mercoledì 15 ottobre 2025

E andiamo!

 



Tajanite

 





Robecchi

 

Impero. Palestina Real Estate, la pax mafiosa che piace a tutti gli azionisti
DI ALESSANDRO ROBECCHI
In attesa di capire se e come funzionerà la “pace” trumpiana in Medio Oriente, urge qualche notazione a margine alla “giornata storica” di lunedì, cioè il giorno in cui l’Imperatore è volato nel suo avamposto mediorientale per premiare l’alleato che ha vinto, grazie ai suoi soldi e alle sue armi, come ha fatto puntualmente notare. Una cerimonia, anzi due: il discorso alla Knesset e la passerella di Sharm, che riportano ai fasti colonialisti ottocenteschi, con lunghi strascichi nel Novecento. Al momento, Gaza, distrutta e smembrata, fatta a pezzi e annichilita con il mondo che ha guardato indifferente lo spettacolo del genocidio, è un piccolo territorio sul modello dei Bantustan sudafricani (in attesa di rimpicciolirsi ancora e somigliare alle riserve dei nativi americani). Era grande come mezza Roma, ora l’invasore israeliano controlla militarmente il 58 per cento del territorio, che rimane circondato e sorvegliato a vista: il più grande campo di concentramento del mondo rimane il più grande campo di concentramento del mondo, anche se è esteso la metà, lo governeranno le potenze coloniali occidentali che ci faranno molti soldi, i suoi abitanti non avranno né diritti né sovranità. I palestinesi (citati solo en passant da Trump in un’ora di discorso, come una seccatura) potranno ambire a fare i camerieri nella loro terra, magari nei casinò che sogna Donald, dove il croupier sarà Tony Blair e il jackpot sarà l’immenso giacimento di gas al largo di Gaza: bottino di guerra. Nemmeno una parola sulla Cisgiordania, che sarà il prossimo boccone.
L’Impero è l’Impero, d’accordo, si sapeva, eppure c’è qualcosa di inedito, e di antichissimo, nel nuovo imperialismo trumpiano, un’impronta personalistica che rende ancor più grottesca e fuori tempo la vecchia voracità coloniale. Eravamo abituati a conquiste più soft, travestite da accordi sovranazionali, da lunghe discussioni bi e trilaterali (sempre tra vincitori, ovvio, ma…). Ora no: arriva l’Imperatore, detta la sua legge e quello si fa.
Il discorso alla Knesset ha chiarito anche ai ciechi la nuova modalità dell’ordine mondiale. Trump è andato dai vincitori a dire che hanno vinto, bravi, con i suoi soldi e le sue armi (ha anche detto che le hanno “usate bene”, cioè sterminando la popolazione civile), ma non solo. È andato nel Parlamento di uno Stato sovrano a dettare la linea politica: il leader dell’opposizione è “una brava persona”, il capo del governo è una specie di santo condottiero e il presidente deve dargli la grazia (ci sarebbe il dettaglio che la grazia si dà ai condannati, non agli imputati). Traduco: l’Imperatore chiede che i processi per corruzione a Netanyahu vengano serenamente dimenticati. Non servono dietrologie e analisi, il virgolettato è lampante. Dice Trump rivolto a Netanyahu: “Lei è un uomo molto popolare, e sa perché? Perché sa vincere”. Ecco fatto, faccenda chiusa, l’Imperatore ha fatto notare che i 66 miliardi in armi donati alla causa gli danno pieno diritto di decidere sulla politica interna di Israele, i cui rappresentanti (tutti tranne due, subito espulsi) hanno applaudito freneticamente la cessione di sovranità e baciato la pantofola, grati per la vittoria che lui ha garantito. L’intendenza segue. Più o meno patetici, altri sudditi si aggregano al carro, sperando in qualche affare (dice Tajani che siamo bravi a ricostruire, i nostri terremoti lo smentirebbero), e la questione palestinese diventa una faccenda immobiliare, economica, energetica: una pax mafiosa, che piace a tutti.

Hamas e altro

 

Senza se e senza Hamas
DI MARCO TRAVAGLIO
Il salto sul carro del vincitore, da sport nazionale, è diventato una gag. Per due anni, nei talk e sui giornali, una banda di squilibrati assatanati negava il massacro dei gazawi, o lo giustificava col 7 ottobre, incitava Netanyahu a finire il lavoro fino al definitivo annientamento di Hamas e, se provavi a spiegare che il terrorismo si combatte con l’intelligence e non radendo al suolo tutto e tutti, eri un “antisemita tagliagole e tagliateste”. Ora che Trump ha fatto ciò che noi – anime belle pacifinte e complici di Hamas – speravamo fin dall’8 ottobre 2023, cioè ha costretto Netanyahu a fermare la mattanza, a rinunciare ad annessioni coloniali e guerre contro tutti i vicini, a firmare un accordo con Hamas (così sconfitta da venir promossa a polizia di Gaza al posto dell’Idf), a liberare 1900 detenuti (fra cui tagliagole e tagliateste passati e/o futuri) in cambio di 20 ostaggi e a disertare la firma a Sharm perché Erdogan non lo voleva, ci aspettavamo che la masnada tenesse il punto in lutto stretto. Invece, oplà: finge che gli sconfitti Netanyahu&C., bocciati su tutta la linea, abbiano vinto ed esalta la pace di Trump dopo aver detto che avrebbe portato più guerre. Questa voluttà sadomaso di esultare per non averne azzeccata una è ancor più comica della mestizia degli orfani di guerra, che per 24 mesi hanno maledetto gli americani perché non fermavano Netanyahu e manifestato in piazza affinché lo facesse, e ora si disperano perché l’ha fatto l’americano sbagliato. Così chi aveva ragione lascia il campo libero a chi ha le ha sbagliate tutte.
“Trump libera tutti”, titola Libero di Sechi, quello che “la guerra finirà quando lo decide Israele”, “Bibi deve finire il lavoro fino all’annientamento di Hamas” e pure degli ayatollah col famoso “regime change a Teheran” (ciao, core). Sallusti sul Giornale tripudia per “Il miracolo di Trump”, che ha fatto l’opposto di quel che diceva lui: “Israele può vincere la guerra ad Hamas e continuerà fino a raggiungere l’obiettivo” e “l’Occidente non tentenni”, come “per piegare il Terzo Reich”. Poi c’è l’angolo del buonumore, cioè il Foglio. Il rag. Cerasa titolava “In bocca a Trump ‘pace’ è diventata una parola sinistra”, pubblicava “Appunti sul Vietnam di Trump” e la sua ”Arte delle paci-truffa”, additandolo come colluso a Khamenei: “negozia alla cieca con Russia e Iran” con l’“impreparato Witkoff”, “imbroglia Israele”, “salva il nucleare iraniano”, riserva “il trattamento Zelensky a Netanyahu” e fa “annunci pericolosi su Teheran ed Erdogan”. E Ferrara sputava su “Trump e la banalità dello schifo”. E ora? Tre pagine col discorso di Trump e il sobrio titolo “Vittoria di Israele. Vittoria della pace”. Ma soprattutto del Foglio. Prossima scena: Ferrara che si paracaduta su Gaza per conferire ad Hamas il premio Poliziotto dell’Anno.

