Nel giorno della dipartita di Kissinger, credo sia utile rileggere una delle più famose interviste concessa ad Oriana Fallaci, l'incontro che lo stesso Kissinger definì "La cosa più stupida della mia vita."
L’intervista di Oriana Fallaci a Kissinger: «La guerra è virilità, io mi sento un cowboy. Il potere? Uno strumento per fare cose splendide»
di Oriana Fallaci
Quest’uomo troppo famoso, troppo importante, troppo fortunato, che chiamavano Superman, Superstar, Superkraut, e imbastiva alleanze paradossali, raggiungeva accordi impossibili, teneva il mondo col fiato sospeso come se il mondo fosse la sua scolaresca di Harvard. Questo personaggio incredibile, inspiegabile, in fondo assurdo, che s’incontrava con Mao Tse-tung quando voleva, entrava nel Cremlino quando ne aveva voglia, svegliava il presidente degli Stati Uniti e gli entrava in camera quando lo riteneva opportuno. Questo cinquantenne con gli occhiali a stanghetta, dinanzi al quale James Bond diventava un’invenzione priva di pepe. Lui non sparava, non faceva a pugni, non saltava da automobili in corsa come James Bond, però consigliava le guerre, finiva le guerre, pretendeva di cambiare il nostro destino e magari lo cambiava. Ma insomma, chi era questo Henry Kissinger? [...]
La sua biografia è oggetto di ricerche che rasentano il culto e tutti si sa che è nato a Furth, in Germania, nel 1923, figlio di Luis Kissinger, insegnante in una scuola media, e di Paula Kissinger, massaia . Si sa che la sua famiglia è ebrea, che quattordici dei suoi parenti morirono nei campi di concentramento, che insieme al padre e alla madre e al fratello Walter fuggì nel 1938 a Londra e poi a New York, che a quel tempo aveva quindici anni e si chiamava Heinz, mica Henry, e non sapeva una parola d’inglese. Ma lo imparò molto presto. Mentre il padre faceva l’impiegato in un ufficio postale e la madre apriva un negozio di pasticceria, studiò così bene da essere ammesso a Harvard e laurearsi a pieni voti con una tesi su Spengler, Toynbee e Kant, poi diventarvi professore. Si sa che a ventun anni fu soldato in Germania, dove era con un gruppo di GI selezionati da un test e giudicati così intelligenti-da-sfiorare-il-genio, che gli affidarono per questo (e malgrado la giovane età) l’incarico di organizzare il governo di Krefeld, una città tedesca rimasta senza governo. Infatti a Krefeld fiorì la sua passione per la politica: una passione che avrebbe appagato diventando consigliere di Kennedy, di Johnson, e poi assistente di Nixon. Non a caso potevi considerarlo il secondo uomo più potente d’America. Sebbene alcuni sostenessero che era molto più, come dimostrava la battuta che al tempo della mia intervista circolava a Washington: «Pensa cosa succederebbe se morisse Kissinger. Richard Nixon diventerebbe presidente degli Stati Uniti...».
Quindi l’uomo restava un mistero, come il suo successo senza paragoni. E una ragione di tale mistero era che avvicinarlo, comprenderlo era difficilissimo: di interviste individuali non ne dava, parlava solo alle conferenze-stampa indette dalla presidenza. Così, giuro, non ho ancora capito perché accettasse di vedere me, appena tre giorni dopo aver ricevuto una mia lettera priva di illusioni. Lui dice che fu per la mia intervista col generale Giap, fatta ad Hanoi nel febbraio del sessantanove. Può darsi. Però resta il fatto che dopo lo straordinario «sì» cambiò idea e decise di vedermi a una condizione: non dirmi nulla. Durante l’incontro, a parlare sarei stata io e da quel che avrei detto egli avrebbe deciso se darmi l’intervista o no. Ammesso che ne trovasse il tempo. Il che avvenne davvero alla Casa Bianca, giovedì 2 novembre 1972, quando lo vidi giungere tutto affannato, senza sorrisi, e mi disse: «Good morning, miss Fallaci». Poi, sempre senza sorrisi, mi fece entrare nel suo studio elegante e pieno di libri, telefoni, fogli, quadri astratti, fotografie di Nixon. Qui mi dimenticò mettendosi a leggere, le spalle voltate, un lungo dattiloscritto. Era un po’ imbarazzante restarmene lì in mezzo alla stanza, mentre lui leggeva il dattiloscritto e mi voltava le spalle. Era anche sciocco, villano da parte sua. Però la cosa mi permise di studiarlo prima che lui studiasse me.
