbe insegnato nelle scuole, come pure l’Unplugged del 1993). Capace di dare del tu a qualsiasi genere. Immortale benché mortale, più sopravvivente che sopravvissuto, longevo e pressoché eterno a dispetto di se stesso.
Quando abbandonò questo mondo, Kurt Cobain citò una strofa di Young (tratta da My My, hey hey) nella sua lettera d’addio. Recita così: “È meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”.
Il concerto di Copenaghen è la conferma ulteriore di come Neil abbia preso in contropiede tutti pure qui: lui brucia di continuo, senza però spegnersi mai.

domenica 29 giugno 2025

Eredità



Cosa ci lascia la rapto veneziana degli oligarchi plutocrati? Un amaro sapore in bocca non dettato da sentimenti d’invidia, ci mancherebbe! Riecheggia infatti il moto del Marchese del Grillo “io so io e voi nun siete un caxxo!” di questi signorotti globali, che ci hanno pure lasciato la mancetta, dopo le nostre riverenze profuse, dopo che gli abbiamo concesso il dispiegamento di forze militari a difendere la loro sacra privacy esternata da quel pagliaccio di Di Caprio che gira sempre col cappellino a coprirsi il volto, forse per la vergogna dovuta allo scarrozzare col jet privato mentre dispensa ad allocchi inviti a salvare il pianeta dall’inquinamento. La gravità di ciò che i ricconi hanno esternato è un’altra: abbiamo lasciato loro quella immotivata corona regale simbolo del potere assoluto, autocovincendoli a travalicare moralità, socialità, comune senso d’appartenenza della specie. Sono convinti, grazie a noi, di essere in grado di decidere, d’agguantare ogni bene comune a disposizione di tutti, di scorrazzare tra stati impunemente, senza alcuna remora, senza alcun dovere, godendo d’immunità, soprattutto fiscale, in grado pure di prenderci per i fondelli, gratuitamente. Se ancora qualcuno ne dubitasse, il feudalesimo è tornato più forte che mai, è tra noi, s’arricchisce depredando le risorse comuni e lasciandoci basiti per l’opinatezza eclatante dimostrata nella tre giorni veneziana, un cammeo che i nostri discendenti un giorno studieranno con voracità, visto che già sin d’ora non si comprende come sia possibile idolatrare quattro cialtroni dediti ad un capitalismo deviato e pure onnivoro, anticamera di uno sconquasso generazionale che, Dio lo voglia, potrebbe aprire ad un’età dell’oro, quella rivoluzionaria. Al momento però siamo ancora nella fase della degustazione della brioche appena lanciataci dagli sposini del pacco. Sai che culo!

L’Amaca


Il peso specifico della libertà 
di Michele Serra

Forse, dopo il Pride di Budapest, sarà più chiaro a tutti che i diritti della persona sono cosa di primissimo rilievo politico. Non un “falso obiettivo” per una sinistra disorientata e ripiegata su se stessa, non uno sfizio, e quasi un vizio, da occidentali annoiati, non uno spreco di energie distolte dalle questioni sociali e salariali.

No: qualcosa che riguarda l’essenza stessa della democrazia, in grado di costringere un intero continente, classe politica e opinione pubblica, a riflettere su se stesso, con l’odio fascista che si mette (inutilmente) di traverso e il truce governo ungherese isolato e costretto alle corde assieme al cospicuo novero dei suoi alleati europei, governo italiano in primo luogo.

Il Pride (con il suo ampio corollario di movimenti e di attivisti) è un fiume gonfio di libertà, il folklore da un lato, l’eccesso di pedanteria ideologica dall’altro, non levano peso a una materia per nulla fumosa, fatta di persone in carne e ossa e di vite quotidiane (non si dice sempre che la politica deve occuparsi della vita quotidiana delle persone?).

Orbán lo sa benissimo, che la sostanza di quel movimento è una visione plurale e liberale della società, e per questo, in sintonia con il suo faro politico Putin, non lo sopporta: fino a vietarlo. Ieri (sabato 28 giugno) ha perso clamorosamente una battaglia importante, e ancora non si sa chi vincerà la guerra. Ma di qui in poi il vecchio argomento “si parla troppo di diritti, poco di politica vera” ha perso ragione d’essere.

Avanti marsc!


Polli Aia 

di Marco Travaglio 

Leggendo in rapida successione due interviste dei generali Portolano e Tricarico e l’editoriale crivellato dal maresciallo Panebianco con raffiche di mitra, stavo per convertirmi al riarmo. Dice il Portolano, arrapatissimo dalle decine di miliardi che stanno per piovere dal cielo, che dobbiamo “puntare su organici, droni, copertura aerea, munizioni, forze corazzate, artiglieria, genio, batterie equipaggiate con missili di nuova generazione”. Per far che? Per avere la “prontezza operativa” a “sostenere un conflitto come quello russo-ucraino in corso”. Ora, la Russia ha invaso la confinante Ucraina per impedirle di entrare nella Nato e di continuare a bombardare le regioni russofone del Donbass. Evidentemente c’è un Paese confinante con noi che medita di invaderci per impedirci non di entrare nella Nato (ci siamo da sempre), ma di bombardare la minoranza ladina in val di Fassa o quella tedesca in Sudtirolo? Il Tricarico, affranto per la “crisi vocazionale che ha reso il mestiere delle armi meno appetibile”, vuole rimpinguare l’esercito, riportare in caserma i 7 mila soldati di Strade sicure e “rendere richiamabile nella riserva chiunque ha lasciato il servizio attivo da un certo numero di anni: per esempio io”, che ha appena 83 anni. Perché “i granai sono vuoti” (forse voleva dire arsenali) e c’è “una guerra alle porte”. Con chi, per riservatezza, non lo dice. Ma si lascia sfuggire che, “se l’Italia venisse attaccata come Israele dall’Iran, non potremmo difendere i cittadini”. Per la verità è Israele che attacca l’Iran e questo risponde, ma non è uso attaccare Paesi a cazzo: se evitiamo di bombardarlo, è probabile che non bombardi noi e le cellule di Hezbollah in Val Brembana restino dormienti. Poi c’è il mar. Panebianco, che divide i nemici del riarmo fra “amici del giaguaro” (i “putinian-pacifisti”), “europeisti della domenica” e “sonnambuli” che perdono tempo in “calcoli complicati su quanto costerà ai cittadini” con tagli a “sanità, pensioni, scuola e altro”: quisquilie.
Quando stavo per arrendermi, ho letto l’articolo di Gianandrea Gaiani (Analisi Difesa) sul “pavone Trump” e i “polli europei” al vertice Nato dell’Aia: “Il 5% del Pil alla Difesa non ha nulla di militare: i piani di sviluppo delle forze armate si fanno definendo cosa occorre per conseguire le capacità stabilite, il tempo necessario e il costo, e poi reperendo le risorse. Non certo stabilendo a priori percentuali di Pil”. Trump vuole solo che “gli europei comprino armi Usa per riequilibrare la sua bilancia commerciale”. E i “polli” scattano sull’attenti, “schiacciati tra l’incudine del 5% di Trump e il martello degli 800 miliardi a debito imposti dall’Ue: il primo per favorire gli Usa, il secondo la Germania. In entrambi i casi, paghiamo noi”. Cornuti e contenti.

sabato 28 giugno 2025

Fermiamo questa malefica crucca!

