venerdì 20 settembre 2024

Checco



Cari amici di Segovia, cari fratelli spagnoli che non mettete l’italiano nelle traduzioni nei musei: anche qui per evitare di scendere alla fontana coi secchi se non ci fosse stato Checco l’idraulico…

Cavron



Dopo un abnorme giro nella cattedrale di Burgos vedo finalmente il bagno fatto ad angolo e lì effettuo minzione con rigorosa e sana tromba riproducente marcette castigliane. Nel frattempo dall’angolo compare un piccolo signore con baffetti somigliante a quello della Bialetti che guardandomi con disprezzo esclama “Cavron!” al che gli ribatto “senor non estemos nel palacio real! Questo è un cessos!” Minimamente toccato dalla constatation mi ribadisce “cavron!” 
Vamos!

Mi ricorda



Questo Nello che riesce a far politica di parte davanti all’alluvione mi ricorda quel mammifero dei Canidi diffuso in Europa e Asia, dal tronco snello come quello di una volpe, con muso appuntito, orecchie corte, mantello colore giallo-grigiastro superiormente e biancastro inferiormente, attivo di notte, che si nutre di piccoli vertebrati e spesso anche di carogne, che emette un particolare grido… da sciacallo appunto!

Piove




Vergogna!




Il PD! Il PD!!!


Lo fanno strano 

di Marco Travaglio 

Massimo Fini ha un bel dire che devo scrivere editoriali più seri. Io ci provo, lo giuro. Ma poi leggo che alla Camera, per attestare oltre ogni ragionevole dubbio l’onestà di Ottaviano Del Turco, condannato a 3 anni e 11 mesi per induzione indebita, cioè per aver estorto 850 mila euro di tangenti sulla sanità pubblica al re delle cliniche private in Abruzzo, il Pd ha fatto parlare Piero Chanel Fassino, sotto processo per alcuni tentati furti di profumi al duty free di Fiumicino: un classico caso di confusione tra fragranza e flagranza. Poi il Pd dice peste e corna della commissione Von der Leyen-2 e in particolare a Fitto: quindi è un Sì a entrambi. Poi FdI, Pd e FI votano No al paragrafo 8 della risoluzione del Parlamento Europeo che “invita gli Stati membri a revocare immediatamente le restrizioni sull’uso delle armi occidentali consegnate all’Ucraina contro obiettivi militari legittimi sul territorio russo”. Quindi subito dopo votano Sì alla risoluzione complessiva contenente il paragrafo 8 a cui hanno appena detto No. “Lo famo strano”: sono contrari, ma favorevoli.
La Minzion d’Onore la merita ancora una volta il Pd: la Schlein aveva dato indicazione di opporsi alla dichiarazione di guerra alla Russia, infatti i suoi 21 sono riusciti ad approvarla in otto modi diversi. 1) La Picierno e la Gualmini votano Sì sia al paragrafo 8 sia alla risoluzione. 2) Benifei, Corrado, Decaro, Laureti, Ricci, Ruotolo, Zan e Zingaretti votano No al paragrafo e Sì alla risoluzione. 3) La Strada vota No al paragrafo e si astiene sulla risoluzione. 4) La Annunziata si astiene sul paragrafo e vota Sì alla risoluzione, poi rettifica a verbale la sua astensione precisando la sua contrarietà al paragrafo, ma non alla risoluzione che lo contiene. 5) Gori resta a Bergamo, ma fa sapere che, se fosse lì, voterebbe Sì al paragrafo e alla risoluzione. 6) Nardella non c’è. 7) Tarquinio non vota per “ragioni tecniche” sul paragrafo, ma è per il No, poi però si astiene alla risoluzione. 😎 Bonaccini, Lupo, Maran, Moretti, Tinagli e Topo non partecipano al voto sul paragrafo togliendo la scheda dalla fessura, ma la rimettono per votare Sì alla risoluzione. Otto sfumature di Sì. Qualcuno, per differenziarsi meglio dagli altri con un surplus di originalità, aveva pensato di votare reggendosi su un piede solo, o camminare sulle mani e infilare la scheda con l’alluce destro, o incrociare le dita dietro la schiena e votare con la punta del naso, o indossando un berretto a sonagli o uno scolapasta, o imbracciando un fucile a tappo, o soffiando in una lingua di Menelik. Ma poi ha lasciato perdere, temendo di far troppo sfigurare l’ordinaria monotonia di 5 Stelle, Lega e Avs che, essendo contrari al paragrafo e alla risoluzione, hanno prosaicamente votato No all’uno e all’altra. Banali.

giovedì 19 settembre 2024

Minkia!



Un po’ restio ad entrare. Anche perché se chiedi il menu ti rispondono “non saccio nulla!”

Contro il Fondatore


Il Conte del Grillo

di Marco Travaglio 

La guerra dei due Giuseppe, oltreché dannosa per i 5Stelle e noiosa per gli altri, è anche inutile. Sarebbe interessante se leader e garante avessero due progetti politici diversi. Ma qui si vede solo quello di Conte: rifondare il M5S dal basso con un’assemblea costituente dopo l’eurobatosta seguita a due buone esperienze di governo (Conte-1 e Conte-2) e a una pessima (Draghi). E rimettere tutto in discussione, dando l’ultima parola a iscritti e non, anche minorenni, anziché ai soliti caminetti. Quello di Grillo qual è? Tra un post e una Pec, nessuno l’ha capito. Cita princìpi irrinunciabili e immodificabili – nome, simbolo e due mandati – che però sono già stati più volte modificati da lui o con lui, quindi sono rinunciabili. Pare (ma questo lo dice la fida Raggi, al terzo mandato ma disponibile al quarto) che non voglia alleanze, ma nella scorsa legislatura avallò quelle con la Lega e col Pd. E meno male, sennò avrebbe buttato nel cesso il 33%. E, nelle elezioni anticipate dopo lo stallo del 2018 o la crisi del Papeete 2019, Salvini avrebbe avuto i pieni poteri. Niente Reddito, dl Dignità, Spazzacorrotti, voto di scambio, taglio di vitalizi e parlamentari, Bonus 110, manette agli evasori e le altre riforme che costituiscono la vera identità dei 5Stelle (non i loghi e le regolette interne). Grillo impose pure l’alleanza con FI, Lega, Iv, Azione e Pd nel governo Draghi e condannò a morte i 5S, anche se poi Conte – chiamato da lui – li resuscitò nel 2022.
Ora non c’è un solo punto di programma che lo divida da Conte. Quindi nessuno capisce cosa voglia, salvo dimostrare che comanda ancora lui: il che, oltre a contraddire l’“uno vale uno”, avviene a colpi di Pec, diffide legali, avvocati e carte bollate da azzeccagarbugli. Una spettacolare inversione di ruoli che trasforma Grillo in un leguleio alla Conte e Conte in un attivista della democrazia partecipata alla Grillo. Eppoi non comandava neppure quando poteva: i 5S li affidò prima a Casaleggio, poi al direttorio a cinque, infine a un leader unico (Di Maio e Conte), perché l’ha sempre detto di non esser fatto per la routine politica. Prende 300 mila euro l’anno per comunicare e non comunica nulla, se non qualche goccia di veleno ogni tanto contro chi lo stipendia. In campagna elettorale non si fa vedere, anzi non va proprio a votare. I parlamentari, se non vanno ai suoi spettacoli, non lo conoscono e lui non conosce loro. Quando condusse la sciagurata trattativa con Draghi, accanto al reggente Crimi e ai capigruppo Crippa e Licheri, presentò quest’ultimo come il generale Costa. E il malcapitato non spiccicò parola per evitargli un’epica figuraccia con il Migliore. A proposito: ma non è che ultimamente Grillo ha risentito Draghi? Così almeno tutto ciò che è insensato acquisterebbe un senso.

mercoledì 18 settembre 2024

Cerveza!



In questo bar di Zamora ho chiesto uno Spritz e mi hanno guardato come si guarda un alieno che chiede un rotore xx234kt per il suo disco in panne. Conclusione: sono stati anche restii a darmi una sangria, rivelatosi poi una spuma al ginger. La stragrande maggioranza degli astanti beve birra ops! Cerveza. E alle 21:30 la degustano prima di cena… tanto al mattino ci si alza tardi. Vamos!

