Rileggere il Paese dei Balocchi
di Michele Serra
Il bel botta e risposta su Pinocchio tra Aurelio Picca (che non lo ama) e Stefano Massini (che lo difende) mi ha fatto ripensare al mio sconcerto di lettore-bambino: non sapevo se essere contento di quel finale, la metamorfosi di Pinocchio in bambino vero.
Mi consolava saperlo finalmente al sicuro. Ma forse avrei preferito che rimanesse burattino.
Chi è la farfalla, chi il bruco, il burattino disobbediente che si scapicolla per il mondo o il bravo bimbo che infine, prendendone il posto, lo uccide?
Crescere e diventare “come gli altri”, socialmente accettati, è una evoluzione o una resa? Non l’ho capito ancora adesso, che sono inesorabilmente cresciuto, un po’ perché così capita, un po’ perché crescere ha i suoi vantaggi.
Vent’anni dopo Pinocchio, Peter Pan (altro capolavoro sul tema) diventava l’eroe riconosciuto del rifiuto di crescere, ribellandosi al tempo che incombe e ci strappa a quella illusione di eternità che è l’infanzia.
Rimanere aggrappati ai sogni o diventare grandi? Volare sopra il cielo di Kensington, scappare ridendo per le vie, o ammettere che non esiste possibilità di fuga, e in quel preciso momento cominciare a invecchiare?
Negli anni la questione, già ambigua in sé (perché sono belle e importanti entrambe le condizioni: essere bambini e essere adulti), si è ulteriormente complicata. Rimanere bambini, quale che sia l’età anagrafica, è per esempio un ottimo presupposto per essere consumatori perfetti (e almeno in questo senso sarebbe urgente crescere). Le pagine sul Paese dei Balocchi, che hanno un’aura di preveggenza, basterebbero, da sole, a suggerire una rilettura di Pinocchio.
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