L'Amaca

 

Ai margini della fotografia
DI MICHELE SERRA
A sentire i tigì Rai di questi giorni, sembra che l'accordo su Gaza l'abbia fatto Giorgia Meloni: colei che nelle foto di gruppo, per altro affollatissime (mi dicono che c'era anche il presidente del Paraguay) spicca ai margini grazie al completo chiaro.
Non basta il provincialismo (con la politica estera quasi sempre piegata alle nostre faccende di bottega) a spiegare una
così goffa rappresentazione dell'accaduto.
È probabile che ci credano proprio: la coorte di funzionari, portaborse, giornalisti che il governo ha incaricato di addomesticare il servizio pubblico non agisce per opportunismo, ma per militanza.
Se avete in mente quel manipolo di deputatini di Fratelli d'Italia e
della Lega che appare a rotazione nei tigì per dire, in dieci secondi, "per merito del nostro governo oggi c'è un bel sole", potete capire che non c'è cinismo o malafede che possa spingere a mettersi in ridicolo fino a quel punto. Il propagandista è, a suo modo, un militante coraggioso: intuisce che nelle case, quando appare, risuona il pernacchio, ma si sacrifica per la causa.
Un direttore o vicedirettore di telegiornale anche di medio o
mediocre livello, rileggendo la scaletta, non può non rendersi
conto che l'Italia, con quanto sta accadendo sulla sponda
orientale del Mediterraneo, c'entra così così. O addirittura:
c'entra pochino. E di conseguenza non converrebbe
strombazzare più del dovuto un ruolo marginale, spacciandolo
per nuova leadership mondiale (forse, addirittura, più del
Paraguay). Ma se uno, invece, è un militante politico, per il
quale la Rai non è un servizio pubblico, ma un campo da
sminare dai nemici e da consacrare al culto della Capa, non si
accorgerà di nulla. La piaggeria gli sembrerà un valoroso
servizio alla Patria.

martedì 14 ottobre 2025

Che bontà!

 

La splendida pace… lo straordinario effluvio di bontà dei sionisti!




Gran bel video!

 


Essi vivono, sono tra noi!

 



Sia chiaro!

 



Anonimamente

 

Quando devi cambiare nome sulla scheda perché altrimenti… e comunque dire che “casa riformista è la vera novità della politica italiana”… ci fosse un Nobel per la frescaccia sarebbe loro!



Dal Futuro

 



Riepilogo

 



Intanto, al solito...

 