Commenti




Prima pagina




Diabolicamente


Ultima deriva Pd: votare Fitto “perché è italiano”

di Tomaso Montanari

Errare humanum est, perseverare diabolicum. Se il sì del Partito democratico (e dei Socialisti europei) al secondo mandato di Ursula von der Leyen è stato, a luglio, un gravissimo errore, un nuovo sì alla vicepresidenza di Raffaele Fitto rappresenterebbe ora un diabolico accanimento, e soprattutto certificherebbe l’incapacità del Pd di elaborare una prospettiva politica – e, prima, culturale – alternativa a quella che ha condotto l’Europa alla negazione stessa della sua ragione di esistere.
L’Europa nacque con una missione su tutte: sradicare la guerra dal continente, spegnendo per sempre il fuoco dei nazionalismi europei. Rinnegando tutto questo di fronte all’invasione russa dell’Ucraina, invece di imporre subito le inevitabili trattative di pace (e di farsene sede e promotrice) l’Unione si è trasformata in una succursale della Nato, ha messo la guerra e le armi in cima alle sue ragioni sociali, e la sua presidente tedesca ha rispolverato una atroce retorica della vittoria che ha ridato diritto di cittadinanza a fantasmi osceni, che credevamo esorcizzati per sempre, almeno in Europa. Confermando Von der Leyen, i socialisti, e con loro il Pd, si sono schierati dalla parte della guerra, del tradimento dell’idea stessa di Europa: nel migliore dei casi, un chiaro segnale di impotenza politica.
Se ora il Pd decidesse di votare anche per il commissario Fitto “perché è italiano”, l’intera operazione assumerebbe un colore anche più nero, perché significherebbe soddisfare “lo stupido sentimento patriottico che guarda ai colori dei pali di confine ed alla nazionalità degli uomini politici che si presentano alla ribalta, invece che al rapporto delle forze ed al contenuto effettivo”. Sono, queste, parole del Manifesto di Ventotene (1941), altissimo programma morale per l’Europa che sarebbe nata dopo la guerra. Un suo passaggio centrale prendeva atto che “la linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale”. Sembravano parole antiche: oggi tornano attualissime. A proposito del risorgere di “vecchie assurdità” abbiamo una presidente del Consiglio che parla solo di nazione (non di Repubblica e, con buona pace dell’amato Giovanni Gentile, nemmeno di Stato). È una nazione barbarica, genetica, brutale: per via di sangue, come ha ben chiarito lungo tutta l’estate la violenta chiusura alle (certo strumentali) proposte di Antonio Tajani sullo ius scholae. Ed è il centro di una retorica identitaria e nostalgica che serve insieme a deportare o ad affondare i migranti, e a reprimere violentemente il dissenso di chi intralci grandi opere di interesse ‘nazionale’. In un mondo in cui i nazionalismi (si pensi a quello israeliano) tornano a essere il primo pericolo, che futuro potrebbe avere una sinistra impantanata nella retorica nazionale e nazionalista del commissario da votare “perché è italiano”? Qual è il vero interesse dell’Italia: avere un commissario italiano (peraltro dalle deleghe pressoché irrilevanti, con le quali Von der Leyen punisce Meloni per il mancato voto di luglio), o avere una opposizione capace di costruire un’alternativa europea e internazionale al ritorno della guerra come unica forza ordinatrice dei rapporti tra nazioni?
A ogni tornata elettorale ci si duole dell’astensione crescente, che consente la vittoria di una destra minoritaria nel Paese. Ma questo sempre più diffuso disincanto non è forse il frutto del tradimento sistematico di ogni decenza da parte della ‘sinistra’? Se i democratici votassero tranquillamente un uomo che è slittato attraverso tutte le sfumature di destra – da un’estrazione democristiana a una ortodossia berlusconiana fino ad arrivare a Fratelli d’Italia –, uno che nel 2008 acconsentiva entusiasta alle affermazioni di Berlusconi e Dell’Utri sul fatto che lo stalliere Mangano fosse un “eroe”, dicendo ai giornalisti che gliene chiedevano conto, di “farsene una ragione”; ebbene se oggi il Pd si dicesse rappresentato da tutto questo in nome dell’interesse nazionale, non sarebbe il segno dell’ennesima bancarotta morale, culturale, politica?

Mesi e mesi


Gli ininfluencer

di Marco Travaglio 

Mesi e mesi a leggere che “l’Italia è isolata in Europa” perché la Meloni non ratifica il Mes e FdI&Lega non votano la Von der Leyen, dunque non avremo un commissario di peso né tantomeno una vicepresidenza, anzi forse ci sbattono fuori dall’Europa e ci annettono all’Africa. Poi Ursula annuncia i commissari e Fitto di FdI diventa commissario alla Coesione (non male, per chi ha votato l’Autonomia differenziata) e vicepresidente esecutivo (uno dei sei).
Mesi e mesi a leggere che mai e poi mai il Pd, ma neanche gli altri del Pse, ma anche Verdi e Liberali, voteranno una commissione Ue con dentro un pericoloso “sovranista” come Fitto (un flaccido democristiano salentino). Poi il Pd, ma anche gli altri del Pse, ma anche Verdi e Liberali, votano la commissione con dentro Fitto e tutto il cucuzzaro.
Mesi e mesi a leggere che in Italia è rinato il bipolarismo fra il diavolo Meloni e l’acqua santa Schlein (“o di qua o di là”). Poi, sulle questioni importanti – dall’Ue alla guerra – la diavolessa e l’angioletta votano sempre insieme (“di qua, ma anche di là”). Anzi, sui missili a lungo raggio per colpire la Russia, le destre italiane e americane sono un po’ meno belliciste dei partiti democratici.
Mesi e mesi a ripetere che il vero discrimine fra sovranisti e democratici è l’immigrazione. Poi a Londra il laburista Starmer sbaraglia il conservatore Sunak e la prima cosa che fa è volare a Roma a elogiare la Meloni per le sue politiche migratorie e a chiederle consigli su come fermare i migranti (che, per inciso, nei primi due anni di melonismo sono raddoppiati). Intanto negli Usa la democratica Harris (l’ultimo faro da cui il Pd vuole “ripartire” dopo la dipartita di tutti gli altri) respinge come un’infame calunnia l’accusa di Trump di non voler respingere i clandestini alla frontiera.
Mesi e mesi a discettare di Ius Scholae e Ius Soli, esaltando i compagni Marina, Pier Silvio e Tajani che “aprono sui diritti” e gliela fanno vedere loro ai fasci oscurantisti di Palazzo Chigi. Poi, al momento del voto in aula, Forza Italia dice no: era lo Ius Sòla.
Mesi e mesi a invocare il ritorno di Renzi e a magnificare il “ritorno di Draghi” e della celebre Agenda in pelle umana, unico argine al sovranismo e al populismo e unica salvezza per l’Ue. Poi Renzi viene subissato di fischi e Draghi con tutta l’Agenda da boati di indifferenza nel mondo reale.
Settimane e settimane a leggere che “il caso Boccia-Sangiuliano non è chiuso” e a esaltare la ininfluencer pompeiana che inchioda irrimediabilmente il governo alle sue responsabilità. Poi escono i sondaggi e, dopo il caso Boccia, il governo cresce e il Pd cala.
Dal Derby della Coglionaggine governo-opposizione è tutto, linea allo studio.

martedì 17 settembre 2024

Gattopardo



Fattore endemico, caratteristica umana, da sempre e per sempre; allora giocavano fattori di crudeltà, sopraffazione, dispotismo, condito da varie angherie dei signori sui sudditi poi deboli. La foto semplifica il tutto: fuori dalle mura di Avila il quartiere degli scalpellini, lascito in balia degli assalitori. Dentro la creme. E oggi? Credo non sia cambiato nulla, proprio nulla. Solo il tutto molto più sofisticato, subdolo, mumble… cardinalizio!

Daniela e la Grilleide


I 5S delle “origini” e il re-Dio Grillo

Il fondatore si comporta come i sovrani assoluti: richiama Conte a fare l’“alternativa ai partiti tradizionali”, ma è lui ad avere commesso l’errore di conficcare i Cinque Stelle dentro il governo Draghi

