domenica 26 gennaio 2025

Melanconia

 

Il capitalismo melanconico. Depressione: una nevrosi collettiva
MELANCONIA E FINE DEL MONDO - Iper-produzione e consumismo ora generano “malattia sociale”
DI DANIELA RANIERI
L’etimologia greca della parola “melanconia” (da melaina cholé, “bile nera”, secondo la teoria degli umori di Ippocrate) testimonia che questo temperamento, contiguo alla tristezza ma non sovrapponibile a essa e diverso dall’angoscia che è un’emozione “romantica”, ha radici antichissime. Eppure c’è una forma speciale di melanconia che nasce col mondo moderno e viene riconosciuta e narrata solo a partire dal XX secolo. A questa sindrome di radicale e morbosa depressione, di “spaesata solitudine” e di catastrofe personale e collettiva è dedicato Melanconia e fine del mondo, dotto saggio di Paolo Godani in uscita per Feltrinelli.
Il tema è diventato attuale da che la malattia mentale è stata “socializzata” al pari di altre affezioni del corpo e della psiche, anche se si tende a confondere la melanconia, che ha origine psicotica, con la depressione, che è invece nevrotica. Raccontando la sua crisi psichica a Repubblica, lo scrittore Paolo Cognetti ha usato queste parole: “Un albero era solo un albero”. Il soggetto avverte questa desolata afflizione quando le cose del mondo non hanno un significato ulteriore rispetto al puro esserci e restano disabitate dal senso; così, prive di senso, riflettono lo stato interiore di chi diserta la chiamata dell’umano a entrare in relazione con l’Altro. Il mondo pietrificato contagia anche l’anima e, in un ciclo disperato, l’abrasione del senso si ri-estende al corpo, proprio e degli altri; il desiderio recede; la libido non re-investita si trasforma in sentimento del nulla, nella “nausea” di Sartre.
È a questo incrocio che l’autore stabilisce l’affinità tra una certa forma di melanconia e il fascismo, nella sua mania per la purezza unita alla fobia per la contaminazione del corpo inteso come macchina perfetta, ancorché principale vittima della violenza e della reclusione da parte del potere. L’ossessione per il corpo come ricettacolo di agenti patogeni – e del corpo sociale, cioè della “razza”, come contaminabile – non è in contrasto con l’esaltazione della forma fisica e con l’elogio della “bella morte” dei mussoliniani e dei franchisti: citando Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’Illuminismo, Godani segnala l’intima connessione tra “l’orrore nei confronti del corpo, la sua esaltazione e la volontà di sopprimerlo”.
È del resto un lascito, o meglio una degenerazione, dell’Illuminismo ciò che Godani chiama “nichilismo medico”, frutto del disincantamento del corpo, non più tempio del divino, ma ammasso di organi racchiusi in un involucro, tanto reificato che se ne può rigidamente scrivere al pari delle altre cose (vedi i fulgidi esempi di Céline e Gottfried Benn) senza restarne abbacinati. E benché la melanconia sia, per la psicanalisi moderna, strettamente legata al lutto (dal saggio-pietra miliare di Freud) come stato in cui il soggetto deve raschiare gli oggetti e i luoghi dal ricordo dell’amato perduto, il sentimento della perdita può cronicizzarsi “importando” la morte nella vita quotidiana.
L’alienazione propria della fabbrica, nel mondo della merce immateriale privo della solidarietà e della coscienza di classe, ha oggi assunto facce subdole e seduttive. Godani tratta con rigore la grande truffa dello sviluppo, confuso con il progresso: “Abbiamo creduto che il disciplinamento, la sottomissione e lo sfruttamento, che nel frattempo si imponevano su scala globale, fossero mali necessari e pienamente sanabili dalle conquiste a cui ci avrebbero condotto la prassi, la tecnica e la produzione. E abbiamo creduto che prima di filosofare, amare, danzare, cantare si dovessero moltiplicare i mezzi per vivere. L’insieme di queste credenze, che hanno trasformato durevolmente i nostri modi di sentire, condividere e pensare, porta il nome di capitalismo”. “Non era depressione, era capitalismo”, recita uno striscione riprodotto nelle metropoli e nelle periferie occidentali. Quella che per più di un secolo è stata spacciata per condizione personale patologica, era in realtà una malattia sociale. Lo stesso desiderio, messo al lavoro, è diventato uno strumento del capitale, che con esso ci induce ad alimentarlo, replicando sé stesso (è ciò che Marcuse chiamava “desublimazione repressiva”).
Godani lascia intravedere clemenza in una forma di consapevolezza spinoziana, quella del naufrago che comprende come natura e coscienza facciano parte di un medesimo flusso; la cognizione, cioè, grazie alla quale “le cose non ci appaiono più come enti finiti, come individui eslege che emergono in maniera effimera dal nulla che li circonda, ma si presentano come parti dell’intera natura”. E conclude il bel saggio con le parole più spirituali di Kafka: “Solo qui la sofferenza è sofferenza”. L’unica salvezza possibile del melanconico: abitare un mondo ulteriore in questo mondo, uscire, come intendeva Walter Benjamin, dal piano del divenire storico e stabilirsi con gaiezza sul piano dell’indistruttibile.

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