Meloniadi 2026: lo sport è contorno di affari e cemento
DI GIUSEPPE PIETROBELLI
Scandalose, insostenibili, costosissime Olimpiadi. Quando il 6 febbraio 2026 verrà acceso il braciere nello stadio di San Siro a Milano, il sipario non si alzerà solo su un evento sportivo planetario, ma anche su uno spettacolo molto poco edificante di spese folli e sprechi, promesse di rispetto ambientale non mantenute, opere pubbliche e colate di cemento, menzogne, affari e ideologia. È il Circo Bianco del Coni e del Cio che controllano lo sport e i suoi interessi, è un grande appuntamento diventato simbolo dell’orgoglio nazionale meloniano che ci costerà miliardi, è l’allegra giostra delle opere pubbliche, con una ressa di ministri, sindaci e governatori che vi sono saliti sopra e intendono restarci fino allo stordimento. È un’abbuffata collettiva frutto della sbornia olimpica, occasione irripetibile con il bottino assicurato, il che non significa che i fatti siano soltanto di rilievo penale, come si sta scoprendo nella Milano dei grattacieli. In molti casi basta la politica.
Con una incredibile e vergognosa operazione-fotocopia della storia, a distanza di cento anni dal “Manifesto degli intellettuali del Fascismo”, pubblicato il 21 aprile 1925 su Il Popolo d’Italia, la stessa definizione che racchiude l’essenza del regime diventa il brand del Comitato Organizzatore dei XXV Giochi Invernali. “Il Fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana…”, scriveva il filosofo-ideologo Giovanni Gentile, raccogliendo le firme di 250 uomini di cultura nell’anno delle “leggi fascistissime”, dieci mesi dopo l’omicidio Matteotti. “Vogliamo rappresentare il Nuovo Spirito Italiano radicato nella tradizione, ma proiettato verso il futuro, uno spirito vibrante e dinamico” annuncia Fondazione Milano Cortina, presentando il progetto al mondo. È la stessa espressione che troviamo nel testamento di Benito Mussolini, scritto sei giorni prima di essere ucciso dai partigiani.
Un secolo dopo, non si tratterà di una sovrapposizione perfetta di identità, eppure non si può catalogare la sincronia terminologica come una semplice bizzarria o coincidenza. È semplicemente inquietante. Non tutte le parole sono innocenti. Quegli stessi termini vengono messi in bocca dagli organizzatori perfino a un ignaro campione del tennis come Jannik Sinner, diventato primo testimonial, che in una lettera-appello ai suoi coetanei scrive: “Saremo i colori di un suggestivo affresco che racconterà l’Italia… racconteremo insieme il nuovo Spirito Italiano, vibrante e dinamico”.
Una montagna di soldi, edito da PaperFirst (362 pagine, 18 euro), dal 14 ottobre in libreria e in tutti gli store online, prende avvio dalla retorica dello sport che fa l’occhiolino a Palazzo Chigi. Continua attraversando le inchieste giudiziarie milanesi, gli appalti truccati, i raccomandati, i giochi di potere in Fondazione Milano Cortina a colpi di spioni, il dominio assoluto del Cio sugli sponsor e la guerra del governo contro la Procura meneghina, colpevole di voler indagare su una società che si dice privata, anche se è composta solo da enti pubblici ed è finanziata dal denaro degli italiani. L’indagine giornalistica è anche un viaggio nei disastri ambientali compiuti nei fragilissimi territori montani di Lombardia, Veneto, Trentino-Alto Adige, frutto di Olimpiadi diffuse che hanno moltiplicato i costi e lo scialo di denaro, in nome della monocultura del turismo, dello sci senza neve e dell’assalto alla montagna. Tutto è cominciato da tre bugie. La prima: le sedi per le gare sono già esistenti e richiedono solo un modesto restyling. La seconda: “La nostra filosofia di moderazione e responsabilità finanziaria darà vita a Giochi Invernali di cui tutti potranno essere orgogliosi”. Talmente orgogliosi e moderati che la spesa pubblica per le sole sedi di gara si è gonfiata dai 204 milioni di euro iniziali alla cifra di 945 milioni di euro.
La semplice organizzazione, che sarebbe dovuta costare 1 miliardo e mezzo di euro grazie a risorse esclusivamente private, è schizzata a 2 miliardi di euro, con quasi 400 milioni di soldi già stanziati dal governo Meloni per ripianare in anticipo i debiti. La terza rassicurazione (“Non sono necessarie nuove infrastrutture di trasporto”) è annegata in un fiume di cemento da 5 miliardi di euro per strade, ponti, ferrovie e parcheggi, con opere per un valore di 3 miliardi che non saranno pronte per le Olimpiadi. Tutto a spese dei contribuenti.