di Daniela Ranieri 

“Un partito rivoluzionario, nel momento in cui smette di essere rivoluzionario, è niente”, disse in merito al Pci Concetto Marchesi, deputato dell’Assemblea costituente.
Per il M5S, che di certo nella società italiana rivoluzionario lo è stato (vedi Reddito di cittadinanza, decreto Dignità contro il lavoro precario, legge Spazza-corrotti, etc.) mai come adesso, dopo essere andato sotto al 10% alle Europee, si configura la scelta tra tornare rivoluzionario o diventare niente.
Il fondatore Beppe Grillo, che quella spinta dal basso contestataria e clamorosa ha convogliato e guidato, sente la sua creatura snaturata dalla volontà di Conte di rivedere lo Statuto e la Carta dei Valori, e reagisce come ha sempre fatto in questi anni, cioè da suo proprietario e demiurgo (il titolo di Garante – a vita!, altro che due mandati – è infatti un’autoinvestitura: uno messo da sé a garanzia di ciò che professa).
Restando alla superficie, alla scocca della contesa: Giuseppe Conte, capo politico e presidente del movimento, pensa che il M5S resti rivoluzionario cambiando, e perciò ha annunciato per fine ottobre un’assemblea costituente per “dare la parola a tutti gli iscritti e ai simpatizzanti per elaborare nuove soluzioni e nuovi obiettivi strategici ai quali il Movimento si dedicherà negli anni a venire”; Grillo (con Raggi), pensa che essere rivoluzionario voglia dire restare, anzi tornare, il movimento delle origini. Quindi: rifiutarsi di dirsi partito, rifiutare l’alleanza col Pd, tutelare il sacro nome e il santo simbolo (peraltro già cambiati nel tempo, vabbè), venerare il feticcio dei due mandati (che però, quando gli fece comodo, reggenza Di Maio, diventarono tre con l’espediente vagamente perculatorio del “mandato zero”), in definitiva cristallizzarsi nel proprio mito. Grillo contesta finanche la genuinità del processo evolutivo, da cui Conte trarrebbe vantaggio: l’assemblea costituente non sarebbe che “una farsa per farmi fuori”.
Grillo si comporta come i sovrani assoluti, esenti da responsabilità. Con quale credibilità oggi può richiamare Conte alla fondativa essenza del movimento quale “unica alternativa ai partiti tradizionali” quando lui ha commesso l’errore che fu la bizzarra posticipazione di un peccato originale (infatti per tutti i media padronali è stata l’unica cosa buona fatta da Grillo)? Assecondando tutto l’establishment che tifava per la destituzione di Conte, sotto pandemia, per mano di un politico dedito alla pirateria parlamentare come Renzi, ha appoggiato il governo Draghi, credendo (davvero) alla panzana del “governo dei migliori” e della “transizione ecologica” e arrivando a chiamare uno come Cingolani (un nuclearista, quando l’ambiente era una delle 5 stelle del movimento) un “grillino della prima ora”. Non avendogli ciò provocato alcuna dissonanza cognitiva, si è dunque calato nelle vesti del creatore il cui verbo è spesso oscuro, contraddittorio e tuttavia incontestabile: quando le cose per lui, sul piano semantico o politico, si mettono male, infatti, solleva una specie di Mose ontologico: ma io sono un comico! Strategia un po’ comoda e paracula per non assumersi mai nessuna responsabilità politica, stando a capo di un partito politico. Una visione teologica della politica che Grillo non ammetterebbe mai se non in chiave ironica (si definisce “l’Elevato”), ma che pure è evidente: il carisma delle origini deve colare su ogni decisione futura; lo spettro di Casaleggio, che quella visione originaria fatta di contestazione, insofferenza popolare e desiderio di pulizia trasformò in software politico, deve guidare dall’aldilà ogni mossa di Conte, mero sacerdote del sacro fuoco primevo. Del resto nel 2021 Grillo disse apertamente cosa pensava di Conte: “Un incapace”, uno che “non ha visione politica né capacità manageriali”; e però è il terzo leader più popolare dopo Meloni e Tajani e prima di Schlein.
Adesso, geloso come il Dio della Bibbia, Grillo fa rivoluzioni di retroguardia e puramente autoreferenziali: alla gente non frega niente se Conte è andato alla “birrata” di Avs con la Schlein e nemmeno se vuole cambiare le regole interne al movimento, se non nei termini di ciò che gli consentono di fare in Parlamento. Oggi gli ambiti su cui fare la rivoluzione sono la Sanità pubblica, il lavoro dignitoso, il salario minimo, il diniego a ogni bavaglio all’informazione, il rispetto e l’applicazione della Costituzione in ogni ambito della vita collettiva, primo fra tutti il principio per cui l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e in base al quale si dovrebbe smettere di inviare armi all’Ucraina, declinare il diktat Nato per l’aumento delle spese militari, rifiutare il destino di essere una colonia americana e di fare la guerra alla Russia, ciò che è autolesionista e rovinoso oltre che appunto incostituzionale. O Grillo pensa davvero che i “principi non negoziabili” siano il simbolo, i due mandati (“la politica come servizio e non professione”, alla faccia di Max Weber) e altra chincaglieria vintage alla stregua dei meet-up e della sacralità della Rete? (Invero, propone altre cose, ma non sembrano grandi battaglie per l’umanità). Se Grillo garantisce l’aderenza allo spirito originario, non dovrebbe assecondare l’innovazione, che del M5S è stata il motore?
La soluzione parrebbe facile: intanto togliere a Grillo il contratto di consulenza per 300 mila euro per curare la “comunicazione” del M5S, anche alla luce del fatto che la lotta antropologica che ha intrapreso con Conte (e che ricalca il mito dell’uccisione dei “re sacri” e della successione al potere raccontata ne Il ramo d’oro da Frazer) è disastrosa sul piano della comunicazione. Ma chi decide: Grillo o il partito, nella persona di Conte? Se Conte non ne ha diritto in quanto presidente e non proprietario, allora si chieda agli iscritti, in base al principio primigenio della democrazia diretta. Oppure decide Grillo? È una disputa teologica: chi c’è sopra il Garante? Se non c’è nessuno, e se quindi lui è Dio, perché ne è anche un consulente? Di chi? Si consulta da sé, al costo di 300 mila euro? Grillo è uno e bino?
Ora si affida alle Pec, ai cavilli, minaccia di mettere in mezzo gli avvocati (per dirimere la contesa con un avvocato), senza accorgersi di contraddire palesemente la natura spontanea e corsara delle origini che professa di incarnare come vertice platonico del movimento. Non sarebbe più nobile limitarsi a esserne amorevole padre, magari gratis?

Daje Krosetto!




Dorellik


È tornato Dorellik

di Marco Travaglio 

Non so a voi, ma a me il video di Salvini travestito da attore shakespearian-brechtiano è piaciuto un sacco. Mi ha ricordato Johnny Dorelli in Dorellik e Raimondo Vianello con la calzamaglia nera nella parodia della Ballata di Mackie Messer. Alla pochade si unisce un altro caratterista, ’Gnazio La Russa, che per dimostrare l’innocenza del vicepremier su OpenArms tenta di provare la colpevolezza di Conte: “Dice che della decisione di Salvini non era tanto convinto. Ma, se era un reato così grave da far rischiare 6 anni di carcere, doveva dimettersi e far cadere il governo, altrimenti vuol dire che era d’accordo”. Quindi il 14 agosto 2019, quando l’Open Arms giunse a Lampedusa e chiese di sbarcare i migranti, La Russa era in ferie su Marte: in Italia tutti sapevano che il Conte-1 era caduto l’8 agosto per mano di Salvini, con tanto di mozione di sfiducia. Il 9 agosto i legali dell’Ong chiesero al Tribunale dei minori di Palermo di far sbarcare i ragazzini. Il 12 il Tribunale chiese spiegazioni al governo. Il 13 Conte scrisse a Salvini di far scendere almeno i minori, invano. Il 14 il Tar Lazio sospese il divieto di sbarco e la nave giunse in Italia, ma Salvini rifiutò di indicare il porto sicuro e attaccò il premier: “Mi ha scritto per lo sbarco di alcune centinaia di migranti (163, ndr). Gli risponderò che non si capisce perché debbano sbarcare in Italia”.
Il 15 Conte gli inviò un’altra lettera durissima: “Ier l’altro… ti ho invitato, ‘nel rispetto della normativa in vigore, ad adottare con urgenza i necessari provvedimenti per assicurare assistenza e tutela ai minori’… Comprendo la tua ossessiva concentrazione nell’affrontare il tema dell’immigrazione riducendolo alla formula ‘porti chiusi’. Sei… proteso a incrementare i tuoi consensi. Ma parlare come Ministro dell’Interno e alterare una chiara posizione del tuo Presidente del Consiglio, scritta nero su bianco, è… un chiaro esempio di sleale collaborazione, l’ennesimo, che non posso accettare”. Tantopiù che “Francia, Germania, Romania, Portogallo, Spagna e Lussemburgo mi hanno appena comunicato di essere disponibili a redistribuire i migranti… Siamo agli sgoccioli di questa nostra esperienza di governo… ho sempre cercato di trasmetterti i valori della dignità del ruolo che ricopriamo e la sensibilità per le istituzioni che rappresentiamo. La tua foga politica e l’ansia di comunicare, tuttavia, ti hanno indotto spesso a operare ‘slabbrature istituzionali’, che a tratti sono diventate veri e propri ‘strappi istituzionali’”. Cinque giorni dopo, Conte gli diede il resto in Senato. Salvini, colpito e affondato, ritirò la mozione di sfiducia. Conte replicò: “Se ti manca il coraggio, ce lo metto io”. E salì sul Colle a dimettersi. La Russa, vicepresidente del Senato, era lì: dormiva?

lunedì 16 settembre 2024

Faticosamente




Anche se a volte mi costa fatica…cerco sempre di rispettare le tradizioni locali…

Il cacio sui fascistoni




Teorema



È quasi un teorema: “ovunque vai, ci sarà sempre un’idiota che si selfa davanti a un’opera d’arte” (tra l’altro questa è la terza persona del passato remoto …Mirò!)