E non solo per scoprire che non è seducente, così basso e tarchiato e oppresso da quel testone di ariete: per scoprire, ecco, che non è affatto disinvolto, né sicuro di sé. Prima di affrontare qualcuno, egli ha bisogno di prendere tempo e proteggersi con la sua autorità. [...] Al venticinquesimo minuto circa, decise che avevo passato gli esami. Forse mi avrebbe dato l’intervista. [...] E alle dieci di sabato 4 novembre ero di nuovo alla Casa Bianca. Alle dieci e mezzo entravo di nuovo nel suo ufficio per incominciare l’intervista più scomoda, forse, che abbia mai fatto. Dio che pena! Ogni dieci minuti lo squillo del telefono ci interrompeva, ed era Nixon che voleva qualcosa, chiedeva qualcosa, petulante, fastidioso come un bambino che non sa stare lontano dalla sua mamma. Kissinger rispondeva con premura, ossequioso, e il colloquio con me si interrompeva: rendendo ancor più difficile lo sforzo di capirlo un poco. Poi, proprio sul più bello, mentre egli mi denunciava l’essenza inafferrabile del suo personaggio, uno dei telefoni squillò di nuovo. Era di nuovo Nixon e: poteva il dottor Kissinger passare un attimo da lui? Certo, signor presidente. Scattò in piedi, mi disse di aspettarlo, avrebbe cercato di darmi ancora un po’ di tempo, uscì. E così si concluse il mio incontro. [...]
Dio, che uomo di ghiaccio. Per tutta l’intervista non mutò mai quella espressione senza espressione, quello sguardo ironico o duro, e non alterò mai il tono di quella voce monotona, triste, sempre uguale. L’ago del registratore si sposta quando una parola è pronunciata in tono più alto o più basso. Con lui restò sempre fermo e, più di una volta, dovetti controllare: accertarmi che il magnetofono funzionasse bene. Sai il rumore ossessionante, martellante, della pioggia che cade sul tetto? La sua voce era così. E, in fondo anche i suoi pensieri: mai turbati da un desiderio di fantasia, da un disegno di bizzarria, da una tentazione di errore. Tutto era calcolato in lui, controllato come nel volo di un aereo guidato dal pilota automatico. [...] Kissinger ha i nervi e il cervello di un giocatore di scacchi. Naturalmente troverai tesi che prendono in considerazione altri lati del suo personaggio. Ad esempio, il fatto che sia inequivocabilmente un ebreo e irrimediabilmente un tedesco. Ad esempio il fatto che, come ebreo e come tedesco, trapiantato in un Paese che guarda ancora con sospetto agli ebrei e ai tedeschi, egli si porti addosso un mucchio di nodi, contraddizioni, risentimenti, e forse di umanità nascosta. Sì, ho detto umanità. Tipi simili, a volte, ne hanno: con uno sforzo, puoi trovare in Kissinger gli elementi del personaggio che s’innamora di Marlene Dietrich nel film «L’angelo azzurro». E si perde per lei. L’intervista con Kissinger sollevò uno scalpore che mi stupì quanto le sue conseguenze. Evidentemente avevo sottovalutato il personaggio e l’interesse che fioriva intorno a ogni sua parola. Evidentemente avevo minimizzato l’importanza di quella insopportabile ora con lui. Infatti, subito, essa divenne il discorso del giorno. E, presto, cominciò a circolare la voce che Nixon fosse inferocito con Henry, che rifiutasse perciò di vederlo, che invano Henry gli telefonasse, gli chiedesse udienza, si recasse a cercarlo nella residenza di San Clemente. I cancelli di San Clemente restavano chiusi, l’udienza non veniva concessa, il telefono non dava risposta perché il presidente continuava a negarsi. Il presidente, tra l’altro, non perdonava a Henry ciò che Henry m’aveva detto sulla ragione del suo successo: «È che ho sempre agito da solo. Agli americani ciò piace immensamente. Agli americani piace il cowboy che guida la carovana andando avanti da solo sul suo cavallo, il cowboy che entra tutto solo nella città, nel villaggio, col suo cavallo e basta...». Anche la stampa lo criticava per questo.