 

Prima che sia troppo tardi fermiamo questa malvagia assatanata! 




Scrollando

 





Natangelo

 



Sindrome

 

ll personaggio
Olofsson, il bandito gentile della sindrome di Stoccolma
di VIOLA ARDONE
Racconta Proust nel quinto volume della Recherche che Madame de La Rochefoucauld a chi le chiedeva se fosse felice di vivere in una così bella dimora rispondeva: «Non esistono belle prigioni». Parallelamente, il Narratore e Albertine, protagonisti di questo romanzo che si intitola proprio La Prigioniera , vivono una complicata storia di gelosia e di reclusione tormentata dal bisogno di possesso e di controllo, una ambigua relazione di prigionia in cui i ruoli di vittima e carnefice sono strettamente legati e in qualche modo intercambiabili. Ma se è vero che non esistono belle prigioni, è altrettanto evidente che in alcuni casi la prigionia può generare reazioni del tutto controintuitive rispetto al senso comune.
Nel 1973, nel corso di un colpo alla Kreditbanken di Stoccolma, il rapinatore Jan-Erik Olsson chiese e ottenne la liberazione di un detenuto suo amico, Clark Olofsson, in cambio della vita di quattro ostaggi. Da quel momento accadde qualcosa di inspiegabile e la rapina, con annesso rapimento, prese una piega che nemmeno lo sceneggiatore più spregiudicato avrebbe potuto immaginare. Olofsson, arrivato sulla scena della rapina, riuscì a creare con gli ostaggi un clima di empatia e solidarietà, al punto tale che questi passarono in breve tempo dalla parte dei loro carcerieri, mostrandosi per converso ostili alle forze dell’ordine intervenute per liberarli. Kristin Enmark, una delle persone sequestrate, nel corso di una comunicazione telefonica con il primo ministro svedese Olof Palme che si adoperava in prima persona nella trattativa, affermò di avere grande fiducia in “Clark”, dal momento che si era mostrato premuroso nei loro confronti e che, anzi, lei e gli altri reclusi stavano bene e «si divertivano».
Olofsson, che per quell’episodio venne assolto anche grazie alle testimonianze degli ostaggi, è morto ieri all’età di 78 anni, a lui e alla sua storia è rimasta legata l’espressione “Sindrome di Stoccolma”, coniata dal criminologo e psichiatra svedese Nils Bejerot per indicare quel paradosso emotivo che nasce dal corto circuito psichico tra libertà e prigionia, tra dentro e fuori, tra aiutante e oppositore. La Sindrome non ha trovato spazio nella letteratura scientifica e non è descritta nei manuali di psichiatria, eppure in questi cinquant’anni è diventata così nota da essere ormai un’espressione comune, usata (e spesso abusata) in contesti molto differenti. Ma come si spiegano i sentimenti positivi che possono nascere nella vittima nei confronti del suo aguzzino? C’è un fondo di verità scientifica in questo processo che ha ispirato opere letterarie e cinematografiche basate appunto su una sorta di connivenza tra predatore e preda? Liliana Cavani ha esplorato questa condizione in un suo film del 1974, Il portiere di notte che, ambientato a Vienna nel 1957, racconta dell’incontro casuale tra un portiere d’albergo deferente e gentile e una affascinante cliente borghese. Dal momento in cui i due si riconoscono come una ex guardia nazista e una ebrea prigioniera del campo di concentramento, scatta di nuovo tra loro una relazione di dominio e sottomissione a cui lei si aggioga docilmente, come sopraffatta dal potere che il suo aguzzino ha avuto tanto tempo prima.
Un anno dopo è il regista statunitense Sidney Lumet a trarre ispirazione dalla Sindrome di Stoccolma per uno dei suoi film più famosi,Quel pomeriggio di un giorno da cani .
Anche qui c’è una rapina, questa volta in una banca di New York, e anche qui tra ostaggi e rapinatori (uno dei quali interpretato da un disarmante Al Pacino) si crea una relazione di complicità.
Sia nelle rappresentazioni cinematografiche che negli episodi reali, al rancore e alla rabbia iniziali si sostituisce con il passare dei giorni un idem sentire che accomuna carceriere e carcerato, costretti a convivere nei medesimi spazi angusti, a controllarsi a vicenda, a condividere lo stesso desiderio: quello di uscire fuori dal luogo chiuso e di ritrovare la libertà, obiettivo rispetto al quale paradossalmente le forze dell’ordine si frappongono come un ostacolo comune. In questa sorta di rovesciamento delle parti colui che ha sugli altri diritto di vita e di morte diventa automaticamente un dio, anzi una sorta di «dio di emergenza», come ebbe a dire Sven Säfström un altro degli ostaggi liberati, alla fine, grazie a un’azione di forza da parte della polizia svedese. È a lui che bisogna rivolgersi per avere salva la vita, lui ha tra le mani il filo che potrebbe recidere con un colpo netto, come una delle tre Parche, la nera Atropo. E d’altra parte anche nell’ascesa dei regimi dittatoriali l’autocrate di turno è spesso sostenuto dalle masse che riconoscono in lui un aiutante, invece che un tiranno, l’espressione di una forza e di una determinazione tali da volergli consegnare spontaneamente la propria vita. La deposizione della volontà è l’atto di fondazione di ogni regime dispotico, forse perché ha come contropartita la perdita di responsabilità individuale, un fardello di cui alcuni preferiscono liberarsi, a costo di vivere in cattività.
Kristin Enmark, che ha intrattenuto anche in seguito rapporti di amicizia con Olofsson, è stata accusata di essere stata connivente con un criminale, di essersi fatta manipolare fino a proteggerlo e giustificarlo. Lei però non ha mai accettato la definizione di Sindrome di Stoccolma e ha definito queste accuse una sorta di vittimizzazione secondaria, come se fosse stata considerata in qualche modo corresponsabile del proprio rapimento.
«È un modo per incolpare la vittima », ha dichiarato nel 2021 in un podcast della Bbc .«Ho solo fatto il possibile per sopravvivere». È la stessa accusa, a ben guardare, che viene mossa in maniera più o meno esplicita a molte donne vittime di violenza domestica, quella di non aver gridato abbastanza forte e di essere state, in fondo, complici dell’aggressore, affette da una sorta di “Sindrome della prigioniera”.