Tomaso e Firenze


Turisti, il tunnel per invadere anche l’altra metà di Firenze

Riaprire il vecchio sottopasso: pure i residenti di Oltrarno spinti all’“esilio”. Sui muri: “Perché la chiamate ‘stagione dei turisti’ se non possiamo sparargli?”

di Tomaso Montanari

Riaprire un tunnel sotto l’Arno, in pieno centro a Firenze, per “portare i turisti in Oltrarno”: sembra una caricatura, la boutade di un giornalista deciso a far capire fino a che punto la classe dirigente fiorentina si sia bevuta il cervello, fino a che punto può dare alla testa la droga di un overtourism mostruoso. E invece no, è tutto vero: pochi giorni fa la ‘nuova’ (ma vecchissima) sindaca di Firenze Sara Funaro e l’ineffabile presidente della Toscana Eugenio Giani hanno fatto un trionfale sopralluogo all’imboccatura di un vecchio sottopasso, oggi allagato e malmesso, che nacque per ragioni militari e poi fu usato per il governo delle acque dell’Arno. E che ora dovrebbe essere reso di nuovo praticabile, per una spesa prevista di oltre 7,5 milioni di euro, al servizio dell’unica cosa che qui conti davvero: il turismo. La sindaca è entusiasta (“Questo tunnel sarà quindi per i turisti ma anche per i cittadini una preziosa opportunità di raccontare un’altra storia della città e anche di offrire un altro passaggio per l’altra sponda”), il presidente di più (“È un intervento a cui tengo che vuol creare una nuova direttrice per il turismo, ma non solo. Da ieri abbiamo cominciato a svuotare il tunnel, le idrovore sono al lavoro”). D’altra parte, ogni luna park che si rispetti non ha forse il suo tunnel dell’orrore? Oltre che nella trovata grottesca, oltre che nella follia di buttare in un simile capriccio milioni che potrebbero servire alle scuole, alle biblioteche o agli ospedali, l’orrore sta nel solo pensare che sia utile, giusto, sensato portare in Oltrarno altri turisti. Parliamo della parte del centro storico che ancora, e sempre più faticosamente, conserva un minimo di tessuto civile: e, prima ancora, banalmente, un po’ di residenti. Durante la pandemia il quadrilatero romano (il centro-centro del Duomo, Palazzo Vecchio, Ponte Vecchio…) è apparso, senza veli, per quello che è: una quinta teatrale completamente vuota, disabitata. Secondo i dati dell’Irpet (l’Istat regionale toscano) tra 2000 e 2020 la città ha perso circa 7.000 abitanti all’anno: le famiglie che non possono pagare più 1.000 euro di affitto, o comprare case ad almeno 4.000 euro al mq non abitano più a Firenze, anche se ci lavorano ogni giorno. E la ragione è la concorrenza spietata degli affitti brevi turistici che una serie di provvedimenti comunali degli ultimi anni hanno di fatto favorito, e che un certo sindaco di Firenze divenuto presidente del Consiglio si è ben guardato dal regolare attraverso una legge nazionale. La ragione? “I turisti portano soldi”: certo, ma a chi? Il turismo crea lavoro povero, pagato male e con contratti peggiori rispetto ad altri settori: nel patrimonio culturale, per esempio, si lavora con contratti di lavoro “multiservizi” che pagano mediamente meno di 6 euro all’ora per le attività al pubblico. E questo vale anche per gli altri lavori “turistici”: col risultato che nel centro di Firenze, un cono gelato costa più di un’ora di lavoro della persona che sta al bancone, e ve lo serve.
Ebbene, anche l’Oltrarno è malato della stessa malattia, ma la presenza di un minor numero di monumenti “blockbuster”, la sua relativa distanza dagli itinerari stereotipati proposti dalle guide, la sopravvivenza di alcune botteghe artigiane e di negozi per i residenti, la presenza di qualche mercato, di associazioni e perfino di qualche bambino che gioca a pallone in piazza, tutto questo lo aiuta a resistere. Ora, invece, Funaro e Giani ne scovano (letteralmente) da sotto terra perché anche l’Oltrarno si prenda tutta la peste che ha già ucciso la Firenze da cartolina. Non è l’unica minaccia: un’altra è l’idea folle di scavare un parcheggio sotterraneo in Piazza del Cestello, anche qui quasi sotto l’Arno, che non servirebbe ai lavoratori o ai residenti, ma a portare altri partecipanti alla movida serale che moltiplica a dismisura i ristoranti anche su questa riva sinistra. È una vecchia questione. Nel 1519 Raffaello scriveva al papa (un fiorentino: Leone X) che “quelli li quali come padri e tutori dovevano difender queste povere reliquie di Roma, essi medesimi hanno lungamente atteso a distruggerle”. Oggi da chi governa “queste povere reliquie di Firenze”, ci si aspetterebbe tutela del diritto all’abitare, difesa di un tessuto civile, deflazione turistica: e invece arriva solo distruzione, cioè numeri da circo utili solo ad accelerare lo sfascio, a dare il colpo di grazia al poco che ancora resiste. A Barcellona, e anche altrove, i turisti sono ormai considerati nemici, complici dell’espulsione dei residenti e della decadenza delle città: anche qua ci siamo vicinissimi. In Oltrarno fioriscono scritte sui muri che si chiedono, per esempio, “perché la chiamate stagione dei turisti se non possiamo sparargli?”. Se il governo fiorentino e quello toscano non riescono a capire che siamo vicini al punto di non ritorno, devono davvero scavare un tunnel sotto l’Arno: ma per nascondersi.

domenica 15 settembre 2024

L’Amaca



La legge del più forte

di Michele Serra

Il Brasile brucia, e sta bruciando da mesi. Decine di migliaia di incendi che una siccità catastrofica favorisce, e la mano dell’uomo (o meglio, di pochi e specifici uomini) alimenta. Milioni di ettari di foresta e di zone umide (il Pantanal è la più vasta del mondo) sono una distesa di cenere. Su quelle ceneri sorgeranno nuove piantagioni di soia transgenica per alimentare quella mostuosità che sono gli allevamenti intensivi. Al posto di migliaia di specie vegetali e animali, al posto di tutto quanto la natura ha creato in milioni di anni, una sola specie nata in laboratorio. Morta la pluralità della vita, vive solo l’Uno. E l’Uno è il profitto, che ha lo sguardo corto ma le mani leste.

Sappiamo ormai tutto degli spostamenti di Maria Rosaria Boccia, poco di mutamenti così radicali, profondi, che cambiano le sorti del mondo. Ammorbano il cielo – in molte grandi città del Brasile non si respira – e assoggettano la terra a interessi privati che non arretrano davanti a nulla. In America Latina gli ambientalisti li ammazzano. La storia di Chico Mendez, sindacalista nelle foreste di caucciù, dovrebbe essere insegnata in tutte le scuole del mondo: “pensavo di difendere gli alberi della gomma, poi ho capito che difendevo la foresta pluviale dell’Amazzonia, poi ho capito che stavo difendendo l’umanità”. Chico Mendez venne assassinato da due proprietari terrieri nel 1988.

Allo stato attuale delle cose, ha perso la sua battaglia. Ha straperso quando al potere c’era Bolsonaro, amico dei latifondisti. Nei primi sei mesi dopo l’avvento di Lula, la deforestazione dell’Amazzonia era già diminuita di un terzo. Cioè: continua a morire, ma più lentamente. Chissà se è una buona notizia, o la conferma che la politica, in tutto il mondo, è impotente di fronte alla legge del più forte.

Così è!



Covid, problemi, ritrosia, pigrizia mi hanno fatto perdere quella manualità di andare all’estero, rendendomi impacciato, imbolsito, quasi ebete davanti alla macchinetta sfornante biglietti per la metro, per il treno. E poi l’orientamento, atavico problema, simile a quello di un aspirante astronauta post prova del braccio roteante a velocità folle; convinto che bastasse aggiungere una “s” all’italiano per farmi comprendere dai fratelli spagnoli, parlando un linguaggio shakerato di fonemi spezzini-anglofoni-abruzzesi, avverto tenerezza negli astanti, increduli di tanta dabbenaggine, propensi forse, solidarizzando, ad intravedere qualche lieve demenza senile, prevendendo, a breve se non raddrizzerò la barra, a ricevere la madre di tutte le compassioni, la leggera carezza in cervice con subitaneo aumento della produzione di liquido dalle ghiandole lacrimali…