La stampa era sempre stata generosa con Kissinger, spietata con Nixon. In questo caso, però, le parti s’eran rovesciate e ogni giornalista aveva condannato la presunzione, o perlomeno l’imprudenza, di un simile discorso. Come osava Henry Kissinger assumersi l’intero merito di ciò che otteneva quale inviato di Nixon? Come osava relegare Nixon al ruolo di spettatore? Dov’era il presidente degli Stati Uniti quando il professorino entrava nel villaggio per sistemare le cose con lo stile di Henry Fonda nei film western? Sui giornali più crudeli apparvero vignette dove Kissinger, vestito da cowboy, cavalcava verso un saloon. Su altri apparve la fotografia di Henry Fonda con gli speroni e il cappellone, la didascalia «Henry, il cowboy solitario».
Sicché, esasperato, Kissinger si lasciò interrogare da un cronista e disse che avermi ricevuto era stata «la cosa più stupida della sua vita ». Poi dichiarò che avevo storpiato le sue risposte, distorto il suo pensiero, ricamato sulle sue parole, e lo fece in modo così goffo che mi arrabbiai più di Nixon e passai al contrattacco. Gli inviai un telegramma a Parigi, dove si trovava in quei giorni, e in sostanza gli chiesi se fosse un uomo d’onore o un pagliaccio. Lo minacciai anche di rendere pubblica la registrazione dell’intervista. Non dimenticasse, il signor Kissinger, che essa era stata incisa su nastro e che tal nastro era a disposizione di tutti per rinfrescargli la memoria e la correttezza. Il litigio durò quasi due mesi, per l’infelicità di entrambi e specialmente mia. Non ne potevo più di Henry Kissinger, il suo nome bastava a rendermi nervosa. Lo detestavo a un punto tale che non riuscivo neppure a rendermi conto che il poveretto non aveva avuto altra scelta fuorché quella di gettare la colpa su me. Ma, certo, sarebbe inesatto dire che in quel periodo gli augurai ogni bene, ogni felicità.
Il fatto è che i miei anatemi non hanno forza. Ben presto Nixon smise di tenere il muso al suo Henry e i due tornarono a tubare come due colombe. Il loro armistizio giunse in porto.[...] A Stoccolma, gli dettero perfino il Premio Nobel per la Pace. Povero Nobel. Povera pace. [...]
La Guerra
Parliamo della guerra, dottor Kissinger. Lei non è pacifsta, vero?
«No, non credo proprio di esserlo. Anche se rispetto i pacifisti genuini, non sono d’accordo con nessun pacifista e in particolare coi pacifisti a metà: sa, quelli che sono pacifisti da una parte e tutt’altro che pacifisti dall’altra. I soli pacifisti con cui accetto di parlare sono coloro che sopportano fino in fondo le conseguenze della non-violenza. Ma anche con loro ci parlo volentieri solo per dirgli che saranno schiacciati dalla volontà dei più forti e che il loro pacifismo può portarli soltanto a orribili sofferenze. La guerra non è un’astrazione, è qualcosa che dipende dalle condizioni. La guerra contro Hitler, ad esempio, era necessaria. Con ciò non voglio dire che la guerra sia di per sé necessaria, che le nazioni debbono farla per mantenere la loro virilità. Voglio dire che esistono principii per i quali le nazioni devono essere preparate a combattere».