Ritratto di Pino

 

Mark avaro sul Covid, ma prodigo di saliva e armi per “Paparino”
DI PINO CORRIAS
Dal rigore al riarmo. Frugale in Europa, ma spendaccione nella sua Olanda. La sua linea è la difesa dell’Ucraina a oltranza, però non ha nulla da dire sulle bombe in Iran. Poi la figura del burattino al vertice Nato
Mark avaro sul Covid, ma prodigo di saliva e armi per “Paparino”
Da falco del rigorismo europeo a papero della sottomissione americana. Mark Rutte, l’olandese volante, difficilmente delude. L’altro giorno al vertice Nato dell’Aja è stato capace di bruciarsi in un istante una carriera pubblica che dura da 15 anni, scodinzolando al seguito del ciuffo arancione di Donald Trump, come il più tremebondo degli scolari davanti al bullo dell’ultimo banco: “Sei forte paparino!” ha salmodiato via Sms. E poi: “Daddy Donald ci hai condotto verso un momento davvero importante per il mondo. L’Europa pagherà alla GRANDE com’è giusto che sia e sarà la tua vittoria”. The Donald, come il più dispettoso dei padroni, lo ha umiliato rivelando in pubblico il suo messaggio privato. Mark, invece di incazzarsi, ha reagito allo sgarbo come fosse una nocciolina lanciata dal domatore da prendere e inghiottire al volo: slurp!
Niente male per un tizio che da nuovo Segretario generale della Nato guiderà per i prossimi quattro anni, i 32 eserciti dei 32 Paesi dell’Alleanza Atlantica, più o meno 3,5 milioni di soldati attivi, più tutta la ferraglia al seguito, carri armati, aerei, sommergibili. Oltre a un numero illimitato di bombe nucleari in grado di fondere un migliaio di volte l’intero pianeta. E dunque: una garanzia il suo coraggio da gregario, la sua fermezza di gommapiuma.
E dire che Mark Rutte, 58 anni, occhialini, fisico asciutto, risata più nervosa che allegra, titolare di quattro governi in Olanda, amico di Angela Merkel, ammiratore di Margaret Thatcher, per un bel po’ di anni è stato il mammasantissima dei Frugal Four, i riccastri del Nord Europa, gli intransigenti che facevano la guardia al bilancio dell’Unione anche sulla pelle delle migliaia di morti di Covid, contro di noi, gli spendaccioni del Sud Europa, trattati alla stregua dei questuanti, degli imbroglioni, insomma dei “Pigs”, come ci avevano ribattezzato, traendo ispirazione dal loro disprezzo e dalle nostre iniziali nazionali: Portogallo, Italia, Grecia, Spagna.
Grigia quanto i suoi cieli d’Olanda è la tonalità del suo carattere e pure della sua storia, nato e cresciuto tra le cattedrali gotiche dell’Aja e i suoi palazzi d’alta burocrazia europea. Orfano di madre è il settimo di sette fratelli. Il padre vendeva automobili. Lui studia Storia fino alla laurea anche se avrebbe voluto fare il pianista. Veste in giacca e cravatta da quando è ragazzo. Abita da allora la prima casa comprata con il mutuo studentesco. Possiede una Saab di seconda mano. Mangia una mela a pranzo e una volta alla settimana cena nel solito ristorante indonesiano. Il sabato insegna gratuitamente storia civica in un liceo. La domenica suona il piano in chiesa. Non ha moglie. Non ha fidanzate. Non ha figli. Non è gay. Quando glielo chiedono, risponde: “Il solo tabù in Olanda è essere single”. Non compra, non spende, non fa vita sociale. Non per nulla l’unica biografia che gli ha dedicato la giornalista Wilma Borgman, si intitola The Rutte mistery. Che comincia dalla prefazione, dove l’autrice scrive: “Delle persone che ho intervistato, mai nessuna è andata a casa sua”.
Dopo la laurea lavora per due multinazionali come capo del personale, prima alla Calvé, poi alla Unilever. È lì che coltiva le sue attitudini a sbrogliare trattative e fabbricare compromessi. Capacità che verranno buone quando a trent’anni decide che la sua passione è la politica, iniziando a scalare i vertici del Vvd, il partito popolare per la libertà e la democrazia, che vuol dire legge e ordine, spiccato liberismo, elevato welfare, una spolverata di incenso della Chiesa protestante.
In una manciata d’anni Rutte diventa il segretario del partito. Nel 2010 vince le elezioni con 80 mila voti in più dei laburisti, 31 deputati contro i 30, dunque porte spalancate per diventare il più giovane premier dei Paesi Bassi. Al primo giro si allea con la destra populista e antimusulmana di Geert Wilders. Taglia deficit di bilancio e spesa pubblica, vara leggi contro l’immigrazione, si intesta la battaglia “no burqa” nei luoghi pubblici. Il governo dura un po’ più di un anno. Collassa per intemperanze dentro la coalizione. Di nuovo al voto. Stavolta vincono lui e i laburisti. Nuovo governo con la sinistra. Lui così svelto a cambiare tutti i diesis della sua tastiera politica, da guadagnarsi il nome di “Teflon Mark”, cioè a dire l’antiaderente.
Anche le critiche gli scivolano addosso. Regna per tutti e tre i governi successivi, 15 anni filati, nei quali per giudizio unanime, “ha elevato il suo piccolo Paese”, 7 milioni di abitanti sui 447 della Ue, alle più alte dinamiche internazionali, sempre svelto a rimbalzare e a comandare con i più forti. A schierarsi una volta contro Draghi, governatore della Bce, e il suo piano di “Whatever it takes” che vuol dire finanza solidale, per poi appoggiarlo quando vince. Un’altra contro Victor Orbán, l’ungherese, che vara leggi contro i diritti Lgbt. Per poi adottare, nella campagna elettorale del 2017, lo slogan: “Facciamo di nuovo grandi i Paesi Bassi”, che viene direttamente dal primo mandato di The Donald, già scimmiottato da Orbán, il machista.
Anche sul rigore, Rutte va a corrente alternata. Per anni lo impone a Bruxelles insieme con il superfalco Wolfgang Schäuble, custode delle finanze tedesche. Ma in patria se ne dimentica, varando così tante agevolazioni fiscali per i dividendi delle multinazionali, da trasformare l’Olanda in un vero e proprio paradiso fiscale per i super bilanci di Fca, Netflix, Google, Ikea, eccetera. Al diavolo l’equità.
Per due volte usa e dissangua la sinistra. Per due volte si sgancia dalla destra. Chi lo critica in patria sostiene non sia uno statista, ma un navigatore. Uno che risolve problemi, ma non vende idee, o come hanno scritto i commentatori politici: “Aggiusta, ma non ha visione”, se non quella dei vincenti.
Dall’invasione dell’Ucraina, si schiera per la difesa a oltranza di Zelensky. Detesta Putin che giudica “freddo, brutale, spietato”. E sostiene che “la Russia attaccherà l’Europa entro i prossimi cinque anni”. In quanto ai bombardamenti Usa sull’Iran, li giudica “pienamente conformi al diritto internazionale”.
Ammira Giorgia Meloni e la sua linea anti-migranti, e Guido Crosetto, il nostro titolare delle armi. Grazie alla nuova intransigenza guerresca, risulta il predestinato alla guida della Nato dal 2024, quando lascia il governo nelle mani dell’ultradestra di Wilders che lo ha appena sfasciato. Il suo primo vertice con le stelle dell’Alleanza non è proprio un trionfo, visto che ha rivelato un temperamento da burattino. Ma imparerà presto e sarà uno spettacolo vederlo rimbalzare.