Elena la Saggia


Kamala, Draghi&C.: i dem tifano guerra e povertà

di Elena Basile 

Kamala Harris ha segnato vari punti contro Donald Trump nel dibattito sull’Abc. Non che ci volesse uno sforzo intellettuale notevole per contrastare il tycoon e le sue sciocchezze. Bastava ridere di lui e fare battute. La stampa è soddisfatta, la Meloni anche. Si era esposta offrendo la testa bionda al bacio del presidente Joe Biden che ha mostrato all’audience mondiale il suo declino mentale. Sono felici i moderati di destra, ma soprattutto i progressisti del Pd. Veltroni e Renzi improvvisano un balletto, stretti l’uno all’altro.
Massimo Fini, alla festa del Fatto, ha invitato pubblicamente Marco Travaglio ad abbandonare ogni tanto la satira con editoriali più “seri”. Ma a me sembra che, data la realtà surreale dei nostri giorni, l’unica possibile traduzione per i lettori debba necessariamente essere cabarettistica. Come si può prendere sul serio la politica quando viene trattata come una partita di ping pong? L’Europa istituzionale e mainstream esulta al pensiero che una scadente vicepresidente, rimessa a nuovo dal botox, ridanciana e fotogenica, prenda il potere a Washington, promettendo di continuare la strategia fallimentare del suo predecessore in Ucraina e in Medio Oriente. L’escalation a Kiev deve continuare, bisogna colpire la Russia in profondità, far soffrire le popolazioni come soffrono gli ucraini nella speranza che il tiranno cada. Il mondo delle favole macabre in bianco e nero della Harris trionfa. A nulla vale spiegare che da un anno e mezzo questa postura occidentale produce solo escalation e vittorie russe, lutti in Ucraina (molti più che a Mosca) e ha avvicinato le lancette dell’orologio dell’apocalisse alla mezzanotte.
Sul Medio Oriente la aspirante presidente ha balbettato i soliti slogan senza senso: supporto incondizionato a Israele che deve difendersi, ma richiesta di cessate il fuoco e liberazione degli ostaggi. Nessuno che le chieda come arrivare al cessate il fuoco dato che Netanyahu sopravvive in virtù di una guerra senza sosta e lei, candidata presidenziale, necessita dei finanziamenti della lobby di Israele. Nessuno che possa obiettarle che Israele non si sta difendendo, perché la sua sicurezza mai è stata così vulnerabile. La violenza terroristica dello Stato di Israele ha isolato il Paese e spingerà i palestinesi a nuovi attacchi terroristici. Ma è tutto inutile, non si usa più ragionare. Trump farebbe qualcosa di diverso? Assolutamente no. Eppure è un parvenu del potere, un personaggio scomodo per le élite transnazionali e oligarchiche, e parla a un elettorato isolazionista, stanco di vedere la propria qualità di vita abbassarsi grazie ai miliardi impegnati nelle guerre “umanitarie” in difesa dei valori menzogneri dei democratici. Forse in Ucraina, non avendo gli interessi dei Biden, tenterebbe un compromesso, sempre che il Blob glielo permetta.
Panorama desolante, quello statunitense. Il congresso ha riservato le ovazioni al criminale di guerra Netanyahu, il debito sale, istruzione, sanità e infrastrutture hanno toccato il fondo soprattutto se paragonate ai progressi oggettivi in questi settori di Cina e Russia. Come afferma divertito Todd, la ricchezza statunitense si basa sui redditi degli avvocati. Un Gdp (Pil) composto dai profitti dei servizi, mentre la manifattura è in declino, gli ingegneri scarseggiano come la mano d’opera qualificata. Zombie pullulano nei quartieri delle metropoli, vittime della droga, del fentanyl, in una società senza cultura né spiritualità. L’Europa è sulla buona strada, insegue il modello americano. A chi teme il ritorno al fascismo, risponderei che è un fenomeno storico peculiare e circoscritto. L’incubo odierno è la scomparsa del linguaggio e dei significati, l’assassinio della memoria e della logica, la disumanizzazione dei popoli come quello palestinese, la fabbrica di alieni che si commuovono di fronte alla retorica di Michelle Obama o di Trump e poi investono con la macchina lo scippatore di borse, passando diverse volte sul suo corpo.
In Europa scompare l’umanesimo. La complessità è radiata dalle analisi. Liberali e socialdemocratici camuffano di vecchi valori (diritti umani e Stato di diritto) la loro cinica cupidigia. Le élite capitalistiche non hanno nulla a che vedere con le imprese nazionali in via di estinzione. Sono oligarchie del dollaro per le quali lavorano i banchieri e i burocrati. Draghi, che pure dovrebbe conoscere l’Europa e sapere che siamo ben lontani da una mediazione tra debitori e creditori, illustra un piano Marshall da 800 miliardi l’anno, reperibili con l’emissione di eurobond. La Commissione filo-americana di Ursula lo trasformerà in indebitamento europeo per costruire il braccio armato degli Usa. Sotto vecchi programmi, difesa europea e autonomia strategica, si nascondono nuove trappole belliciste all’insaputa dei popoli.

Travajo


Innocente a sua insaputa 

di Marco Travaglio

Quando in Italia vigeva il Codice penale, chi voleva dimostrare la sua innocenza puntava all’assoluzione. Ora invece patteggia, poi si fa intervistare da giornalisti compiacenti (quasi tutti, se è un politico non 5Stelle), dice che concordare una “pena detentiva” significa essere innocenti e quelli ci credono. Ci è appena riuscito Giovanni Toti, agevolato dal fatto che per quattro mesi stuoli di scudi umani hanno spacciato lui per un martire e le sue tangenti per atti dovuti in quanto regolarmente fatturate. Come se uno che assolda un killer per ammazzare qualcuno, al posto dell’alibi, estraesse la ricevuta. Il giorno dell’arresto, Sallusti giurò sull’“onestà di Toti”, certo che “il tempo sarà galantuomo”; poi il suo Giornale denunciò la “giustizia medievale”, i “giudici ricattatori” che “sovvertono il voto” e chiese che “la politica possa spiare la magistratura”. Ora, poveretto, titola: “Toti esce dal processo” (nel senso che la pena se la dà lui da solo) e commenta: “Lo ammette anche la Procura: Toti non ha mai intascato personalmente un solo euro” (no: la Procura dice l’opposto, e ora pure Toti), a parte un “modesto patteggiamento sull’ipotesi di ‘corruzione impropria’, specie di reato che riguarda atti legittimi nella forma ma per l’accusa dubbi nella sostanza” (nessuna specie di reato: è quando il pubblico ufficiale si vende gli atti del suo ufficio in cambio di tangenti). Insomma “Toti e la Procura fanno pari e patta” (no: ammesso che sia un derby, Procura batte Toti 25 mesi a zero).
Libero tuonava al “trappolone” e alla “democrazia sospesa” da una gip la cui madre – non a caso – un tempo stava nella Margherita e da un’opposizione “Forca e martello” (magari). Capezzone lanciava strazianti appelli: “Caro Giovanni, se puoi resisti”; ora che il fellone non ha resistito, Capezzone lacrima come una vite tagliata: “Che dolore, vince il processo mediatico”, “politica ancora sconfitta dalla forca dei giustizialisti”. E pazienza, è andata così. Sansonetti, sulla fu Unità, paragonava Toti a Moro e i giudici liguri alle Br: “Un gruppetto di magistrati ha sequestrato una persona e chiede come riscatto per liberarlo le sue dimissioni”. Ora rosica amaro: “Toti si arrende ai pm, la Procura stravince, batosta per lo Stato di diritto”. L’hanno rimasto solo, ’sti quattro cornuti. Anche il Foglio del rag. Cerasa strillava al “sequestro di Toti” nella prigione del popolo (casa sua), al “golpe giudiziario”, all’“allarme democratico”, al “ricatto”, alla “vergogna” e incitava l’ostaggio a “resistere resistere resistere”. Ora, tutto mogio, scrive che Toti cade nella “trappola dei reati evanescenti” e “si accorda coi pm per chiudere un processo da incubo”, tipico della “giustizia pazza”: quella in cui gli innocenti non sanno di esserlo e si condannano da soli.

sabato 14 settembre 2024

Sogni d’oro?


Chissà come avranno riposato stanotte Giandomenico Caiazza, Pasquale Annichiarico e Luca Perrone, legali di Girolamo Archinà - ex responsabile relazioni istituzionali di Ilva, e dei Fratelli Riva. Chissà se avranno fatto sogni, se nel silenzio qualcosa avranno percepito dalla loro coscienza. Chissà quanto si saranno impegnati a scavare, approfondire, scandagliare il proscenio processuale alla ricerca del cavillo, dell’arzigogolo capace di resettare un processo già pregno di dodici, dicasi dodici anni di udienze, perizie, testimonianze, di 3700 pagine di sentenza. Puff! Tutto svanito, evaporato; grazie alla solerzia degli avvocati di cui sopra, che, sforzandosi oltremodo, hanno trovato il cavillo principe, il bengodi, ovvero che alcuni giudici vivessero nelle stesse zone di chi si è costituito parte civile. Cari bimbi del quartiere Tamburi, morti di cancro, cari genitori, cari operai volati in cielo per leggi non scritte agevolanti Messer Capitalismo e la produzione oltre ogni norma umana: probabilmente la santa - per loro - prescrizione laverà tutto, coscienze comprese di lor signori, grazie allo scrupoloso lavoro dei tre azzeccagarbugli e alla loro professionalità, un mistero in questa laida biglia blu, dove a volte la disonestà intellettuale si confonde con la bravura e l’abilità.

Sempre più…


…innamorato di questo paese!



Domandina




Peccato!



Peccato! Davvero peccato! Purtroppo ero impegnato (il corso “come annaffiare le azalee” è estenuante!) altrimenti come avrei potuto rinunciare a gustarmi questo unicum, questo simpaticissimo esempio del “io so’ io e voi nun siete un caxxo!”, questo florilegio di beltà che, pare, pagava i propri dipendenti con la cassa integrazione covid, facendoli lavorare! E quando parla con quel tono, fioriscono in me eczemi in zona scrotale tanto l’ammiro! Ed è ancora ministro. Fantastico! Paese fantastico!

Natangelo




Angolo scientifico




Caro Diario

 

Caro diario 

certo oggi per la Spagna per una settimana di vacanze. Porto con me i miei problemi risolti, le ansie ataviche, i tic, le manie, insomma tutto. 

Ricapitolando le ansie: 

Mi dimentico qualcosa da mettere in valigia

Le ho prese le pastiglie? 

Chiuso col lucchetto la valigia. Ok, ma la chiave dov'è?

E se perdo la valigia cosa mi metto i primi giorni? 