Il Vietnam
E della guerra in Vietnam cosa ha da dirmi, dottor Kissinger?
«Lei non è mai stato contro la guerra in Vietnam, mi pare. Come avrei potuto? Neanche prima di avere la posizione che ho oggi... No, non sono mai stato contro la guerra in Vietnam».
Ma non trova che Schlesinger abbia ragione quando dice che la guerra in Vietnam è riuscita solo a provare come mezzo milione di americani con tutta la loro tecnologia fossero incapaci di sconfiggere uomini male armati e vestiti di un pigiama nero?
«Questo è un altro problema. Se è un problema che la guerra in Vietnam sia stata necessaria, una guerra giusta, piuttosto che... Giudizi del genere dipendono dalla posizione che uno assume quando il paese è già coinvolto nella guerra e non resta che da concepire il metodo per tirarlo fuori. Dopo tutto, il mio e il nostro ruolo è stato quello di ridurre sempre di più la misura in cui l’America era coinvolta nella guerra, per poi finire la guerra. In ultima analisi, la storia dirà chi ha fatto di più: se coloro che hanno lavorato criticando e basta o noi che abbiamo tentato di ridurre la guerra e poi l’abbiamo finita. Sì, il giudizio spetta ai posteri. Quando un paese è coinvolto in una guerra non basta dire: bisogna finirla. Bisogna finirla con criterio. E questo è ben diverso dal dire che entrare in quella guerra fu giusto».
Ma non trova, dottor Kissinger, che sia stata una guerra inutile?
«Su questo posso essere d’accordo. Ma non dimentichiamo che la ragione per cui entrammo in quella guerra fu per impedire che il Sud fosse mangiato dal Nord, fu per permettere che il Sud restasse al Sud. Naturalmente con ciò non voglio dire che il nostro obiettivo fosse solo questo... Fu anche qualcosa di più... Ma oggi io non sono nella posizione di giudicare se la guerra in Vietnam sia stata giusta o no, se entrarci sia stato utile o inutile. Ma stiamo ancora parlando del Vietnam?»
Sì. E, sempre parlando del Vietnam, crede di poter dire che questi negoziati sono stati e sono l’impresa più importante della sua carriera e magari della sua vita?
«Sono stati l’impresa più difficile. Spesso anche la più dolorosa. Ma forse non è neanche giusto definirli l’impresa più difficile: è più esatto dire che sono stati l’impresa più dolorosa. Perché mi hanno coinvolto emotivamente. Vede, avvicinarsi alla Cina è stato un lavoro intellettualmente difficile ma non emotivamente difficile. La pace in Vietnam invece è stato un lavoro emotivamente difficile. Quanto a definire quei negoziati come la cosa più importante che ho fatto... No, ciò che io volevo raggiungere non era soltanto la pace in Vietnam: erano tre cose. Quest’accordo, l’avvicinamento alla Cina e un nuovo rapporto con l’Unione Sovietica. Io ho sempre tenuto molto al problema di un rapporto nuovo con l’Unione Sovietica. Direi non meno che all’avvicinamento alla Cina e alla fine della guerra in Vietnam». [...]
Il potere
Il potere è sempre seducente. Dottor Kissinger, in quale misura il potere l’affascina? Cerchi d’esser sincero.