Severgniniamente

 

Diversamente disarmo
DI MARCO TRAVAGLIO
E niente. La filastrocca meloniana “Si vis pacem, para bellum” per giustificare il mega-riarmo Nato non ha funzionato. Papa Leone non se l’è bevuta: “Come si può credere dopo secoli di storia che le azioni belliche portino la pace e non si ritorcano contro chi le ha condotte? Come si può continuare a tradire i desideri di pace dei popoli con le false propagande del riarmo? La gente è sempre meno ignara dei soldi che vanno nelle tasche dei mercanti di morte: si potrebbero costruire ospedali e scuole, invece si distruggono quelli già costruiti. Bisogna smascherare le cause spurie dei conflitti: la gente non può morire a causa di fake news”. Sentendo “fake news” e “propaganda”, chissà perché, Beppe Severgnini s’è sentito chiamato in causa e ha svelato a Otto e mezzo cosa direbbe al Papa se quello avesse tempo da perdere: “Santità, ha ragione, le armi fanno schifo, io non vorrei spendere nel riarmo”. Però vuole: “Chi si oppone al riarmo dica cosa fare, non solo cosa non fare. Dobbiamo mandare il messaggio ‘Caro signor Putin, le dispiace non invadere i paesi vicini, non bombardarli, non minacciare dicendo che le interessano i Paesi baltici, la Moldavia e magari la Romania? Perché sa, noi non vogliamo riarmarci’? Dall’altra parte abbiamo la Russia che ha dimostrato che intenzioni ha”.
Naturalmente Putin non ha mai detto di voler invadere Baltici, Moldavia e Romania. E, ben prima che lui aggredisse l’Ucraina, la Nato aveva invaso Iraq e Afghanistan e bombardato Serbia e Libia. Ma Severgnini ha un concetto calcistico della geopolitica: è quello del “Siamo 40 contro 1, in Ucraina vinciamo noi”, poi purtroppo abbiamo perso. È anche quello del “Se non ci fosse la Nato, Putin sarebbe già a Lisbona” (altro che Baltici, Moldavia e Romania: Putin invaderà tutta l’Europa fino al Portogallo e lì si fermerà solo per via dell’Oceano): quindi lo sa che, se i russi attaccano un Paese Nato, si ritrovano contro i 32 eserciti Nato. Ma ora gli fa comodo fingere che la Nato sia disarmata e che il Papa e gli oppositori del riarmo al 5% vogliano abolire gli eserciti per rimpiazzarli con mazzi di fiori. E non è solo un abile stratega, ma pure un fine economista, infatti sa già come finanziare il riarmo: “I soldi si possono trovare: basta un decimo degli 80 miliardi di evasione per pagare la difesa, temo necessaria”. Ogni anno dovremo spendere in armi 70 miliardi in più degli attuali 30, ma a lui ne bastano 8 (tanto il falso in bilancio è depenalizzato). E stiamo allegri: “La difesa non sono solo missili, ma cybersicurezza, militari che aiutano la società in emergenze e calamità, più risorse per tutti” e soprattutto “scudi e computer”. Che bello: avrò un nuovo pc e un fiammante scudo medievale tutto mio per Carnevale. Tanto paga la Nato.

L'Amaca

 

C’è del buono in Danimarca
di MICHELE SERRA
Io sono mia. Io sono mio. La mia voce, la mia faccia, le mie parole mi appartengono, e chiunque le adoperi per qualunque uso (per esempio pubblicitario o politico) contro la mia volontà è un ladro di identità, e come tutti i ladri dovrà fare i conti con la legge.
Parrebbe una ovvietà. Non lo è. Da parecchi anni il furto di identità, in rete, è moneta corrente, e porre un argine al fenomeno è un’impresa ardua (parlo anche per esperienza diretta). La polizia postale è attiva e aggiornata, ma è una pattuglia che deve fronteggiare un’armata immensa. La rete pullula di “falsi io” ai quali, grazie all’intelligenza artificiale, si può far dire qualunque cosa, e come ognuno può intendere non viene messo a repentaglio solo il diritto personale; anche la Polis, anche la democrazia, perché il dibattito pubblico può essere manomesso e falsificato.
Ora dalla Danimarca arriva una novità confortante e, speriamo, anche utile. Con il consenso di tutti i partiti, il governo ha varato una legge che estende il copyright anche alle persone fisiche, ai loro volti, ai loro corpi, alle loro voci. Io sono l’unico autore di me stesso.
La tecnologia è la lepre, noi la tartaruga, ma non si deve disperare. L’intelligenza artificiale, come il nucleare, può essere al servizio dell’umanità o può essere adoperata come un’arma micidiale. Una buona politica di disarmo deve comprendere anche buone leggi sulle conseguenze dell’accelerazione tecnologica.

venerdì 27 giugno 2025

Finalmente un uomo!

 



Regina mima il Matto!

 



Beh dai!

 



Ma insomma!

 



Cattiveria

 



Natangelo


 

Para bellumore e culum

 

Si vis bellum spara balle
DI MARCO TRAVAGLIO
L’unica cosa seria che dovrebbe fare la Nato, non da oggi ma da quando sparì il Patto di Varsavia, sarebbe sciogliersi per mancanza di nemici. Invece, da allora, se li inventa. Anzi li lascia inventare ai padroni Usa, che ogni due per tre sfornano un Impero del Male: l’Iran sciita, l’Iraq sunnita, l’Afghanistan dei talebani (che piacevano tanto quando combattevano i russi), l’Isis sunnita, di nuovo l’Iran sciita, gli alleati della Russia come la Serbia di Milosevic e la Libia di Gheddafi, poi direttamente la Russia. Ora però Trump s’è messo d’accordo con Putin, che gli ha dato una mano a placare l’ira degli ayatollah e a trasformare la guerra all’Iran in una sveltina di una notte, e può tornargli utile in Medio Oriente e con la Cina. Infatti, al vertice Nato dell’Aja, ha sbianchettato ogni accenno all’“aggressione russa in Ucraina”: è rimasta solo la “minaccia” di Mosca, senza precisare per chi e perché, e una postilla sulla Cina che era appena diventata buona contro i dazi trumpiani ed è tornata cattiva perché si papperà Taiwan d’intesa con Mosca (come se Xi avesse bisogno di Putin). Quindi spezzeremo le reni pure alla Cina, che però affaccia sul Pacifico mentre la Nato è l’alleanza del Nord Atlantico (ma questo Rutte&C. lo scopriranno solo se incontreranno un mappamondo).
Il bello è che, mentre sparisce l’ultimo nemico rimasto, la Nato approva un mostruoso piano di riarmo a carico dell’Europa, che non spendeva tanto dalla II guerra mondiale (il 5% del Pil, mentre gli Usa restano al 3). Per difendersi da chi, nessuno lo sa. Sempre dalla Russia, ripetono i trombettieri del riarmo, costretti a inventarsi una balla al giorno per farci digerire un salasso che avremmo rifiutato pure ai tempi della guerra fredda. Dicono che i russi le buscano in Ucraina, ma stanno per invadere Baltici, Finlandia, Polonia e Germania (come minimo); però si scordano di spiegare che cosa se ne farebbe Putin, perché mai dovrebbe attaccare gli amici dell’amico Trump e con quali forze respingerebbe i 32 eserciti Nato. Dicono che gli Usa si sono stufati di mantenere la nostra difesa, come se le loro basi in Europa fossero un favore a noi e non un interesse loro (infatti non han ritirato un marine, un missile, una testata nucleare). Dicono che il 5% non è poi così male perché non sono mica armi (infatti i produttori di carri armati, missili, bombe e bombardieri volano in Borsa), ma cybersicurezza e infrastrutture tipo Ponte sullo Stretto, utilissimo ai nostri soldati per fermare gl’invasori russi tra Scilla e Cariddi. In pratica il ragionier Ugo Rutte e gli altri lecca-Donald prima ci rapinano col riarmo, poi con calma decideranno a cosa serve. Ad aprile Trump disse: “C’è la fila per baciarmi il culo”. Parlava dell’Europa, alla memoria.

