lunedì 20 gennaio 2025

M per M

 

“M”, la conversione dell’Italia fu “tra il delitto e il carnevale”
LA SERIE SKY TRATTA DA SCURATI - Noi e Lui. La prova di Luca Marinelli e l’intreccio con le riflessioni di Jemolo, Gobetti e Calamandrei. “Non si tratta di una grande storia: si tratta di cronaca”
DI TOMASO MONTANARI
Nel dibattito subito apertosi tra detrattori e apologeti di M, la serie Sky tratta dai libri di Antonio Scurati, dichiaro (dopo aver visto le prime quattro puntate) di essere tra i secondi. E non solo per l’interpretazione travolgente di Luca Marinelli, per la regia geniale di Joe Wright, per la spettacolare colonna sonora, per l’atmosfera da cinema espressionista, ma anche per la capacità di far capire che il fascismo fu (insieme, e inestricabilmente) una tragedia e una farsa, che il suo duce fu un pagliaccio mannaro (mannaro fin dall’inizio, pagliaccio fino alla fine), e che tutto questo non fu una parentesi della storia italiana (secondo la celebre, quanto fallace, formula di Benedetto Croce), ma invece la più terribile “autobiografia della nazione”, come comprese, con la solita sovrumana intelligenza, Piero Gobetti. La mescolanza ripugnante tra la meschinità piccoloborghese di Mussolini e l’oscenità della violenza estrema che lo porta al potere è il filo conduttore dei primi episodi. Quella doppiezza tra abito di gala e torture mostruose che ancora Gobetti coglie, nel 1924: “nella sua politica, la normalizzazione è un elemento psicologico e ideale, necessario come la violenza. La conciliazione degli opposti non è una ipocrisia del Duce: è il suo stile… Egli è l’addomesticatore del fascismo solo perché lo serve, e lo serve appunto mentre addormenta gli avversari con gli ideali del ministerialismo e della pace”. Così M ha il grande merito di gettare giù dal piedistallo della grandezza (anche se scellerata) il duce del fascismo, mostrando che non fu affatto un ‘grande uomo’: ma un arrampicatore opportunista, incapace di lealtà. E che, proprio per questo, egli riuscì a prendersi il Paese con una facilità che lascia tuttora sconcertati. Come ha scritto Arturo Carlo Jemolo, “il fascismo riuscì a convertire i complessi di inferiorità in ragioni d’orgoglio”: una via di successo poi cara alla destra italiana, fino a Berlusconi, o a Salvini. La riuscita di M sta proprio in questo, nel restituire il ‘costume’ fascista, “sempre a cavallo tra il delitto e il carnevale”. Se dà fastidio la riduzione a macchietta di Mussolini, per esempio nella sua erotomania seriale e violenta, è perché ci siamo dimenticati che era proprio così. Anche un severo giurista come Piero Calamandrei guardava il duce (che chiamava “buffone”, “Cesare di cartapesta”, “funesto ciarlatano”…) attraverso quelle stesse lenti, per esempio descrivendo così un suo copricapo: “una specie di gigantesco tegame, fabbricato su misura per un augusto cranio macrocefalo, che dominava fra i tegamini satelliti: tutto nero, senza neanche un filo di gallone, ma con in cima alla cresta un fierissimo uccellone d’oro”. Nel numero per il trentennale della Marcia su Roma, proprio il Ponte di ​ Calamandrei si preoccupava di quanto sarebbe stato difficile ricordare tutto questo, in futuro: “Non si tratta di grande storia: si tratta di cronaca… che oggi a ripensarla pare creazione di una fantasia malata o burlona, e che stava sempre a cavallo tra il delitto e il carnevale, tra il delirio fastoso e la burbanza caporalesca, tra il cieco fanatismo e la cinica ipocrisia; tra la faccia feroce, e un furbesco strizzar dell’occhio. Se tra qualche decennio gli storici si metteranno a ricostruire il fascismo solo per quello che ne è rimasto nelle raccolte ufficiali delle leggi o nei commenti dei giornali del tempo (tutti ugualmente asserviti al regime), finiranno col considerarlo una cosa seria». Ecco, M sarebbe credo assai piaciuto ai redattori del Ponte: perché ci restituisce l’avvento del fascismo come una cosa tragica, ma non seria. Anche la radice fiumana, dannunziana, di questo perpetuo tono grottesco emerge perfettamente, rendendo spettacolare (ma sempre salutarmente ripugnante) ciò che scrive in questa lucida pagina Mario Bracci, primo rettore dell’Università di Siena dopo la Liberazione: “Fiume poi, oltre a farci assistere ad una pittoresca manifestazione del tradizionale gusto italiano per la vita militaresca irregolare e avventurosa, introdusse un elemento che sembrò nuovo nella nostra vita politica: vale a dire ci si accorse che bizzarrie da poeti, o bravate da soldatacci o addirittura sciocchezze senza capo né coda, che pareva impossibile potessero essere prese sul serio, piacevano invece a molti e divenivano presto di moda purché fossero adornate con parole preziose e con modi di dire poco usati, e purché fossero affermate con grande serietà e con forme rituali. Così dai legionari che per ordine del comandante dovevano sfondare le porte a capate – e il più bravo si chiamò ‘testa di ferro’ – si giunse poi ai professori universitari in orbace e stivali duri che facevano il passo romano in via dell’impero, e ai gerarchi che per ordine del duce saltavano a pesce attraverso cerchi fiammeggianti: cose che i posteri, quando saranno sbiadite le fotografie, non crederanno, ma che invece accaddero davvero”. M ce lo fa vedere: e nel momento più opportuno.

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