giovedì 14 agosto 2025

Robecchi

 

Addio testimoni Israele e la mattanza di giornalisti prima e dopo il 7 ottobre
DI ALESSANDRO ROBECCHI
Avrei voluto dedicare questa rubrica a un elenco: i nomi e i cognomi dei giornalisti assassinati dall’esercito di Israele nel corso del genocidio di Gaza e degli atti terroristici dei coloni israeliani in Cisgiordania. Ho provato. Non c’è spazio abbastanza per quasi trecento nomi e cognomi, mi spiace, spero che qualcuno lo farà presto.
Premessa: non è corporativismo, né spirito di categoria, ammazzare un giornalista non è più grave che ammazzare un civile, una donna, un bambino in coda per un secchiello di farina, come Idf fa ogni giorno, deliberatamente. Ma assassinare un giornalista (che ha immagini, registrazioni, testimonianze) è più importante per chi sta compiendo un crimine contro l’umanità, perché si elimina un testimone che un domani – speriamo presto – potrebbe essere ascoltato dalla Corte dell’Aia contro chi pianifica, ordina ed esegue un genocidio.
Anas al Sharif, 28 anni, il reporter di Al Jazeera ucciso l’altro ieri (insieme ai colleghi Mohammed Qreiqeh, Ibrahim Zaher, Mohammed Noufal, Moamen Aliwa e Mohammed Al-Khaldi) aveva realizzato importanti reportage dalla striscia di Gaza. Prima sull’uccisione di civili innocenti, poi sugli agguati mortali a chi aspettava pane e farina, infine sulla fame usata come arma di guerra. Insomma, era uno che ci faceva vedere l’inferno del campo di sterminio di Gaza. Non un passacarte che legge le agenzie e le veline di Idf, non un corrispondente che staziona in albergo dalla parte dell’esercito occupante e della sua censura. Anas al Sharif era stato minacciato, avvertito per telefono di smetterla di raccontare la verità, gli avevano ucciso il padre, come monito, sempre con la copertura ideologica che Israele applica ad ogni sua vittima: stava con Hamas. Falso.
In attesa fremente che i sostenitori e i negazionisti del genocidio comincino la loro manfrina sul 7 ottobre causa di tutto – a cui è seguita una rappresaglia sulla popolazione civile che mira alla soluzione finale del popolo palestinese – vorrei ricordare qui un’altra giornalista vittima di Idf: Shireen Abu Akleh, uccisa da un cecchino israeliano – colpita alla testa – a Jenin, l’11 maggio del 2022, quando il 7 ottobre non esisteva, in una zona, la Cisgiordania, dove Hamas non c’è.
Shireen Abu Akleh era un volto molto noto di Al Jazeera, molto amata. Come da prassi consolidata, Israele accusò i palestinesi, poi, davanti alle pressioni internazionali (e grazie ad altri giornalisti testimoni) ammise che “forse” potevano essere stati i suoi soldati, cosa poi accertata dall’Onu, mentre l’indagine dell’FBI (ancora in corso, Shireen aveva passaporto americano) è sempre stata considerata da Israele “indebita ingerenza negli affari nazionali”. È un classico della narrazione dell’esercito genocida. Primo passo: non siamo stati noi. Secondo passo: sì siamo stati noi, ma per sbaglio. Terzo passo: apriremo un’inchiesta. Che finisce in nulla.
Il 13 maggio del 2022, ai funerali di Shireen, l’esercito israeliano in assetto antisommossa, ha attaccato il corteo funebre, caricato e malmenato chi seguiva il feretro della giornalista: i video di un esercito che attacca gente pacifica a un funerale e si accanisce a bastonate su chi porta a spalla la bara ha fatto il giro del mondo. Una buona metafora di cos’è – e cos’era anche prima del 7 ottobre – Israele. Tutto evidente, tutto filmato, tutto alla luce del sole: l’assassino che elimina i testimoni dei suoi crimini, sotto gli occhi di tutti, con molti complici, sostenuto da chi finge di non vedere, certo dell’impunità.

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