L'Amaca

 

Quanto è maschio lo sport italiano
di MICHELE SERRA
Lo sport femminile italiano, soprattutto negli ultimi anni, spicca per risultati e popolarità. Che il nuovo presidente del Coni sia un maschio anziano, scelto tra sei maschi anziani, età media 71 anni (tra loro il fantastico Franco Carraro, già autorevole dirigente sportivo ai tempi di Cavour), potrebbe dunque sollevare qualche domanda. Non ideologica; banalmente numerica.
Non esistono donne in grado di fare il dirigente sportivo ai massimi livelli? Ci sono, ma considerano troppo noioso doversi confrontare con assemblee di soli maschi, spesso anche litigiosi e suscettibili? È forse ancora in vigore l’antico pregiudizio secondo il quale l’agonismo è un campo di attività soprattutto maschile, pur essendo assodato che le femmine, risultati alla mano, dispongono di vigore e destrezza in misura almeno pari? Il fatto che 48 presidenti di federazione siano uomini, e solamente due le donne, dipende dall’arbitrio del caso o è il ritratto di un ambiente nel quale le donne possono tirare di fioretto, fare un tuffo carpiato, fare schiacciate, vincere a Wimbledon, nuotare come motoscafi, ma giammai comandare? Infine: la disciplina sportiva più diffusa e praticata, il potere, non ha ancora aperto i battenti alle donne?
Oppure li ha aperti, ma il campo di gioco è gremito di maschi che non saprebbero dove altro andare, e non rimane mezzo metro quadrato libero per le femmine?
Da qualche anno abbiamo preso confidenza con il termine “manel”, fusione tra “man” e “panel”. Vuol dire un insieme costituito da soli maschi. È anche capitato che qualche maschio se ne sia accorto e abbia detto: grazie, preferisco non farne parte. Al Coni non è capitato.
Chissà, forse alla prossima elezione, comunque con Franco Carraro tra i favoriti.

giovedì 26 giugno 2025

Ovattata



Caro Robert, da oggi, vedrai ti oscureranno come fecero con Jorge;  pronuncerai parole bellissime come quelle odierne. Ma loro faranno finita di nulla, ovattandoti.

“Come si può credere, dopo secoli di storia, che le azioni belliche portino la pace e non si ritorcano contro chi le ha condotte? Come si può pensare di porre le basi del domani senza coesione, senza una visione d’insieme animata dal bene comune? Come si può continuare a tradire i desideri di pace dei popoli con le false propagande del riarmo, nella vana illusione che la supremazia risolva i problemi anziché alimentare odio e vendetta? La gente è sempre meno ignara della quantità di soldi che vanno nelle tasche dei mercanti di morte e con le quali si potrebbero costruire ospedali e scuole; e invece si distruggono quelli già costruiti!”. 

“È veramente triste assistere oggi in tanti contesti all’imporsi della legge del più forte, in base alla quale si legittimano i propri interessi. È desolante vedere che la forza del diritto internazionale e del diritto umanitario non sembra più obbligare, sostituita dal presunto diritto di obbligare gli altri con la forza. Questo è indegno dell’uomo, è vergognoso per l’umanità e per i responsabili delle nazioni”.

Urrà




Cattiveria

 



Natangelo

 


Oltre la stazione spaziale orbitale

 


A volte i grandi numeri non danno l'idea! Questo ossequioso e felpato aumento del budget militare, comprando soprattutto armi americane, che ci porterà a spendere fino al 2035, pare, 400 miliardi di euro, e che la Signora in Nero asserisce che tale esborso non influenzerà il budget per la sanità e per l'istruzione - ciao core! - quanto è grande e dannoso? 

Cosa sono quattrocento miliardi?

L'ho chiesto naturalmente ad AI 

Ebbene leggo che se tramutassimo 400 miliardi di euro in banconote da 50 euro, se le ponessimo una sopra l'altra, supereremmo in altezza la stazione spaziale orbitale, in quanto la pila raggiungerebbe gli 800 km di altezza. Che spenderemo in armi per allietare l'animo di tutti i Crosetti sparsi per lo stivale. 

La pila sarebbe 1800 volte più alta dell'Empire State Building, 90 volte l'Everest, 35 stanze 10x10 alte 2,5 mt, tre piscine olimpioniche e mezzo, colme di bigliettoni dilapidati per seguire le idiozie di un idiota col ciuffo, e per proteggerci dal nemico immaginario. 

Prometto ogni giorno da qui al 2035 un vaffanculo mattutino rivolto a tutti questi ribaldi dell'umanità, capitanati dal nomen - omen Rutte. 

Ogni mattina sino al 2035!   

Lo fermeranno?