«Lo sarò. Vede, quando si ha in mano il potere, e quando lo si ha in mano per un lungo periodo di tempo, si finisce per considerarlo come qualcosa che ci spetta. Io sono certo che, quando lascerò questo posto, avvertirò la mancanza del potere. Tuttavia il potere come strumento fine a se stesso non ha alcun fascino sopra di me. Io non mi sveglio ogni mattina dicendo perbacco, non è straordinario che possa avere a mia disposizione un aereo, che un’automobile con l’autista mi attenda dinanzi alla porta? Ma chi l’avrebbe detto che sarebbe stato possibile? No, un discorso simile non mi interessa».
Perché in alcuni momenti, ascoltandola, vien fatto di chiedersi non quanto lei abbia influenzato il presidente degli Stati Uniti ma quanto Machiavelli abbia influenzato lei.
«In nessun modo. V’è davvero molto poco, nel mondo contemporaneo, che si possa accettare o usare di Machiavelli. In Machiavelli io trovo interessante soltanto il suo modo di considerare la volontà del principe. Interessante, ma non al punto di influenzarmi. Se vuol sapere chi mi ha influenzato di più, le rispondo coi nomi di due filosofi: Spinoza e Kant. Sicché è curioso che lei scelga di associarmi a Machiavelli. La gente mi associa piuttosto al nome di Metternich. Il che addirittura è infantile. Su Metternich io ho scritto soltanto un libro che doveva essere l’inizio di una lunga serie di libri sulla costruzione e la disintegrazione dell’ordine internazionale nel diciannovesimo secolo. Era una serie che doveva concludersi con la prima guerra mondiale. Tutto qui. Non può esserci nulla in comune tra me e Metternich. Lui era cancelliere e ministro degli Esteri in un periodo in cui, dal centro dell’Europa, ci volevano tre settimane per andare da un continente all’altro. Era cancelliere e ministro degli Esteri in un periodo in cui le guerre erano fatte da militari di professione e la diplomazia era nelle mani degli aristocratici. Come si può paragonare ciò col mondo d’oggi, un mondo dove non esiste nessun gruppo omogeneo di leader, nessuna situazione interna omogenea, nessuna realtà culturale omogenea?»
La popolarità
Dottor Kissinger, ma come spiega l’incredibile divismo che la distingue, come spiega il fatto d’essere quasi più famoso e popolare di un presidente? Ha una tesi su questa faccenda?
«Sì, ma non gliela dirò. Perché non coincide con la tesi dei più. La tesi dell’intelligenza ad esempio. L’intelligenza non è poi così importante nell’esercizio del potere e, spesso, addirittura non serve. Allo stesso modo di un capo di Stato, un tipo che fa il mio mestiere non ha bisogno d’essere troppo intelligente. La mia tesi è completamente diversa ma, le ripeto, non gliela dirò. Perché dovrei, finché sono nel mezzo del mio lavoro? Mi dica piuttosto la sua. Sono certo che anche lei ha una tesi sui motivi della mia popolarità».
Non ne sono certa, dottor Kissinger. Sto cercandola, una tesi, attraverso questa intervista. E non la trovo. Suppongo che alla radice di tutto vi sia il successo. Voglio dire: come a un giocatore di scacchi, le sono andate bene due o tre mosse. La Cina anzitutto. Alla gente piace chi gioca a scacchi e si mangia il re.
«Sì, la Cina è stata un elemento importantissimo nella meccanica del mio successo. E tuttavia il punto principale non è quello. Il punto principale... Ma sì, glielo dirò. Tanto che me ne importa? Il punto principale nasce dal fatto che io abbia sempre agito da solo. Agli americani ciò piace immensamente. Agli americani piace il cowboy che guida la carovana andando avanti da solo sul suo cavallo, il cowboy che entra tutto solo nella città, nel villaggio, col suo cavallo e basta. Magari senza neanche una rivoltella perché lui non spara. Lui agisce e basta: dirigendosi nel posto giusto al momento giusto. Insomma, un western».
Ho capito. Lei si vede come una specie di Henry Fonda disarmato e pronto a menar botte per onesti ideali. Solitario, coraggioso...