E se il treno per l'aeroporto ritardasse? Forse è meglio prendere quello prima

E se l'aereo cascasse? 

E se ci fossero dirottatori a bordo? 

E se i scappasse di evacuare in aereo? 

E se sono seduto al finestrino e mi scappasse la minzione per più di una volta? S'incazzerebbero i vicini? 

Porto le mascherine?

Stacco la tv e ogni forma di energia in casa? 

E il gas? 


Questo non è tutto ma è solo un modo per informarvi che per una settimana ci sentiremo ma non con quella puntualità tipica di questo blog! 

Vamos! 

A proposito di...

 

I PESTICIDI IN EUROPA? PROIBITI A METÀ
di Sara Manisera
PUBBLICATO SUL NUMERO 82 - SETTEMBRE 2024
Tra il 2019 e il 2021, l’Unione europea ha vietato diversi pesticidi nel settore agricolo sul suolo europeo, come il Mancozeb, il Chlorothalonil, il Chlorpyrifos, usati principalmente contro insetti, erbe infestanti e malattie fungine, poiché considerati potenzialmente cancerogeni, interferenti endocrini, responsabili di potenziali danni cerebrali ai bambini e feti, e con un impatto devastante sugli ecosistemi e gli organismi acquatici, a causa delle loro proprietà bioaccumulative e della loro elevata tossicità.
Nonostante i divieti in Europa, queste sostanze – sia come principio attivo, sia come composti già preparati – continuano a essere esportati verso diversi Paesi, inclusa la Costa Rica, dove sono utilizzati principalmente nelle coltivazioni intensive di banane e ananas, a ridosso di scuole, centri abitati e sugli stessi lavoratori.
Benché la Costa Rica sia conosciuta per avere una delle densità di biodiversità più elevate al mondo – circa il 6 per cento delle specie si concentrano qui – il Paese è anche il sesto per uso di pesticidi, con un consumo di 17,6 chilogrammi per ettaro, secondo i dati della Fao. Un altro studio del 2022 di Undp, il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite, indica invece addirittura un consumo di 34,45 chilogrammi per ettaro.
Dall’analisi dei dati del servizio Fitosanitario dello Stato del Costa Rica del 2023 risulta che prodotti banditi in Europa continuano a entrare nel Paese centroamericano: tra questi ci sono l’Ak 42 22 EcC, più noto come Clorpirifos, esportato dalla multinazionale Upl dal Belgio, l’Acrobat, ossia il Mancozeb esportato da Basf Italia, il Dicarmid 60 Ec // Tekla 60 Ec, ossia il Diazinon esportato da Spagna, passando per la Cina e arrivando in Costa Rica.
Anche un documento del ministero dell’Agricoltura del Costa Rica ottenuto dai giornalisti mostra la lista di pesticidi usati a partire dal 2021 con applicazione aerea sulle piantagioni di banane. Nella lista sono presenti diversi agrochimici contenenti principi attivi come il Mancozeb, il Chlorotalonil, il Diazinon e il Diuron, tutti vietati nell’Unione europea.
L’esportazione di sostanze pericolose e pesticidi banditi o severamente limitati dall’Unione europea è regolata dalla Convenzione di Rotterdam. Il principio alla base è che i Paesi decidano da soli se vogliono importare determinate sostanze chimiche (compresi i pesticidi). Il regolamento sull’assenso preliminare in conoscenza di causa (Prior Informed Consent, Pic, regolamento Ue n. 649/2012) disciplina l’importazione e l’esportazione di certe sostanze chimiche pericolose e impone obblighi alle imprese che desiderano esportare tali sostanze nei paesi extra Ue. Il regolamento però non tiene conto del ricatto economico a cui sono sottoposti i Paesi a basso reddito.

Grattatina

 

Il Draghetto dove lo metto
di Marco Travaglio
Ma non mi dire: l’11 settembre, data particolarmente consona alle disgrazie, Mario Draghi (sempre sia lodato) ha incontrato Marina Berlusconi e Gianni Letta. Due giorni prima aveva presentato la nuova Agenda in pelle umana, subito cestinata dalla von Sturmtruppen e dal governo tedesco tranne che per la parte peggiore: quella della terza guerra mondiale. Che ci faceva l’ex direttore generale del Tesoro, vice-chairman di Goldman Sachs, governatore di Bankitalia e della Bce, premier e aspirante trombato al Quirinale con la figlia e il lobbista dell’amico B.? Un portavoce della rampolla parla di “incontro di cortesia già pianificato da tempo, oltre che un’occasione di conoscenza reciproca… nella prassi consolidata di incontri a vari livelli che la Presidente svolge in qualità di imprenditore”, cioè di presidente Fininvest e Mondadori. Avranno certamente parlato del futuro dell’editoria libraria e televisiva, o magari della pubblicazione del suo agile e avvincente Il futuro della competitività europea, 394 pagine che si leggono come un romanzo (horror). Non certo di politica: i figli di B. sono notoriamente disinteressati all’articolo, anche se tutti pensano che facciano capoluogo, sennò ci sarebbe un conflitto d’interessi; e Draghi è proverbialmente alieno da mire e pensieri sì prosaici. Capita però, di tanto in tanto, che per puro caso venga colto col sorcio in bocca.
Il 20 settembre 2013, poco prima dell’espulsione del neopregiudicato B. dal Senato che stava minando il governo Letta, Draghi fu visto uscire a tarda sera dalla casa di Eugenio Scalfari, in piazza della Minerva, insieme al capo dello Stato Giorgio Napolitano e al premier Enrico Letta (dove c’è Draghi, c’è sempre un Letta). Due giorni dopo Scalfari pubblicò su Rep un editoriale (“Napolitano-Letta-Draghi: lo scudo Italia-Europa”), molto ispirato sul pensiero dei suoi commensali, “i nostri tre punti di forza”. Ma non bastò: quattro mesi dopo Renzi pugnalò Letta con un sereno tweet. Nel dicembre 2020 Renzi voleva accoltellare pure Conte in piena pandemia, scrittura del Pnrr e vigilia della campagna vaccinale. Draghi chiamò Massimo D’Alema, non proprio un amico, che non vedeva da anni, e lo invitò nella sua casa ai Parioli. D’Alema andò e si sentì chiedere se non fosse ora di pensare a un’alternativa (indovinate chi) a Conte, che aveva appena portato i 209 miliardi di Pnrr. D’Alema rispose di no, parlando bene di Conte e malissimo di un governo di larghe intese con pezzi di destra. Draghi fece sapere che con Max aveva parlato di Cina. Un mese dopo Renzi rovesciò Conte e arrivò Draghi. Che, appena vede qualcuno, cade il governo. La Meloni non ha bisogno di consigli: ma una grattatina non ha mai fatto male a nessuno.

L'Amaca

 

Camuffati da governanti
DI MICHELE SERRA
Adestra pochissime voci (giusto ieri quella di Marcello Veneziani) riconoscono che esiste, per Giorgia Meloni, un grosso problema di classe dirigente. Lo stesso Veneziani già nel 2020 scriveva così: “La Sorella d’Italia è figlia unica... Per un partito così cresciuto, così lanciato, scarsa è la sua classe dirigente, scarsi i canali di accesso e di selezione, scarsa la sua capacità di intercettare e candidare figure venute da altri mondi e dalla mitica società civile”.
Ovvio che questa debolezza congenita sia enormemente più vistosa dal momento in cui Meloni è arrivata al governo. Meno ovvio che nella vastissima opinione di destra (largamente prevalente in edicola e in tivù) questo argomento sia poco presente, eufemismo per non dire: ignorato. Passi per i tanti pretoriani, non disponibili di opinioni in proprio. Ma gli altri? Possibile che nessuno, a destra, abbia l’onestà di ammettere che la ristretta cerchia di parenti e amici di Giorgia non poteva camuffarsi di colpo da personale di governo senza farsene accorgere?
Una spiegazione possibile, anzi plausibile, è che non la destra “classica”, ma quella populista ha preso il potere in Italia e galoppa in molti altri Paesi. E per il populismo concetti come “classe dirigente” e “élite” sono impronunciabili. Nel meccanismo bene oliato della demagogia (Noi veniamo dal popolo! Siamo stati investiti dal popolo! Parliamo come il popolo!) fanno l’effetto di sassi negli ingranaggi. E dunque ammettere che ministri mediocri e nomine improponibili sono la prova provata della mancanza di una classe dirigente all’altezza, sarebbe come bestemmiare in chiesa: equivarrebbe a dire che tra populismo e classe dirigente c’è una incompatibilità oggettiva.

venerdì 13 settembre 2024

Che sollievo!




Quasi quasi




Anche in noi…



…Tanto sollievo!