 

Conte è contro il riarmo, quindi non governi mai più
DI DANIELA RANIERI
Guardiamo ammirati e raccapricciati, come al circo quando vengono liberate le bestie ma al posto dei domatori ci sono i pagliacci, i carpiati e la frolla elasticità del senso morale di cui danno prova la classe politica e (quindi) mediatica nazionale in tempo di guerra quasi mondiale. Il 24 febbraio 2022 Putin si è svegliato e in preda a un raptus ha invaso l’Ucraina (nessuna previa responsabilità della Nato nei rapporti tra Federazione Russa e Ucraina); Netanyahu è cattivello, ma difende il diritto di Israele alla sopravvivenza, facendo sparare in testa ai bambini; Trump è pazzo quando persegue il negoziato tra Russia e Ucraina, invece di bombardare il Cremlino; torna a essere un ragionevole statista quando chiede ai Paesi Nato di sborsare il 5% del loro Pil per le spese militari, il sogno che fa brillare gli occhi al nostro establishment di destra e pseudo-sinistra.
Quand’è così, è ovvio che chi si oppone al riarmo deciso dalla Von der Leyen (800 miliardi di euro, un piano Marshall al contrario che affama i cittadini d’Europa per comprare missili e bombe dagli Usa) e al taglieggiamento dei Paesi Nato per mano di Trump, è “demagogico” e “non può governare”. Fa niente se il premier spagnolo Sánchez ha appena detto al vertice Nato che le armi non sono una priorità della Spagna e che non intende cedere al ricatto del 5%: i nostri giornali padronali minimizzano la sua risolutezza come una bizza da torero e sperano che si ravveda (poi ci parlano loro).
Colui che proprio non sa cosa dice e in quali casini ci sta mettendo è Giuseppe Conte, con la sua manifestazione contro il riarmo all’Aja e la sua testardaggine di fare opposizione al governo Meloni financo opponendosi a esso. Lo mette spalle al muro Massimo Franco sul Corriere: “Attaccare Ue e Nato; bollare l’aumento delle spese militari come la negazione dello spirito europeo; e usare la parola ‘genocidio’ per definire gli eccidi compiuti dalle truppe israeliane a Gaza (sono solo alcuni dei peccati mortali del disgraziato, ndr), significa scegliere un lessico demagogico che permette magari di racimolare qualche voto, ma non di accreditarsi per governare”. È un cruccio del Sistema: se non si toglie di testa le fisime anti-militariste, Conte non potrà mai andare al governo; e, con un alleato così, non ci andrà nemmeno la Schlein.
Titola Dagospia, che in queste cose è Cassazione: “Quando arriverà mai a governare il ‘Campo Largo’ con il barricadero Giuseppe Conte, che si è messo a capo del fronte anti-riarmo dell’Ue?”. È un messaggio a Schlein, che farà bene a liberarsi del losco figuro e a riavvicinarsi ai cosiddetti “riformisti del Pd” se vuole essere una vera alternativa alla Meloni e andare al governo (per fare esattamente le cose che fa la Meloni, vabbè). Eppure, non risulta che nei due anni in cui Conte ha governato, facendo gli interessi dell’Italia in Ue e scontrandosi con Trump sul dialogo con la Cina, l’Italia sia stata buttata fuori dalla Nato o dall’Europa. Ma tant’è. Del resto, il M5S è “duro verso il governo e indulgente nei confronti di Mosca” (Franco, il giorno prima), per aver presentato una mozione con cui chiede al governo di non escludere a priori una possibile collaborazione con la Russia sul transito del gas. Un passaggio che “fa rizzare i capelli ai riformisti del Pd” (Corriere), gente non sospettabile di bellicismo russofobo, come Guerini, Quartapelle, Madia, Picierno, l’europarlamentare Pd che ha ricevuto a Bruxelles i lobbisti dell’estrema destra israeliana che sostiene i coloni in Cisgiordania e della cui opinione il Corriere ha grande considerazione: “Conte è incommentabile”; così come del Calenda alternativamente (ma più spesso contemporaneamente) leader serio e cabarettista: “La vergognosa mozione del M5S sembra scritta da Putin”.
Il Foglio elogia “un saggio Gentiloni anti-Conte”: Gentiloni, “padre nobile”, “risorsa della Repubblica” etc., ha denunciato che insieme a Conte all’Aja c’erano movimenti filo-Putin, cosa di cui Conte evidentemente ha responsabilità. Il giornale non manca di denunciare “il filo che lega M5S alla Russia di Putin”, ritirando fuori la fake news degli aiuti russi-spionaggio a Bergamo durante il Covid (ministro della Difesa era Guerini e il Copasir ha detto e ridetto che non c’era niente di sospetto, ma fa sempre brodo). Deliziosa l’accusa del giornale fondato da Giuliano Ferrara, già spia della Cia: “Conte è convinto di poter trovare, con un’agitazione antimilitarista dai caratteri confusi e demagogici, udienza in una parte non irrilevante dell’elettorato”: che si è messo in testa, questo matto, di farsi eleggere dai cittadini per rappresentare i loro interessi? E magari, dio non voglia, di andare al governo coi voti degli elettori? (Allora lo sanno, che l’opinione pubblica è perlopiù contraria al riarmo). Ma, chiediamo noi, non erano preoccupati che Conte non riuscirà mai a governare? Mah.

Ilarità

 

Linoleum
DI MARCO TRAVAGLIO
Non riuscendo a spiegare agli italiani la follia di dissanguarli del 5% del Pil per comprare armi e tagliare welfare entro il 2035, cioè spendere in dieci anni 400 miliardi in più in cannoni & affini per poi buttarne oltre 100 all’anno, e rosicando per le lezioni di sovranismo che le dà il socialista Sánchez, la Meloni straparla di “deterrenza” e si rifugia nel latinorum col classico argumentum ad mentulam canis, o ad penem caninum: “Lo dicevano i romani: si vis pacem, para bellum”. Una scemenza inventata dai greci che non funzionò nell’antichità né tantomeno nell’età moderna e contemporanea (mai viste tante guerre), poi divenne tragicomica nell’èra atomica e oggi è solo comica, visto che tutti dicono di temere tutti, ma nessuno fa più paura a nessuno. Siccome però, dopo tante chiacchiere, il governo in bolletta dovrà dire dove prenderà quella montagna di soldi e far votare le Camere, suggeriamo a Giorgia Sturmtruppen un repertorio di frasi di sicuro successo. L’autore è uno stratega ben più lucido di lei: Totò.
Se le chiedono perché tagliare scuola e sanità per comprare bombe, la risposta dev’essere: “Abbondandis in adbondandum” (Totò, Peppino e la malafemmina). Ai dubbi sulla formidabile deterrenza dei nostri soldatini di piombo dinanzi alle potenze atomiche, la replica è d’obbligo: “Prosit, cave canem, in hoc signo vinces, est, est, est” (Signori si nasce). Se le domandano perché mai Putin dovrebbe invadere l’Europa, niente esitazioni: “Linoleum in colosseum, mortis tua e tu patri e tu nonni in carriolam meam, ora pro nobis in profundis, autobus, ess o ess” (I due marescialli). Se Zelensky vuol sapere a chi raccomandarsi ora che l’amico Trump l’ha scaricato, lei gli opporrà un bel “Morsa tua vita mea” (Totò cerca casa) e gli suggerirà le orazioni più appropriate: “Assia Noris, ora pro nobis. Doris Duranti, ora pro nobis. Maria Denis, ora pro nobis. Sophia Loren, ora pro nobis. Anna Maria Pierangeli, ora pro nobis. Tony Curtis, ora pro nobis. Curd Jürgens, ora pro nobis. Brigitte Bardot, Bardot…” (Il monaco di Monza). Poi ci sono le risposte multiuso, che si portano su tutto: “Gattibus frettolosis fecit gattini guerces” (Totò a colori), “Audax fortuna Juventus” (Chi si ferma è perduto), “A estremum malis estremis rimedium” (Il ratto delle sabine), “Excusatio non petita, accusatio manifesta: chi ha attaccato i manifesti di Petito?” (Le sei mogli di Barbablù), “De gustibus non ad libitum sputazzellam” (Totò, Vittorio e la dottoressa), “Lupus in fabula: c’è un lupo nella fabbrica” (Il medico dei pazzi), “Vox servi Dei in dubio audire oportet: gli utenti dell’Autovox non entrano dalla porta” (I tartassati). Ma potrebbe bastare anche Riccardo Mannelli: “Si vis pacem, para culum”.