Le gare e le medaglie sono solo una dimensione sovrastrutturale delle Olimpiadi. Lo sport è sudore e fatica, sorrisi e lacrime. Lo sport è bello, ma la ragione profonda – il movente dello scandalo Milano Cortina 2026 – è una banalissima storia di soldi. È il merchandising della montagna che diventa modello di sviluppo e fabbrica del consenso.
Basta prendere una bella cartolina con i campanili e gli chalet, i boschi e i pendii innevati di Anterselva, Predazzo, Tesero, Bormio, Livigno e Cortina. Basta farne un collage con le rocce dolomitiche, le periferie metropolitane di Milano e le pietre millenarie dell’Arena di Verona.
Un pizzico di richiamo identitario allo spirito italiano e il gioco è fatto. È il Belpaese che dice di sì a tutto. All’ingordigia e allo scempio del paesaggio, allo strapotere di Simico che gestisce gli appalti e utilizza scorciatoie che non tollerano valutazioni di impatto ambientale, all’abbattimento meticoloso di un bosco a Cortina così da costruire una pista da bob per pochi intimi, diventata simbolo dello spreco e dell’ossessione del potere.
Sotto gli occhi degli ambientalisti costretti all’impotenza, i campioni di questo saccheggio sono i signori dello sport e gli impareggiabili, sfacciati, protagonisti della politica nostrana. A loro, una medaglia non gliela toglierà nessuno.


A proposito di...

 

Una settimana fa a Gaza i palestinesi morivano a decine al giorno per bombe e per fame, a Tel Aviv il governo annunciava annessioni della Striscia e della Cisgiordania e deportazioni dei gazawi, la Flotilla stava per essere fermata dagli israeliani in acque internazionali e le piazze d’Occidente si riempivano di manifestanti per chiedere ai governi di fermare la mattanza. Sembra un secolo: il quadro s’è totalmente e fulmineamente ribaltato, anche se tutti sanno che la tregua non è la pace (il Medio Oriente passa da una guerra all’altra da tremila anni) e sperano che diventi qualcosa di stabile e duraturo. Perché ciò accada, chi ha il potere di decidere dovrà sfoderare più fantasia e pragmatismo delle tifoserie ultrà che si scontrano nell’opinione pubblica con tesi opposte, ma stesso settarismo: quelli che “Israele è sempre stato e sempre sarà così” (come se Netanyahu fosse uguale a Rabin, ucciso da un fan di Bibi e dei suoi nazi-ministri per aver firmato la pace con Arafat) e quelli che “i palestinesi sono sempre stati e sempre saranno quelli del 7 ottobre”. Un antidoto agli opposti fanatismi che cianciano di “pace giusta” mentre la gente crepa è l’approccio di Trump, che è la canaglia a tutti nota, ma almeno un pregio ce l’ha: non è ideologico, non ragiona per pregiudizi, è completamente amorale e dunque non conosce moralismi né “imperi del Bene” da scatenare in guerra contro gli “assi del Male”. C’è da trattare con Hamas? Tratta con Hamas. Con gli Houthi? Con gli Houthi. Con l’Iran? Con l’Iran. Idem con Putin e Xi. Dovremmo scordarci le “paci giuste”, peraltro mai esistite nella Storia, e acconciarci alle “paci possibili”, che sono sempre “sporche”: nascono dal compromesso fra interessi opposti, cioè dalla diplomazia, che deve scontentare un po’ tutti trovando un punto di incontro realistico rispettando i rapporti di forze.
Vale per Netanyahu, che deve ingoiare un accordo firmato in pompa magna da Trump, Erdogan, al Thani e al Sisi che promuove Hamas a poliziotto di Gaza, rinfoderare i propositi di annessione, deportazione, guerra infinita e tornare al voto con un pugno di mosche. Vale per i palestinesi, che devono trovare una leadership spendibile per riavviare il faticoso percorso verso lo Stato, citato sia pur vagamente dal patto Trump (e chissà che Hamas, o come si chiamerà, non si candidi a esserlo rinunciando alla lotta armata e riconoscendo Israele come fece l’Olp: da terroristi a statisti è un attimo, vedi al Jolani in Siria). E si spera che valga pure per Ucraina e Russia, dove gli euro-nani Ue continuano a inseguire la “pace giusta”, cioè la chimera della sconfitta militare russa, mentre Kiev seguita a perdere uomini e territori. Anche lì l’alternativa alla guerra è una sola: la pace sporca.