Tranquilli…




Tira più…




A volte…




Parrebbe




Anche gli altri però

 

Ufficio Sinistri
di Marco Travaglio
Quando la destra è in difficoltà, di solito non per merito delle opposizioni ma per i leggendari auto-complotti dei suoi Cdd (Coglioni di destra), basta aspettare qualche ora. Poi state pur certi che arriverà qualche Ids (Idiota di sinistra) a ridarle fiato e argomenti. Ieri il governo annaspava ancora nel bicchier d’acqua del caso Boccia-Sangiuliano (dove non si capisce più di che si sta parlando: c’è chi trema perché forse, chissà, Dio non voglia, la Boccia potrebbe rivelare che Arianna Meloni parlava col ministro della Cultura del suo partito). Poi, provvidenziale, ecco il compagno Christian Raimo, insegnante di liceo, scrittore, attivista, editorialista, candidato di Avs trombato alle ultime Europee, concionare alla festa del partito e additare il ministro Valditara come “un bersaglio debole da colpire come si colpisce la Morte Nera”. Si potrebbe pensare che quel “colpire” sia una licenza poetica, se nel marzo scorso il dolce stilnovista, in un talk show del mattino, non avesse difeso Ilaria Salis con queste memorabili parole: “Cosa bisogna fare coi neonazisti? Secondo me bisogna picchiarli, Ilaria ha fatto bene. Io lo insegno a scuola ai miei studenti (ai quali va tutta la nostra solidarietà, ndr): picchiare i neonazisti penso che sia giusto, la democrazia si fonda su una violenza giusta”. Roba che, se la dicessero gli avvocati della Salis ai giudici ungheresi, sarebbe ergastolo assicurato. Per sua fortuna non l’hanno mai detto, anzi hanno sempre negato che la neoeurodeputata di Avs abbia menato chicchessia. Anche perché, se per essere dei veri antifascisti si dovessero picchiare i fascisti, non si riuscirebbe più a cogliere la differenza fra gli uni e gli altri. E così, grazie a questo genio, dopo giorni passati a inseguire i deliri della millantatrice pompeiana, i destronzi hanno finalmente qualcos’altro da dire per esercitare il loro sport preferito: il vittimismo molesto. Contro il prototipo del sinistrista che, se non esistesse, se lo fabbricherebbero con le proprie mani a proprie spese.
Non bastando lui, c’è pure chi fa di tutt’erba un fascio nel giro di vite governativo contro chi protesta in piazza e chi occupa abusivamente case destinate a domicilio altrui (peraltro già punito dalla legge). Il diritto di protestare (pacificamente) è sacrosanto e ogni legge che lo limiti o lo vieti è indecente e incostituzionale. Ma quello di occupare case destinate a chi ne ha diritto (il proprietario o l’affittuario per quelle private, l’assegnatario per quelle popolari) non esiste in nessun Paese del mondo. Si può, anzi si deve contestare lo sgombero immediato per morosità incolpevole di chi non ha un altro tetto. Purché sia chiaro che il diritto alla casa non è quello di entrare in quella d’altri. A meno che non sia la Casa delle Libertà di Corrado Guzzanti

L'Amaca

 

La realtà come complotto
DI MICHELE SERRA
Donald Trump è un bugiardo seriale, ma non lo sa. Crede sia vero tutto ciò che gli piace, e falso tutto ciò che gli dispiace. E dunque, se qualcuno lo contraddice per richiamarlo alla realtà dei fatti (come hanno fatto i conduttori del match con Harris, applicando in buona coscienza le regole del loro mestiere) si indigna, e con lui i suoi elettori, considerando questo richiamo alla realtà una mossa sleale e faziosa.
Siamo così abituati a pensare alla politica come a uno scontro di verità differenti, ma relative a una stessa realtà, che stentiamo a mettere a fuoco questa variante sconvolgente: un pezzo consistente della politica occidentale (degli altri posti del mondo sappiamo troppo poco per poter capire davvero come vanno le cose), così consistente che potrebbe vincere per la seconda volta le elezioni americane, non ha come proposito quello di cambiare la realtà, ma di farne finalmente a meno. Di stabilirne l’irrilevanza e di considerarla, per intero, un complotto nemico da sventare.
Questo tema mi ossessiona da anni (credo con ragione) e mi rendo conto di averne già scritto già troppe volte. Per non ripetermi troppo, vi rimando a tre libri, uno vecchio, uno seminuovo e uno nuovo, che possono aiutare a inquadrare meglio, anche storicamente, questo processo di progressiva dismissione della realtà. Il saggio di Richard Hofstadter “Lo stile paranoide della politica americana”, un classico degli anni Sessanta. “Infocrazia” di Byung-Chul Han, uscito in Italia un paio di anni fa. E “I demoni della mente” di Mattia Ferraresi, appena pubblicato. Nessuno di questi libri ha la minima probabilità di essere letto dalle persone di cui parlano.

Non lo sapevo

 

Per un pugno di yen
Le battute smarrite e i giapponesi infuriati I retroscena del film in cui nessuno credeva
DI ALBERTO CRESPI
Il 16 settembre la Cineteca di Bologna fa uscire in sala la copia restaurata diPer un pugno di dollari .Sono passati sessant’anni dalla prima uscita, a fine estate del 1964. Sempre la Cineteca, dal 23, riproponeLa sfida del samurai di Akira Kurosawa (1961). È un’accoppiata splendida, unita da una storia pazzesca che inizia quando La sfida del samurai ,già passato a Venezia nel ’61, esce in Italia. Sergio Leone va a vederlo. È recente il successo diI magnifici sette , dichiarato remake diI sette samurai : Kurosawa è un cineasta da tenere d’occhio. Leone pensa subito che potrebbe diventare un ottimo western. A margine: anche Mario Monicelli lo vede e si ricorderà del ciuffetto di Toshiro Mifune (il samurai protagonista) nel ‘66, quando metterà un ciuffo molto simile in testa a Vittorio Gassman inL’armata Brancaleone .
E ora cominciano i racconti che chi scrive ha ascoltato più volte negli anni. Spesso leggendari ma, come dice John Ford (cineasta caro sia a Leone sia a Kurosawa) inL’uomo che uccise Liberty Valance , se la leggenda diventa realtà, stampate la leggenda.
Un giorno del 1964 Giuliano Montaldo si reca alla Jolly Film di Arrigo Colombo e Giorgio Papi con i quali, anni dopo, realizzeràSacco e Vanzetti .
«Sento arrivare da una stanza rumori di spari, cavalli al galoppo, urla... penso stiano proiettando un western, invece è Leone che racconta Per un pugno di dollari ai produttori. Faceva tutti i rumori, era come vedere il film. Sergio era il numero uno in una specialità che ogni regista dovrebbe imparare: raccontare i film a voce. Lo chiamavano Dieci in Orale ». Papi e Colomboproducono Per un pugno di dollari in economia: il film è un “recupero”, Leone utilizza il set spagnolo di un western più ricco, Le pistole non discutono di Mario Caiano. Lo raggiunge, per dirigere la seconda unità, Franco Giraldi, futuro regista di film raffinati come Un anno di scuola e La giacca verde : «Arrivai nella Spagna degli anni 60, nonostante Franco fosse ancora vivo si allentava la cappa della dittatura. Nella troupe c’era un solo fanatico del caudillo e tutti lo insultavano: “Taci, fascista”. Gian Maria Volonté non si perdeva una corrida. Io girai con lui le scene in cui Ramón stermina i soldati con la mitragliatrice, e la strage notturna dei Baxter. Sì, le più efferate». Il film viene girato muto, tutti sarebbero stati doppiati: al ritorno a Roma, Leone si è perso la sceneggiatura e nessuno ricorda più cosa diavolo dicessero gli attori, devono riscrivere tutto in moviola, con Enrico Maria Salerno che doppia Clint Eastwood e Nando Gazzolo che doppia Volonté.
Nessuno, alla Jolly Film, crede inPer un pugno di dollari . Tranne Tonino Valerii, futuro regista diIl mio nome è nessuno . Lui, addetto all’edizione, vede per primo il girato e avverte Papi e Colombo che hanno in mano un film paragonabile aI magnifici sette .Lo prendono per matto e distribuiscono il film in agosto. Ma accade un miracolo. In un “pidocchietto” di Firenze il film incassa 400 mila lire il venerdì, 500 mila il sabato, 800 mila la domenica e un milione 400 mila il lunedì, cosa incredibile.Comincia il tam-tam. E cominciano i guai. Qualcuno, a Tokyo, lo vede. E arriva alla Jolly una telefonata: “Scusate, il vostro film somiglia veramente un po’ troppo aLa sfida del samurai ”. Papi e Colombo regalano alla Toho Film i diritti per il mercato giapponese, cosa che a distanza di decenni faceva ancora imbufalire Leone: «Ha fatto più soldi in Giappone che in Italia, e non ho mai visto uno yen». Ma prima, in vista di una possibile causa, gli avvocati consigliano la Jolly di trovare un’opera letteraria la cui trama ricordi vagamente il film, per imbrogliare i nipponici. «Fui incaricato di trovare quest’opera — raccontava Valerii — e tirai fuori Arlecchino servitore di due padroni , vergognandomi un po’. Ebbi 300 mila lire di premio, la causa poi non ci fu. Leone, qualche volta, si è rivenduto questa storia di Goldoni ispiratore dello spaghetti western». Se andrete a vedere La sfida del samurai , occhio: potreste scoprire non solo che Per un pugno di dollarine è praticamente la fotocopia, ma anche che Kurosawa era più bravo di Leone. Ma ne vale la pena.

giovedì 12 settembre 2024

Gattopardianamente




Selvaggia Xs Boccia

 