L'Amaca

 

E il famoso cambio di regime?
di MICHELE SERRA
Più sicurezza, meno libertà. Mettiamocelo bene in testa, questo è il futuro del mondo secondo i croupier che danno le carte e conducono il gioco. Del ventilato “cambio di regime in Iran”, che sarebbe stato l’unico evidente salto di qualità democratico e umanitario in grado di giustificare l’ingiustificato attacco israeliano e americano, non importa nulla a nessuno. Non a Trump, non a Netanyahu, men che meno a Putin che appoggia quella tirannia di vecchi maschi misogini perché tutto ciò che declassa i diritti umani a inutile illusione gli è familiare.
Ayatollah e pasdaran festeggiano in piazza l’ennesima finta vittoria e ne approfittano per stringere i ceppi ai polsi e alle caviglie dell’opposizione, ovviamente (come in tutti i regimi autoritari) accusata di intelligenza con il nemico. Le iraniane fuggite, non si sa in quale ordine, alle bombe esterne e all’oppressione interna, sorridono allo scampato pericolo e piangono per chi è rimasto in quella galera. Nelle loro parole e nei loro volti, la felicità di essere al sicuro non riesce a prevalere sulla pena per chi è rimasto.
Dell’atomica iraniana si parlerà tra poco tempo, non appena il regime si sarà riorganizzato: fu Trump, del resto, durante il suo primo mandato, a espellere l’Iran da ogni possibile concertazione sul nucleare, con quale faccia può lamentare la situazione attuale, della quale egli stesso fu artefice? Dei dissidenti in galera, delle donne perseguitate e picchiate perché osano pensarsi libere, si parlerà con comodo ma senza esagerare, perché la libertà e l’incolumità dei popoli non è certo ai primi posti dell’agenda politica mondiale. Vedi Gaza. Al primo posto c’è il dominio, e i dominatori solo di quello si preoccupano.

Dubbi e tentativi

 



400 miliardi in armi da qui al 2035

 


mercoledì 25 giugno 2025

Provo vergogna!



Per la prima volta provo vergogna per coloro che sono chiamati a giudicare in nostro nome, in nome del popolo italiano: Impagnatiello, il topo di fogna che ha assassinato la sua compagna incinta di sette mesi, Chiara Tramontano, non paga per la premeditazione, no, secondo il tribunale non c’era premeditazione… mumble… mumble 
E quindi quel bastardo quando mesi prima dell’assassinio si andava ad informare sul web su come avvelenare una persona, quando gli somministrava piccole dosi di topicida, non premeditava nulla? Questo, a mio parere, è una vergogna immane, un’ottusità eclatante, uno sfregio a Chiara. E soprattutto alla sua bimba in grembo.

Ops!

 



L'Amaca

 

Eutanasia della democrazia
di MICHELE SERRA
Letti tutti assieme, le dichiarazioni e i messaggi di Donald Trump sono più terrificanti dei suoi bombardieri. Non esiste logica leggibile, se non la vanteria come sola idea guida: io qui, io là, io su, io giù. Il resto è totalmente sconnesso non solamente dalla realtà, ma perfino dal se stesso di pochi minuti prima.
Si va dal pacifismo immotivato al bellicismo forsennato, dalla minaccia ultimativa alla pacca affettuosa, si invoca Dio e si evoca la distruzione, si benedice e si maledice, si proclama la pace e si muove guerra, Paesi e Nazioni, spesso nominati alla rinfusa, come una comitiva di nomi non del tutto familiari, sono amici o nemici a seconda dell’ultima scrollata di cellulare. Niente, nessun concetto, nessun sentimento, nessun giudizio lega le cose tra di loro, cerca di spiegarle e di ordinarle, nessun disegno, nessun obiettivo sortisce dalle parole di Trump: se non la venerazione inesausta di se stesso e l’idea delirante di un’America onnipotente e onnipresente, come un supereroe della Marvel: e tutto il resto è noia.
Un pazzo, si direbbe, non fosse che questa pazzia è l’espressione ultima (speriamo non esiziale) della democrazia e del favore popolare. Trump non come nemico della democrazia, ma come sua espressione finale: ci si pensa raramente ma forse ci si sbaglia.
L’ipotesi è che la democrazia, vecchia e sfinita, lo abbia scelto come esecutore della sua eutanasia. E quello che verrà dopo sarà tutta un’altra storia.

Provo imbarazzo!

 



Natangelo

 


Grande Robecchi!

 

Non in mio nome. Alzare l’asticella della dignità contro la loro barbarie
DI ALESSANDRO ROBECCHI
Dunque c’è un aggressore (due: Israele e Usa) e un aggredito (molti: Gaza, Cisgiordania, Libano, Iran). Poi c’è chi applaude gli aggressori, chi finge di balbettare dall’alto della sua insignificanza (gran parte dell’Europa), chi addirittura rivendica (il cancelliere tedesco Merz: “Israele sta facendo il lavoro sporco per noi”). L’aggressione comprende l’annientamento di un intero popolo (la soluzione finale dei palestinesi nel campo di sterminio di Gaza), la colonizzazione violenta dello stesso popolo in un’altra zona (la Cisgiordania), l’attacco a suon di bombe di un Paese non allineato, già seduto al tavolo delle trattative (l’Iran). Questa volta, niente false prove sventolate all’Onu (Colin Powell e il finto antrace, con l’Iraq), niente cretinate da piccolo uomo (Tony Blair che aveva trovato le prove “su Internet”, sempre Iraq): solo la parola di un criminale (Netanyahu) e le bombe del suo socio (Trump). Insomma, l’Impero non ha più bisogno di scuse per annientare chi si oppone ai suoi disegni, lo fa e basta.
In quasi due anni abbiamo visto alzarsi l’asticella ogni giorno. Israele ha distrutto 36 ospedali nella Striscia di Gaza. Ha deliberatamente assassinato 60.000 civili (numero in ampio difetto), tra cui 20.000 bambini, colpiti con bombe incendiarie nelle loro tende di profughi o uccisi da cecchini con colpi singoli (testimonianze di molti medici internazionali in servizio a Gaza), ha usato e usa la fame e la sete come armi di guerra, ha bloccato la consegna di medicinali, ha mentito senza tregua. Ogni giorno si è alzata l’asticella della barbarie, il che significa che d’ora in poi chiunque farà tutte queste cose orribili potrà dire che sono già state fatte, che sono rimaste impunite, che sono state approvate da filosofi di complemento, pensatori, politici, intellettuali “liberali”, media compiacenti e altri, impegnati a convincerci della superiorità morale di chi spara in testa ai bambini.
Una tacca dell’asticella riguarda parole ormai vuote: gli aggressori possono vantarsi della qualifica di “democrazie”, e questo pare rendere accettabile ogni vilipendio all’umanità. Anche se poi, quando vai a vederle da vicino, queste democrazie fanno un po’ ribrezzo, tra chi pratica l’apartheid, chi deporta gli immigrati e chi dice che un genocidio è “un lavoro sporco” fatto “per noi”.
Un’altra tacca dell’asticella sono le spese militari: ancora si dibatte sulla folle cifra del 2 per cento del Pil e l’Impero chiede il 5. I governi sudditi annuiscono.
Resta una domanda, a questo punto ineludibile. Che ne è invece della “nostra” asticella, del “nostro” limite al peggio? Della difesa della “nostra” – privata, intima – umanità?
Intendo un limite invalicabile etico, morale, che ognuno di noi ha nel cuore e nella mente. La alzeremo anche noi? Ci adegueremo? Come resisteremo – noi uomini e donne perbene – al montare della barbarie? Come ci rapporteremo con chi la diffonde, la difende o la nega? Come potremo non considerare nemico chi permette tutto questo, fosse anche il vicino di casa, il corsivista paraculo, il giornalista che “non vuole rogne”, il distratto, l’indifferente? Come faremo, insomma, a non essere in guerra anche noi, contro chi permette tutto questo? Sarà una guerra lunga, infinita, faticosa. Politica, ma soprattutto umana. Non collaborare, non prestarsi, non credere alla propaganda, non avere rapporti col nemico. Non solo dire “Non in mio nome”, ma praticarlo tutti i giorni. Per una volta, alziamola noi, l’asticella, che sia quella della dignità.