L'Amaca


La pace quotata in Borsa
di Michele Serra
Se hai i soldi, la pace puoi comperarla, perché la pace, come tutto il resto, è una merce. Troveremo il modo di quotarla in Borsa. Se oltre ai soldi hai dalla tua anche il Dio della Bibbia (degli altri chi se ne importa), oltre che ricco sei anche dalla parte giusta. Questa la mia sintesi del discorso di Trump alla Knesset. Sintesi brutale e forse anche tendenziosa, me ne rendo conto, ma non saprei farla diversamente.
Si è detto: ben venga la pace di Trump, se porta un poco di conforto alla gente di Gaza e al Medio Oriente in generale. È giusto dirlo, è giusto pensarlo. Né la boria scandalosa con la quale il bullo attualmente capo dell’Occidente incensa se stesso basta a cancellare il suo innegabile momento di trionfo: l’interruzione della carneficina porta la sua firma.
E la memoria torna al nulla, o al quasi nulla, che ha preceduto, nei decenni, questa orribile guerra e questa parvenza di pace. La memoria torna ai dem americani (ed europei: un nome solo, Blair) nel momento in cui il gioco era nelle loro mani.
E a parte un meraviglioso discorso di Obama al Cairo, nel 2009, rivolto al mondo musulmano («fino a quando i nostri rapporti saranno definiti dalle nostre differenze, daremo maggior potere a coloro che perseguono l’odio invece della pace»), ditemi quali concrete tracce politiche, quali gesti di disarmo, quali cambiamenti strutturali per un mondo di pace portano la firma dei dem.

Se oggi un supporter di Trump, con il suo ridicolo cappellino calcato in testa, viene a dirci: e voi, prima di lui, che cosa avevate fatto di concreto per la pace in Medio Oriente e per la pace in generale? È difficile trovare una risposta decente. La prepotenza dei nostri giorni è anche figlia dell’impotenza che l’ha preceduta. 

lunedì 13 ottobre 2025

Siamo a posto!

 



Palese importanza

 



Furfantelli

 

Il giallo dei 3 Monet: la collezione Agnelli è degna di un Poirot
DI MANUELE BONACCORSI ED ETTORE BOFFANO
Anno 2013. Sotheby’s New York, tempio globale dell’arte, batte per 16 milioni il Glaçon numero due. Ignoto l’acquirente, si conosce però la provenienza: un’azienda specializzata in operazioni “coperte” su opere d’arte: la Duhamel, sede a Parigi, a due passi dall’Eliseo. In Francia, lo aveva esposto nel suo museo un impresario d’arte d’origine italiana, Marc Restellini. Prima ancora si trovava in Giappone. Non può essere lo stesso Monet: quando viene battuto a New Yok, il quadro di Agnelli si trovava stabilmente appeso a un chiodo sugli spessi muri di Villa Frescot, in usufrutto alla moglie dell’Avvocato, Marella. La vedova muore nel 2019. E solo allora la figlia Margherita Agnelli può entrare nella casa ereditata dal padre. Ma del Monet non c’è traccia. Margherita va su tutte le furie e presenta una denuncia alla Procura di Milano: ritiene che il Glaçon, assieme a un’altra decina di opere, le sia stato illecitamente sottratto – sospetta lei – dai suoi figli, John, Lapo e Ginevra, con cui da anni è in causa per l’eredità dei genitori. Il pm di Milano Eugenio Fusco indaga e riceve una soffiata: il Monet si troverebbe in Svizzera, in un caveau operato da un mercante d’arte, Gabriele Martino, il cui padre Massimo aveva collaborato con Agnelli.
La mail: “Quello vero è stato sostituito?”
Parte la rogatoria, i gendarmi elvetici entrano in un box blindato del porto franco di Chiasso. Ma non trovano niente, sparita ogni traccia. E quindi: tutti prosciolti. Il colpo di scena arriva però nel 2024: la Procura di Torino indaga sulla residenza svizzera di Marella Caracciolo: quando l’8 febbraio la Guardia di Finanza entra negli uffici di John Elkann a Torino nessuno se lo aspetta. Vengono sequestrate montagne di documenti che porteranno all’incriminazione di John per truffa ai danni dello Stato ed evasione fiscale. Gli uomini della Finanza perquisiscono anche un caveau al Lingotto: trovano alcune opere d’arte, tra cui – sorpresa! – il nostro Monet, il Glaçon. Ma è una copia, datata 2008. Dove si trova l’originale? La risposta è negli elenchi sequestrati negli uffici della signora Montaldo, la segretaria particolare di Elkann: è in Svizzera a Chesa Alkyone, nella casa che fu di Agnelli. Sarebbe sempre stato lì, dice Elkann ai Beni culturali.
Qualcosa non torna. Come ha fatto il Monet ad andare da Torino alla Svizzera? La legge infatti vieta l’esportazione senza autorizzazione di opere d’arte di grande valore, e il Monet. E di autorizzazioni, scopre Report grazie a un accesso agli atti, non ve n’è traccia. Il reato vale tra 2 e 8 anni di reclusione a cui si aggiunge la confisca. Su questo ora indaga la procura di Roma. Nelle carte in possesso del pm romano Stefano Opilio, c’è un inventario che dimostra la presenza a Torino del Monet. Datato 20 ottobre 2003, poco dopo la morte dell’avvocato, si intitola “Art Frescot”. E una e-mail, in cui la signora Montaldo si chiede: “L’originale del Monet era quindi a Frescot ed è stato sostituito da una copia?”. E poi, in un’altra missiva: “Per il Monet non esiste (importazione, ndr) temporanea, il dr Martino si è presto un giorno per valutare come approcciare la pratica”. Tradotto: se non c’è importazione temporanea e l’opera è finita dall’Italia alla Svizzera è un grosso problema. Il giallo è risolto? Lo dirà la procura di Roma.
La casa d’aste e il “Mon Cher John”
E il Glaçon venduto da Sotheby’s nel 2013? Report aveva chiesto numi alla casa d’asta. Domanda secca: “Avete venduto un falso o avete esportato illegalmente un’opera?”. La risposta fu evasiva: “Siamo sicuri che tutte le procedure siano state seguite”. Sotheby’s, però, è una cosa seria: la fiducia, in questo business, è denaro. E in realtà era corsa ai ripari. Sempre nel 2013 – si scopre adesso dalle carte sequestrate a Torino e trasferite alla Procura di Roma – ci fu un lungo scambio di e-mail tra John Elkann e alcuni funzionari della casa d’asta. Si danno del tu, si conoscono: “Mon Cher John” è l’incipit. Sotheby’s chiede umilmente a Elkann di inviare l’opera a New York, per poterla confrontare con l’altra. “Sarà nostra cura provvedere alle spese di spedizione e assicurazione”, dicono. Si accordano anche sulla polizza assicurativa: 14 milioni di euro. Il Monet vola dalla Svizzera a New York, poi ritorna: ora, secondo le carte sequestrate, lo possiede Lapo.
Ci saranno pure tre Monet, ma l’originale è uno. E lo vogliono tutti: Lapo non vuole mollarlo, la procura di Roma potrebbe confiscarlo, Margherita Agnelli dice che è suo, un ignoto cliente di Sotheby’s vorrebbe goderselo.