Care femministe, c’è un problema se Boccia diventa una paladina
LA PIETRA DELLO SCANDALO - Per molte donne, De Gregorio in primis, tutto va letto attraverso la lente del patriarcato. Non contano più i fatti e le persone, ma soltanto il sistema di pensiero
DI SELVAGGIA LUCARELLI
Maria Rosaria Boccia è riuscita a far dimettere il ministro Gennaro Sangiuliano ed è probabile che entro sera riesca a far dimettere anche me da editorialista del Fatto, perché per la prima volta – a causa sua – martedì sera mi sono trovata d’accordo con Alessandro Sallusti. E sono costretta ad ammetterlo, cosa per cui chiedo già scusa a mia moglie e a Giorgia Meloni.
Durante la puntata di È sempre Carta Bianca, cui Boccia, nonostante gli impegni presi, non si è presentata, si è molto discusso della sua figura. In particolare, si contrapponevano le tesi di Alessandro Sallusti e di Concita De Gregorio.
Il primo affermava che Sangiuliano ha sbagliato tutto politicamente parlando e infatti si è giustamente dimesso, descrivendo però Boccia come una inaffidabile millantatrice con una propensione al ricatto. De Gregorio, con piglio femminista, continuava a parlare di Boccia come di “imprenditrice campana”, “imprenditrice che si occupa di chirurgia estetica e di diete”, “imprenditrice che provava ad accrescere il suo curriculum tramite il ministero della Cultura”. Si lamentava poi del fatto che Giorgia Meloni, a Cernobbio, l’avesse definita “questa persona”.
Temo, purtroppo, che Concita De Gregorio sia vittima di una tendenza scivolosa e molto diffusa oggi tra le donne, che è quella di allinearsi alla corrente più oltranzista del neo-femminismo per cui ogni questione va letta attraverso la lente del patriarcato. Non contano più i fatti e gli individui, ma solo il sistema di pensiero in cui sono inseriti.
E dunque l’indifesa Boccia, secondo De Gregorio non va sminuita nella sua professione e nella sua identità, perché è l’uomo – lui solo – il cattivo della storia. L’idea che Sangiuliano possa essere indifendibile politicamente e che Boccia possa esserlo in altri segmenti, non può coesistere.
O l’uno o l’altro. Questa lente faziosa e deformante, unita a quella ancora più deformante della strumentalizzazione politica, impedisce da giorni a quasi tutta la stampa e la tv di ritrovare il senso della realtà. E fa apparire Sallusti il più lucido di tutti, il che è chiaro presagio di una imminente pandemia di colera.
Maria Rosaria Boccia “imprenditrice” è quantomeno generoso. Dice, senza essere nutrizionista, di occuparsi di diete, ma ad oggi l’unica dieta che le è riuscita è quella – involontaria – di Sangiuliano che probabilmente riacquisterà lo stimolo della fame nel 2027. E altri tipi di stimoli forse mai più. Dice di presiedere la Fashion Week Milano Moda, che sarebbe una rivisitazione creativa della “Milano Fashion week”, che è come se io mi definissi presidente della Europea Commissione. In una vecchia intervista Rai alla sua amica Monica Marangoni ha detto, testuale: “Organizzo tutti gli eventi collaterali della settimana della moda in Europa, dove partecipano musicisti, poi Sanremo, la settimana della moda Milano e Pitti Firenze”.
La sua pagina Instagram è zeppa di foto di eventi, località vacanziere, beni di lusso, foto che lei saccheggia dalle pagine Instagram di influencer straniere o da Pinterest. Si infila gli occhiali con la telecamera incorporata per fare il Montecitorio tour e pubblica pure il tutto, come se si fosse fatta un giretto nella escape room “Pura adrenalina” con gli amici. E non sappiamo in quale altra occasione li abbia indossati, ma ci auguriamo di non dover conoscere dettagli dei beni culturali di Sangiuliano. Ha avvicinato svariati politici e ministri, con competenze nebulose e titoli di studio (due lauree) che l’ex marito insinua essere millantati.
Ha raccontato di essere stata vittima di una infermiera stalker che le ha dato fuoco alla porta. Avrebbe, secondo la versione di Sallusti, detto a Sangiuliano che era incinta. Ha iniziato a centellinare avvertimenti, messaggi dai toni minacciosi, registrazioni audio dalla sua pagina Instagram con musichette inquietanti o allusive, dando pure a intendere che sia in possesso di chissà quali altre scottanti notizie. Notizie che stiamo aspettando almeno quanto il suo ingresso negli studi di Carta Bianca. Pubblica foto di pop corn accanto all’annuncio delle ospitate tv come a dire “ora ci divertiamo”.
Cosa c’è di nobile e femminista in tutto questo, al netto di ciò che era utile a smascherare eventuali illeciti e a sollecitare le dimissioni del ministro? Ma soprattutto, Sangiuliano ormai si è dimesso, se Boccia ha qualcosa di politicamente rilevante da aggiungere lo aggiunga, altrimenti inizia a sembrare una ossessione, tanto più che l’ultima sua uscita è stata: “Non ho avuto una relazione sentimentale e sessuale con il ministro”. Quindi Sangiuliano, invece, avrebbe ammesso la relazione al tg parlando di loro chat “con cuoricini” perché non voleva solo dimettersi, voleva farsi brillare come un ordigno della Seconda guerra mondiale.
Insomma, io non so cosa altro dovrebbe fare Boccia per sembrare quello che è. Ovvero una che non ha ottenuto ciò che voleva (la nomina) e quindi dà fuoco a tutto. Sangiuliano ora è tra le sterpaglie nere di cenere, cosa deve fare di più, darsi fuoco pure lui?
Chiudo dicendo una cosa. Sì, la responsabilità politica è tutta di Sangiuliano. Anche nelle vicende politiche però esiste il fattore umano. E scusate se non riesco a farmi piacere chi, tra le altre cose, per provocare la presidente del Consiglio pubblica un suo video montando la scena in modo tale da far sembrare Meloni una che tira su con il naso nervosamente e ripetutamente. Un’allusione raffinata e femminista dell’imprenditrice campana al fiuto politico di Giorgia, naturalmente. Mica una schifezza.

Cogitando

 

Tutto in una notte
di Marco Travaglio
Che notte, l’altra notte. Non sarò precisissimo, perché dinanzi alla tv alternavo momenti vigili ad altri di sonno e dormiveglia e non saprei distinguere cosa è accaduto e cosa ho sognato. Ero partito con È sempre Cartabianca, perché adoro la Berlinguer, ma soprattutto Mauro Corona e i suoi amici al bar, Nonna Silvi e suo nipote. E non potevo perdermi le sensazionali rivelazioni della presunta dottoressa, consulente ministeriale, influencer e puerpera Boccia. Che però, purtroppo, salita da Pompei a Roma negli studi Mediaset per dare un’intervista, ha scoperto tutt’a un tratto di dover dare un’intervista ed è fuggita a gambe levate perché erano previste financo delle domande. E lì si è discusso della non-intervista della non-tutto: una nota giornalista progressista chiamava la Boccia “imprenditrice” e ne difendeva la dignità di donna, gravemente lesa dalla Meloni che la chiama “questa persona” anziché “questa cosa” e da chi osa insinuare che fosse financo l’amante di Genny. Così riusciva a far sembrare attendibile persino Sallusti, che ne elencava le panzane sesquipedali. Poi devo essermi addormentato, perché la scena successiva era Sallusti che vinceva il premio Pulitzer.
Alle tre di notte la sveglia mi ha destato di soprassalto per lo storico confronto tv fra il vecchio bullo tutto pittato e la più giovane nullità piena di vuoto che si contendono la Casa Bianca. Lui contava balle grossolane sui migranti magnagatti, sulle elezioni perse nel 2020, sulla strage degli innocenti prima e dopo i parti. Lei contava balle raffinate sull’inflazione, l’immigrazione, i disastri di Biden (quindi suoi, anche se finge di non conoscerlo), la fuga ignominiosa da Kabul, la Russia che vuole invadere l’Europa e sparava supercazzole alla Schlein tipo l’“economia delle opportunità”, “la presidente di tutti gli americani”, la sanità pubblica quindi privata e Israele che ha “diritto di difendersi, ma ha ucciso troppi palestinesi” (fino a 40 mila va bene, ma ora sta un po’ esagerando). Poi devo essermi assopito di nuovo, perché mi è parso che quello di destra dicesse la verità sulla questione cruciale del pianeta, e cioè che la nullità e il suo Rimbambiden ci stanno trascinando nella terza guerra mondiale nucleare e la guerra in Ucraina va chiusa subito mettendosi a un tavolo con Putin e Zelensky, anzi con negoziati seri non sarebbe neppure iniziata. Invece quella di sinistra giurava “non voglio fermare le armi da fuoco” e prometteva “la forza militare più letale del mondo”, anche perché “ho avuto l’endorsement di Dick Cheney e di sua figlia Litz” (se ne vanta pure), ergo la guerra mondiale nucleare è assicurata. In quel preciso istante, mentre Sallusti scendeva dal palco col Pulitzer sotto il braccio, saliva Trump per il Nobel per la Pace.