Brava Elena!

 

Trump è solo il più nitido del “club della Guerra”
DI ELENA BASILE
The show must go on, lo spettacolo deve continuare, sintesi del mondo postmoderno, post-strategico, post-giuridico, post-razionale e post-morale nel quale ormai viviamo. Accomodiamoci pure meglio sul divano per ascoltare i nuovi grilli parlanti, di solito rappresentanti dei Dem americani, che oggi scaricano le responsabilità della guerra all’Iran su Donald Trump, il parvenu del potere, un semianalfabeta politico che si barcamena tra lobby e Stato profondo per restare al potere. L’astuzia non gli manca, come se tra un genocidio e bombardamenti che fanno vittime civili stesse concludendo un nuovo affare e stesse guadagnando grazie ai soliti metodi camorristi ingenti fortune.
Lo spettacolo continua mentre la morte avanza e con essa l’oblio delle vittime. L’attacco americano, seguito a quello israeliano, contro un Paese firmatario del Tnp, sottoposto a controlli dell’Aiea e aperto ai negoziati, ripete le tattiche dello Stato profondo statunitense, ne riflette l’arroganza unipolare, il sostegno a guerre di espansione imperiale che non distinguono, se non per la forma, i Democratici dai Repubblicani e da Trump. Quest’ultimo, come la premier Giorgia Meloni, è benedetto dai poteri che contano in quanto riesce, andando al potere, a essere un elemento di coesione sociale e politica, rappresentando i perdenti della globalizzazione, il trash bianco, coloro che i partiti del centrodestra e del centrosinistra, i democratici statunitensi e i repubblicani di antica tradizione, non riuscivano più a rappresentare. La Politica ha abdicato al suo ruolo. In questa fase del capitalismo finanziario, si è eletti e benedetti se una volta al potere ci si arrende agli interessi delle lobby della finanza, delle armi e di Israele. Purtroppo la rilevanza delle personalità politiche e la loro autonomia è minima. Deliziamoci allora davanti alla tv, osserviamo la nostra presidente del Consiglio affermare, nonostante il mandato di arresto della Cpi, che Netanyahu può visitare l’Italia, sentenziare che auspica un cambiamento di regime in Iran, farsi baciare sulla testa da Biden e flirtare con Trump, dispensare sorrisetti e occhiate birichine ai colleghi del club europeo. Questa è ormai la politica, uno spettacolo che contraddice i nostri più elementari principi costituzionali, i valori umanitari, le norme del diritto internazionale, la coerenza strategica.
Del resto i tre moschettieri membri dell’E3 – Starmer, Merz e Macron – sono così diversi dalla Meloni? Forse con maggiore stile e cultura, ma con meno arguzia e astuzia, rappresentano lo stesso malefico vuoto politico. Dopo i bombardamenti illegali in Iran, hanno chiesto al presidente di un Paese colpito nella più totale illegalità di tornare al tavolo dei negoziati. Piantano una pistola nella tempia dello Stato negoziatore e la chiamano mediazione! Dinanzi al genocidio di Gaza, Merz, in un momento di verità, afferma che Israele “sta facendo il lavoro sporco” al posto dell’Europa. Da tempo affermiamo che Trump è il volto più vero dell’impero, il volto barbaro nella sua violenza, senza falsi sentimenti, senza le lacrimucce della Harris che ha sostenuto come lui il genocidio di Gaza, oppure la guerra che utilizza gli ucraini come carne da macello contro la Russia. Gli attacchi americani ai siti nucleari all’Iran sono stati il debito pagato con astuzia da Trump a chi gli ha permesso di essere eletto: i sionisti evangelici, la lobby di Israele e i petroliferi. Con astuzia, in quanto il bombardamento potrebbe anche non determinare l’escalation non avendo di fatto provocato i disastri possibili: colpire il nucleare e provocare la fuoriuscita di radiazioni. Teheran, ben consigliata dalla Russia e dalla Cina, ha risposto simbolicamente avvertendo Usa e Qatar prima di lanciare i missili sulle basi americane. L’escalation potrebbe pure fermarsi. Mi sembrerebbe possibile tuttavia che Mosca e Pechino aiutino ora Teheran a munirsi della bomba nucleare. Il Tnp è morto e con esso i residui di fiducia e di cooperazione con questo Occidente imbastardito.
Naturalmente mamma tv ci farà credere tutt’altro. Politici e classe di servizio si alterneranno sugli schermi per alzare il ditino contro l’avventurismo trumpiano. Applicando i noti doppi standard, ci faranno tuttavia credere che le autocrazie rappresentano un pericolo da cui l’Occidente democratico ha il diritto di difendersi. Il democratico Zelensky si è infine svelato, affermando che il regime russo farà la fine di quello iraniano. Le divergenze tra gli imperialisti ripuliti europei, i loro grilli parlanti e i pirati Trump, Musk, Bolton, sono tattiche. Se il regime change fosse certo e sicuro, andrebbero tutti d’accordo. Trump, Renzi, Merz, Macron, Meloni, Panebianco, Mieli, Rampini, Fubini, Tocci. Sbaglio? Cane non morde cane, ammoniva qualcuno. Se no, si paga con l’ostracismo. Ebbene, la libertà di pensiero ha un prezzo.