Il provincialismo dell’impero
di Michele Serra
L’adunata bellica di Putin, per quanto se ne è capito da quaggiù, sembrava soprattutto molto provinciale: cosa che per una potenza con brame imperiali stona parecchio. Dava un’idea di isolamento e di fatica culturale, con quelle vice-star di un vice-rock di imitazione, quelle presentatrici e vallette televisive di regime che sembravano hostess dell’Aeroflot, con tutto il rispetto per le hostess dell’Aeroflot, molte delle quali, conoscendo il mondo, avrebbero potuto dare qualche utile suggerimento per migliorare di molto la scaletta… Nei trent’anni trascorsi dalla fine dell’Unione Sovietica, a parte gli oligarchi, le loro magioni e i loro barconi che fanno sembrare Briatore un velista elegante, perché niente di “russo” (con l’eccezione della grande tradizione musicale, per altro ben viva anche sotto il comunismo) ha potuto imporsi nel mondo? A parte l’atomica e il gas, i carri armati e le risorse naturali, che cosa ha prodotto la Russia, di importante, di significativo, una volta liberata dalle gabbie dell’economia di Stato e dei piani quinquennali?
È questa la domanda che una classe dirigente illuminata avrebbe dovuto farsi. Ma è proprio sull’inedia e sulla frustrazione che una classe dirigente non illuminata, quella di Putin, può fare leva per consolidare il suo potere: il mito dell’uomo forte calza a pennello ai popoli deboli, e niente come una guerra può illudere un popolo di essere ancora potente.
Nelle grandi città russe esiste sicuramente una gioventù irrequieta e creativa, curiosa del mondo e non per questo “meno russa”.
Avranno visto con rabbia e ilarità il Putin Day televisivo. Dovremmo fare di tutto per non far sentire soli i veri patrioti russi, che sono in buona parte in galera, come accadde nelle dittature, per “attività anti-russe”.
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