A proposito di pace

 

"Con questo piano non si vuole la pace In Palestina ogni imposizione fallisce"
di Francesca Mannocchi
Gerusalemme
Il 4 settembre 2025, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha inserito Al-Haq nella lista delle entità sanzionate, insieme ad altre due organizzazioni palestinesi: il Palestinian Centre for Human Rights e Al Mezan Center for Human Rights. Secondo la motivazione ufficiale, le tre Ong avrebbero «partecipato direttamente» alle attività della Corte penale internazionale (Cpi) mirate a «indagare o perseguire cittadini israeliani», contribuendo così - nella lettura di Washington - alla «politicizzazione illegittima della giustizia internazionale». La misura si basa sull'executive order numero 14203, firmato durante l'amministrazione Trump e tuttora in vigore, che consente di sanzionare individui o organizzazioni coinvolti nelle indagini della Cpi contro Paesi alleati degli Stati Uniti. In termini concreti, le sanzioni comportano il congelamento di eventuali beni e l'impossibilità di transazioni finanziarie attraverso il sistema statunitense.
Per chi conosce la storia di Al-Haq, la decisione americana ha suscitato stupore e condanna. Fondata nel 1979 da un gruppo di avvocati palestinesi, Al-Haq è considerata una delle più antiche e autorevoli organizzazioni per i diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati. Documenta violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani commesse da tutte le parti in causa - Israele, Autorità Palestinese e Hamas - e i suoi rapporti vengono regolarmente utilizzati da agenzie Onu, missioni d'inchiesta internazionali e tribunali. Dal 2006 la guida dell'organizzazione è affidata a Shawan Jabarin, giurista e attivista per i diritti umani, figura di riferimento nel panorama palestinese e internazionale. Sotto la sua direzione, Al-Haq ha ottenuto riconoscimenti da organismi indipendenti e associazioni internazionali, ma è stata anche oggetto di accuse e campagne di delegittimazione. Nel 2021 Israele l'ha dichiarata «organizzazione terroristica», accusa respinta da Onu, Unione europea e da numerosi governi occidentali.
«Le sanzioni statunitensi, denunciano molte organizzazioni per i diritti umani, rappresentano un precedente pericoloso: colpiscono chi fornisce informazioni alla Corte Penale Internazionale nell'ambito delle indagini sui presunti crimini di guerra commessi a Gaza e in Cisgiordania. Amnesty International e Human Rights Watch le hanno definite «un attacco diretto alla società civile palestinese e alla ricerca di giustizia internazionale». In questo contesto di forte pressione politica, Shawan Jabarin continua a sostenere che il lavoro di Al-Haq non è politico ma giuridico, e che documentare le violazioni rimane «un dovere verso il diritto e verso le vittime».
Cosa pensa davvero di questo accordo? Lo considera un vero piano di pace?
«È un accordo che non si basa su principi di giustizia e sul diritto internazionale. Non mira a portare la pace. Perché per costruire la pace non bisogna escludere i palestinesi, non bisogna ignorarli. Inoltre, affrontare la ricostruzione come un business pone anche una questione in termini di valori umani. Infine, non è possibile per chi è complice di quanto sta accadendo in Palestina, ovvero l'amministrazione statunitense, costruire davvero la pace qui».
Che forma avrebbe la pace che immagina lei?
«Vorrei che si costruisse una pace reale, ma non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza attribuzione delle responsabilità e risarcimento delle vittime. Israele ha commesso crimini e atrocità, e non ha mai dovuto rendere conto delle proprie azioni. La cultura dell'impunità continua, ed è questo il problema principale. Poi c'è l'aspetto umanitario che non può essere trascurato. La crisi umanitaria non prevede compromessi. Ma soprattutto, per costruire la pace va fermata l'occupazione in Palestina, invece siamo davanti alla legge della giungla e non possiamo parlare di giustizia. Perché questa è la legge della giungla e tutti sono responsabili».
Quando parla di responsabilità a chi si riferisce?
«La comunità internazionale è responsabile. Responsabile di non avere imparato la lezione dopo decenni di oppressione, regime coloniale, occupazione e apartheid, come dicono le principali organizzazioni dei diritti umani internazionali. Se si vuole davvero costruire stabilità e pace, bisogna tenere conto dei diritti dei palestinesi, della giustizia e della legge. Questa è, indubbiamente, la lezione principale per tutti i Paesi, altrimenti le storia si ripeterà ancora e ancora. Da decenni vengono fatti accordi che ignorano completamente il diritto internazionale, i diritti come base e la giustizia come modo di affrontare le cose. Non siamo riconosciuti come popolo. Netanyahu è orgoglioso di non riconoscerci. Fin dalla Dichiarazione Balfour del 1917, l'imposizione esterna di "soluzioni" per la situazione in Palestina è fallita perché ha evitato di fare i conti con la condotta persistente e manifestamente illegale di Israele e si è rifiutata di riconoscere le cause profonde della situazione, ovvero la necessità di smantellare, in linea con il diritto internazionale, il regime coloniale annessionista e di apartheid di Israele. Ma biasimo anche i leader palestinesi. Biasimo Mahmoud Abbas. Biasimo tutti loro, perché il nostro futuro, la nostra democrazia, la costruzione della nostra leadership, il diritto di partecipazione del popolo alla vita pubblica non sono qualcosa di negoziabile».
Proprio parlando di leadership palestinese: cosa pensa della decisione di non includere Marwan Barghouti nella lista di prigionieri scambiati?
«Penso che non vogliano vedere in libertà i leader palestinesi e non vogliono nemmeno che i palestinesi possano sceglierli ed eleggerli. Penso che uno come Marwan Barghouti - ma non solo lui - potrebbe mandare un buon messaggio, mantenendo viva la speranza tra la gente e dando vita alla società palestinese. Ma questo è qualcosa che gli israeliani non vogliono. Israele vuole che siamo deboli».
Pensa che questo sia un piano in continuità o discontinuità col passato? Penso in particolare ai piani presentati anche dalla precedente amministrazione Trump.
«Nel 2020, la prima amministrazione Trump annunciò il suo "Accordo del Secolo", presentato come una "visione per un accordo di pace globale tra Israele e palestinesi". Quella proposta respingeva l'applicazione del diritto internazionale ai palestinesi, affermava la definitiva normalizzazione e il sostegno degli Stati Uniti ai crimini di Israele contro il popolo palestinese. Una politica che è stata avallata anche dall'amministrazione Biden. L'ultimo piano degli Stati Uniti è in continuità con questa traiettoria, ripetendo gli stessi errori già fatti nel processo di Oslo».
Che lezione pensa si possa trarre, quindi, dalla storia degli accordi precedenti - Oslo, ad esempio - per valutare i negoziati di questi giorni? Quali sono stati gli errori commessi dopo Oslo e che non andrebbero ripetuti?
«Penso che la base principale da cui tutti devono partire siano il parere consultivo della Corte internazionale di giustizia e la risoluzione dell'Assemblea Generale sull'illegalità di questa occupazione. Hanno provato ad applicare di tutto, tranne il diritto internazionale, le risoluzioni dell'Onu e il rispetto dei diritti dei palestinesi. E hanno fallito in tutto».
Poi c'è il tema della sorte dei prigionieri. Negli ultimi due anni, la situazione all'interno delle carceri è peggiorata come mai prima d'ora.
«È la peggiore di sempre. Mai prima d'ora avrei pensato che Israele potesse arrivare a questo limite. Ma questa non è una dimostrazione di forza, per loro. Anzi. È una grande dimostrazione di debolezza della leadership e della società israeliana. In prigione non danno da mangiare, torturano, uccidono. Non si danno alcun limite».
Qual è la sfida principale che la società palestinese deve affrontare ora?
«La principale sfida che stiamo affrontando ora è quella di mantenere viva la speranza tra i giovani. Di far sì che si concentrino sull'applicazione del diritto internazionale e sull'uso di mezzi pacifici. Perché dall'esterno il messaggio che arriva è ‘siete deboli, nessuno rispetterà la vostra dignità e i vostri diritti».

Lula e la povertà

 

