venerdì 8 agosto 2025

Ancora Michele!

 

Noi davanti allo spavento del presente
di MICHELE SERRA
Il mondo è sempre stato un luogo orrendo (e meraviglioso, ovviamente) e un eventuale dibattito sull’apocalisse imminente mi vedrebbe schierato tra gli scettici: l’apocalisse c’è sempre stata, non è una novità ma uno stato costante del divenire di quella bestia che siamo. Per risalire i secoli ci basterebbe seguire le tracce di sangue alle nostre spalle. Ma c’è una novità molto rilevante, credo. Ed è la sostanziale solitudine di molti (di quasi tutti?) di fronte al male e alla distruzione. Riassumibile nella diffusa domanda, per esempio su Gaza: “possibile che nessuno riesca a fare qualcosa?”.
La facoltà di sopportare lo spavento, e di reagire allo spavento, in comunità solide e resistenti agli urti, alle quali chiedere una interpretazione condivisa degli eventi e soprattutto le istruzioni per il “dopo”, sembra appartenere al passato. I famosi “punti di riferimento” — il faro nella tempesta, il rifugio nella tormenta — sembrano sbiaditi o scomparsi. O disinstallati, in parte per la loro obsolescenza, in parte per difetto di manutenzione.
Fosse solo simbolico e ideale o anche solidamente istituzionale il loro ruolo, per moltitudini di umani quei riferimenti, anche se non omogenei e anche quando in conflitto tra loro, erano decisivi e, nei momenti di crisi, appiglio robusto.
Per rimanere al secolo appena trascorso: l’America democratica e liberatrice, la Russia baluardo del collettivismo, l’Onu e la costruzione di poteri e regole sovranazionali, il processo di unità europea. La Politica e i Partiti quando avevano la maiuscola ed erano case comuni la cui facciata testimoniava, passandoci davanti, che il potere aveva anche un corpo collettivo del quale chiunque poteva sentirsi parte, e dunque il domani del mondo non era in disponibilità esclusiva delle oligarchie; le ideologie come un affaccio verso il futuro. Nel nostro specifico nazionale aggiungerei la Rai, che fu scuola pubblica e voce comune per un paio di generazioni di italiani e non scalpo da appendere sull’uscio della banda vincente. E i giornali — soprattutto alcuni — che erano letti come libretti di istruzione per l’uso del mondo, se lo meritassero o no. L’edicola era un luogo insigne della Polis.
È un elenco parziale e frettoloso — o forse solo, banalmente, è il “mio” elenco — e ognuno avrà il suo.
Ma se proviamo ad aggiornarlo: L’America sembra il covo di un cartello di taglieggiatori razzisti; la Russia un impero coloniale dei secoli passati; dell’Onu si parla solo per compatirne l’inutilità e il declino; l’Europa, se è quella prona e poco dignitosa di von der Leyen che va a riverire l’Imperatore nel suo campo di golf, vale quanto una speranza tradita; il massimo che si chiede alla politica è che non faccia troppi danni, e i seggi si svuotano come bar di poca fama (rimane miracolosamente intatto, di quel pacchetto di garanzie novecentesche, il Quirinale, ma quando parla Mattarella lo si ascolta quasi come Radio Londra); della Rai, già detto; i giornali, sempre meno letti, sembrano diventati il rifugio di pochi amanuensi, alcuni per giunta maldestri, che resistono come monaci del Medioevo: la vera informazione mainstream, lo vedono anche i bambini, è quella totalmente destrutturata dei social, facile preda delle scorrerie dei falsari e delle urla dei fanatici.
A chi chiedere, dunque, “e adesso che facciamo?”. Sotto quale grande tettoia comune ritrovarsi per stemperare la paura e reagire allo scandalo, mettere in atto qualche misura di conforto e di rimedio? La gestione dello spavento è affidata a piccole cerchie, quando si è fortunati, e alla pura casualità della chiacchiera quando neppure la piccola cerchia è disponibile, e ci si tuffa in rete alla ricerca di risposte cliccabili senza trovarne, oppure trovandone troppe, che è l’equivalente di niente.
Due gruppi umani, uno nel bene uno nel male,fanno eccezione a questo stato di solitudine, e riescono ancora ad accorparsi in modo rilevante.
Uno è quello dei credenti (ho negli occhi la marea di ragazzi al Giubileo romano) che non temono apocalisse e anzi sembrano affrontarla quasi come un’opportunità, perché hanno gli anticorpi della fede. L’altro è quello dei fanatici, che nell’apocalisse sguazzano e ne sono in parte i provocatori.
Cavalcano il rottame infetto del pregiudizio (che tutto spiega e da tutto tutela) credendo sia un destriero: sprofonderanno prima degli altri, ma intanto fanno danni immensi alla società intera.
Per tutti gli altri, la rete delle relazioni è da ricucire, piano piano, con tenacia e fantasia, in modo da non sentirsi troppo isolati in mezzo al caos. Riparando le relazioni vecchie e inventandone di nuove. Il livello dell’angoscia è molto alto, sempre più alto (chiedere a psichiatri e psicanalisti), specie tra i ragazzi, anche per effetto del brusco scarico delle macerie del mondo sulle spalle di ciascuno.
Non è un peso sopportabile, non abbiamo strumenti individuali (a parte l’indifferenza, l’alzata di spalle) tali da farcelo reggere. Il rischio è che sempre più persone, direi per autodifesa, chiudano porte e finestre a un mondo che le sovrasta, che sfugge non dico al loro controllo, ma alla loro comprensione. E una ristretta consorteria di potenti e di straricchi — due condizioni ormai coincidenti — disponga di una umanità di spaventati e di isolati, fornendole un finto riparo e usandola come materia prima per rafforzare il suo dominio.

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