«Non necessariamente coraggioso. Infatti a questo cowboy non serve essere coraggioso. Gli basta e gli serve essere solo: dimostrare agli altri che entra in città e fa tutto da solo. Questo personaggio romantico, stupefacente, mi si addice proprio perché esser solo ha sempre fatto parte del mio stile o, se preferisce, della mia tecnica. Insieme all’indipendenza. Oh, quella è molto importante in me e per me. Infine, la convinzione. Io sono sempre convinto di dover fare quello che faccio. E la gente lo sente, ci crede. E io ci tengo al fatto che mi creda: quando si commuove o si conquista qualcuno, non lo si deve imbrogliare. Non si può nemmeno calcolare e basta. Alcuni credono che io progetti con cura quali saranno le conseguenze, sul pubblico, di una mia iniziativa o di una mia fatica. Credono che tale preoccupazione non abbandoni la mia mente. Invece le conseguenze di ciò che faccio, voglio dire il giudizio del pubblico, non mi hanno mai tormentato. Io non chiedo popolarità, non cerco popolarità. Anzi, se vuol proprio saperlo, non me ne importa nulla della popolarità. Non ho affatto paura di perdere il mio pubblico, posso permettermi di dire ciò che penso. Sto alludendo alla genuinità che v’è in me. Se io mi lasciassi turbare dalle reazioni del pubblico, se mi muovessi spinto soltanto da una tecnica calcolata, non combinerei nulla. Guardi gli attori: quelli veramente buoni non si servono solo della tecnica. Recitano allo stesso tempo seguendo una tecnica e la loro convinzione. Sono genuini come me. Non dico che tutto ciò debba durare per sempre. Anzi, può evaporare con la stessa velocità con cui è venuto. Tuttavia per ora c’è».
Sta forse dicendomi che lei è un uomo spontaneo, dottor Kissinger? Mio Dio: se metto da parte Machiavelli, il primo personaggio con cui mi viene naturale associarla è quello di un matematico freddo, controllato fino allo spasimo. Mi sbaglierò, ma lei è un uomo molto freddo, dottor Kissinger.
«Nella tattica, non nella strategia. Infatti credo più nei rapporti umani che nelle idee. Uso le idee ma ho bisogno di rapporti umani, come ho dimostrato nel mio lavoro. Ciò che mi è successo, in fondo, non mi è successo per caso? Perbacco, io ero un professore totalmente sconosciuto. Come potevo dire a me stesso: “Ora manovro le cose in modo da diventare internazionalmente famoso”? Sarebbe stata pura follia. Volevo essere dove accadono le cose, sì, ma non ho mai pagato un prezzo per esserci. Non ho mai fatto concessioni. Mi son sempre lasciato guidare dalle decisioni spontanee. Uno potrebbe dire: allora è successo perché doveva succedere. Si dice sempre così quando le cose sono successe. Non si dice mai così delle cose che non succedono: non è mai stata scritta la storia delle cose non successe. In un certo senso, però, io sono un fatalista. Credo nel destino. Sono convinto, sì, che ci si debba battere per raggiungere uno scopo. Ma credo anche che vi siano limiti alla lotta che l’uomo può fare per raggiungere uno scopo».
L’ho capito, dottor Kissinger. Non ho mai intervistato qualcuno che sfuggisse come lei alle domande e alle definizioni precise, nessuno che si difendesse come lei dall’altrui tentativo di penetrare la sua personalità. È timido, lei, dottor Kissinger?
«Sì. Abbastanza. Però in compenso credo d’essere assai equilibrato. Vede, c’è chi mi dipinge come un personaggio tormentato, misterioso, e chi mi dipinge come un tipo quasi allegro che sorride sempre, ride sempre. Entrambe le immagini sono inesatte. Io non sono né l’uno né l’altro. Sono... Non le dirò cosa sono. Non lo dirò mai a nessuno».
(Washington, novembre 1972)