Se esiste la fame è per scelta della
politica
DI LUIZ INÁCIO LULA DA SILVA
La fame non è una condizione naturale dell'umanità né una
tragedia inevitabile: è il risultato di scelte politiche e di sistemi
economici che hanno deciso di chiudere gli occhi di fronte alle
disuguaglianze. O addirittura di promuoverle.
Lo stesso ordine economico che nega a 673 milioni di persone
l'accesso a un'alimentazione adeguata permette a un ristretto
gruppo di 3.000 miliardari di detenere il 14,6% del pil
mondiale.
Nel 2024 le nazioni più ricche hanno contribuito al maggiore
aumento delle spese militari dalla fine della Guerra Fredda,
raggiungendo i 2,7 trilioni di dollari in un solo anno. Ma non
hanno rispettato l'impegno che esse stesse avevano assunto:
investire lo 0,7% del proprio pil in azioni concrete per
promuovere lo sviluppo dei paesi più poveri.
Oggi assistiamo a situazioni simili a quelle di ottant'anni fa,
quando fu creata l'Organizzazione delle Nazioni Unite per
l'Alimentazione e l'Agricoltura (Fao). A differenza di allora,
però, non affrontiamo soltanto le tragedie della guerra e della
fame che si alimentano a vicenda, ma anche l'urgenza della
crisi climatica. E la concertazione tra le nazioni creata per
risolvere le sfide del 1945 non è più in grado di affrontare problemi attuali.
È necessario riformare i meccanismi globali di governance.
Dobbiamo rafforzare il multilateralismo, creare flussi di
investimento che promuovano lo sviluppo sostenibile e
garantire agli Stati la capacità di attuare politiche pubbliche
coerenti di lotta alla fame e alla povertà. È fondamentale
includere i poveri nel bilancio pubblico e i più ricchi
nell'imposta sul reddito. Ciò passa per la giustizia fiscale e per
la tassazione dei super-ricchi, un tema che siamo riusciti a
inserire — per la prima volta — nella dichiarazione finale del
vertice del G20 del novembre 2024, svoltosi sotto la
presidenza brasiliana. Un cambiamento simbolico, ma storico.
Sosteniamo questa pratica nel mondo — e l'abbiamo adottata
in Brasile. È in via di approvazione in Congresso una riforma
sostanziale delle regole fiscali: per la prima volta nel paese
sarà introdotta un'imposta minima sui redditi delle persone
più ricche, esentando milioni di lavoratori con redditi più
bassi.
Sempre alla guida del G20, il Brasile ha proposto la creazione
dell'Alleanza Globale contro la Fame e la Povertà. L'iniziativa,
benché recente, conta già 200 membri — 103 paesi e 97 partner
tra fondazioni e organizzazioni. Non si tratta soltanto di
condividere esperienze ma di mobilitare risorse e di esigere
impegni concreti. Con l'Alleanza vogliamo che i paesi
dispongano delle capacità necessarie per attuare politiche che
riducano effettivamente le disuguaglianze e garantiscano il
diritto a un'alimentazione adeguata. Politiche che producono
risultati rapidi, come quelli registrati in Brasile dopo aver
elevato la lotta alla fame al rango di priorità di governo nel
2023. Dati ufficiali diffusi pochi giorni fa mostrano che
abbiamo liberato dalla fame 26,5 milioni di brasiliani
dall'inizio del 2023. Inoltre, il Brasile è uscito, per la seconda
volta, dalla Mappa della Fame della Fao, nel suo rapporto sulla
sicurezza alimentare globale. Una mappa alla quale non
sarebbe mai dovuto tornare se le politiche avviate durante i
miei primi governi (2003-2010) e quelli della presidente Dilma
Rousseff (2011-2016) non fossero state abbandonate. Dietro a
questo risultato vi è un insieme coordinato di azioni su diversi
fronti. Abbiamo migliorato e ampliato il nostro principale
programma di trasferimento di reddito, che oggi raggiunge 20
milioni di famiglie, con particolare attenzione a 8,5 milioni di
bambini fino a 6 anni. Abbiamo aumentato i fondi destinati
all'alimentazione gratuita nelle scuole pubbliche che beneficia
40 milioni di studenti. Attraverso gli acquisti pubblici di
alimenti abbiamo garantito reddito alle famiglie di piccoli
agricoltori e distribuito cibo gratuito e di qualità a chi ne ha
più bisogno. Inoltre, abbiamo incrementato la fornitura
gratuita di gas da cucina ed elettricità per le famiglie a basso
reddito, liberando risorse nei bilanci domestici e rafforzando
così la sicurezza alimentare.
Tuttavia, nessuna di queste politiche può reggere senza un
contesto economico favorevole che le sostenga. Quando c'è
lavoro, quando c'è reddito, la fame perde forza. Per questo
abbiamo adottato una politica economica che ha dato priorità
all'aumento dei salari, portandoci al più basso tasso di
disoccupazione mai registrato in Brasile e anche al più basso
indice di disuguaglianza di reddito pro capite.
Il Brasile ha ancora molta strada da percorrere per garantire la
piena sicurezza alimentare a tutta la sua popolazione ma i
risultati raggiunti dimostrano che l'azione dello Stato può
davvero sconfiggere il flagello della fame. Tuttavia, tali
iniziative dipendono da cambiamenti concreti nelle priorità
mondiali: investire nello sviluppo e non nelle guerre;
privilegiare la lotta alle disuguaglianze e non le politiche
economiche restrittive che da decenni generano un'enorme
concentrazione di ricchezza; affrontare la sfida del
cambiamento climatico mettendo le persone al centro delle
nostre preoccupazioni.
Ospitando la COP30 in Amazzonia, il mese prossimo, il Brasile
vuole dimostrare che la lotta al cambiamento climatico e
quella contro la fame e la povertà devono procedere insieme.
A Belém vogliamo adottare una Dichiarazione su fame,
povertà e clima che riconosca gli impatti profondamente
diseguali del cambiamento climatico e il suo ruolo
nell'aggravare la fame in alcune regioni del mondo.
Porterò inoltre questi messaggi al Forum Mondiale
dell'Alimentazione e alla riunione del Consiglio dei Campioni
dell'Alleanza globale contro la fame, eventi ai quali avrò
l'onore di partecipare oggi, 13 ottobre, a Roma. Messaggi che
dimostrano che i cambiamenti sono urgenti ma possibili.
Perché l'umanità, che ha creato il veleno della fame contro se stessa, è anche capace di produrne l'antidoto.
L' autore è il presidente del Brasile

domenica 12 ottobre 2025

Effettivamente…

 


Sai che lo pensavo anch’io?

 



Vergognosa

 

Improvvisamente, come una gazzosa su un tavolo all’Oktoberfest, la Roccella perennemente in letargo, che è anche, purtroppo, ministra, se ne esce con una delle più stupide idiozie di questi ultimi lustri, una pernacchia alla ragione, uno schiaffo a tutti i normodotati: le “gite” ad Auschwitz sono utili solo per incolpare il fascismo. Mai, a memoria d’uomo, nessuno aveva tentato di farsi notare  con la sua dabbenaggine senza limiti, un timbro certificante l’inutilità del proprio operato, la pochezza intellettuale, il cretinismo galoppante affliggente i pochi neuroni in possesso! 

Non si permetta Roccella di chiamare “gite” i viaggi della memoria in uno dei luoghi più insultanti l’umanità intera. Non si permetta nemmeno di pensarlo. Chi considera gite le visite a ciò che resta del campo dì concentramento più grande, è un inqualificabile pusillanime, un peto della società. 

Ed inoltre: la Shoah avvenne per mano nazista durante il periodo fascista. Le leggi razziali furono emanate dal fascismo, il nazismo e il fascismo italiano furono grandi alleati. Pertanto è d’obbligo accostare il fascismo alla Shoah. Storicamente incontrovertibile. 

E pertanto: se ha bisogno di notorietà, se ozia ad infiascare aria fritta, non tocchi tematiche sacre. Partecipi a qualche talk condotto da suoi adepti, ce ne sono tanti, faccia pubblicità, canti per strada, spari fregnacce come i suoi colleghi. Vedrà che alla fine qualcuno la noterà. 

Senza alcuna stima!

Ma dai!

 


Quando vai alla giornata del Fai a Villa Rezzola a Pugliola e scopri, a tarda età, che la canfora è un albero e non dei sassolini in bustine per scacciare le tarme!

Stranezze

 


E' il momento!

 



Sempre su Micron

 

La “Succession” parigina: Macron punta sul caos
DI BARBARA SPINELLI
A prima vista sembra inspiegabile, la testardaggine capricciosa con cui Emmanuel Macron sforna un primo ministro dopo l’altro – l’ultimo è Sébastien Lecornu, fedelissimo, incaricato ben tre volte – pur di non ammettere l’evidenza: i partiti di centro che lo sostengono sono sempre più striminziti, la sua politica è stata sconfitta alle elezioni del giugno 2024, le ore del suo soggiorno all’Eliseo sono contate. Lunedì Lecornu spiegherà quel che l’Eliseo vuole e concede, ma presto cadrà anche lui, come i due premier (Michel Barnier, François Bayrou) che l’hanno preceduto. Invece la testardaggine e i capricci sono spiegabili. Se Macron resta abbarbicato al potere è perché non vuole in alcun modo che le proprie scelte neoliberiste vengano disfatte: in particolare la scelta di proteggere dal fisco le grandi ricchezze e la riforma delle pensioni che gli elettori di estrema destra e di sinistra respingono, chiedendone una più giusta.
Macron è “solo davanti alla crisi”, affermano giornali e reti tv, ma così solo non è. Lo appoggiano i grandi patrimoni, le multinazionali, le imprese raggruppate nella confindustria francese (Medef). È a loro che Macron promette regali fiscali da quando fu eletto nel 2017. Con loro si identifica, mentre la sua popolarità crolla al 13-14%.
Il dramma Succession è iniziato e nessun candidato presidente vuol essere contaminato dal macronismo, anche se sono rari quelli se ne discosteranno davvero. Giornali e televisioni insistono sulla riforma delle pensioni che sinistra ed estrema destra vorrebbero abrogare, e su finte mini-concessioni del binomio Macron-Lecornu. La riforma non sarebbe abrogata ma dilazionata o perfino sospesa, in attesa che passi quando sarà eletto il nuovo presidente, in teoria nel 2027 ma forse prima se Macron dovrà dimettersi. Ma ancor più temuta dall’establishment economico-finanziario è la tassa sugli ultraricchi – detta anche tassa Zucman, dal nome dell’economista Gabriel Zucman. Un’imposta minima, applicata ai patrimoni di chi ha redditi annui superiori a 100 milioni di euro: aiuterebbe a salvare lo stato sociale e anche le pensioni, grazie a un introito 15-25 miliardi. Ma la confindustria erige un muro massiccio a difesa dei regali fiscali di Macron e preme in prima linea sui deputati socialisti. L’organizzazione imprenditoriale ha diffuso nelle settimane scorse un opuscolo confidenziale – un kit di mobilitazione – che spiega ai singoli deputati la catastrofe che potrebbe derivare dalla tassa Zucman o tasse somiglianti: fuga di capitali, instabilità, caos infine. Il kit cita l’esodo dei capitali in Norvegia, quando fu approvata una tassa simile. Omette di dire che quell’imposta colpiva i redditi annui superiori a 1,7 milioni di euro, non i 100 milioni annui indicati da Zucman. La tassa viene descritta come diabolica “predazione della ricchezza”. Anche in questo caso la maggioranza dei francesi la sostiene (86%), mentre la classe politica sopisce, tronca e ascolta le lobby.
Per capire qualcosa del caos francese occorre andare indietro nel tempo e individuare il momento in cui l’idea di democrazia “rappresentativa” ha vacillato non solo sotterraneamente, ma in maniera palese. È accaduto poco prima della nascita dell’euro. Nel 1998, il presidente della Banca centrale tedesca, Hans Tietmeyer, se ne uscì con una dichiarazione dirompente: a decidere è il “plebiscito permanente dei mercati”, oltre a quello degli elettori. Nel 2007 Greenspan disse la stessa cosa: grazie alla globalizzazione sono i mercati mondiali a prendere le decisioni politiche. Monti espose tesi analoghe, da presidente del Consiglio, quando disse che non poteva negoziare il salvataggio dell’euro a Bruxelles “tenendo pienamente conto” del proprio Parlamento (Spiegel, intervista del 6.08.2012). Da allora l’appello alla sovranità popolare viene assimilato al populismo o sovranismo. Nella strategia di Macron la sinistra francese doveva essere sfasciata, e il tentativo di unione nelle Legislative del 2024 andava affossato. È quello che è accaduto.
Oggi il Partito socialista è un intruglio, ma su un punto è sicuro: la criminalizzazione dell’ex alleato Mélenchon, che propugna idee redistributive della socialdemocrazia classica e avversa l’economia di guerra in Francia e Europa. Accusato delle peggiori nefandezze – antisemitismo, filo-putinismo, radicalismo – Mélenchon è ben più temuto e ostracizzato dell’estrema destra di Le Pen-Bardella. Il Partito socialista rischia di imboccare la strada centrista proprio quando il centrismo vive in Francia un declino spettacolare. È la strada che esalta la “cultura del compromesso e dell’umiltà”, abusivamente chiamata socialdemocratica. Di fatto non è più sinistra. E la terza via di Blair, naufragata da tempo in Inghilterra. O di Keir Starmer, sull’orlo del naufragio.