giovedì 16 gennaio 2025

Senti senti Selvaggia!

 

L’illusione collettiva che Facebook sia una fonte di verità
FACT-CHECKER, CENSURA E @ORSETTO56 - Avevo postato l’adozione di un gatto: fui bannata per ‘traffico di animali vivi’
DI SELVAGGIA LUCARELLI
Nelle ultime settimane molti giornalisti e commentatori hanno scoperto che Mark Zuckerberg non è un filantropo, amico del genere umano e neppure un’anima pura che conduce con sforzo operoso la luminosa missione di rendere la vita migliore a noi tutti, disinteressandosi di vantaggi e tornaconti personali. Il risveglio è stato brusco, me ne rendo conto. Zuckerberg ha calato la maschera: ora tutti sanno che l’inventore dei Facebook è sorprendentemente preoccupato di ingraziarsi Trump per non rimanere escluso da giochi di potere e per guadagnare più denaro possibile dalle sue piattaforme. Ma tu pensa.
E quindi nell’universo Meta niente più fact checking e niente più programma di diversità e inclusione. Zuckerberg non era mosso da ragioni etiche. Non gliene fregava nulla del controllo su bugie e verità o della cultura woke. Voleva solo obbedire a Biden e trarre così più vantaggi possibili dalla gestione delle sue piattaforme.
È davvero un peccato, perché il “filtro verità e inclusione” funzionava così bene. Era davvero il fiore all’occhiello della gestione Meta. Io per esempio sono stata raddrizzata più volte, quando mi perdevo nei meandri della disinformazione, dell’illegalità, del politicamente scorretto. Negli ultimi mesi, per esempio, Facebook ha rimosso una mio post su Imane Khelif, la pugile algerina, perché avevo scritto – promuovendo l’uso della violenza – che la sua foto di copertina su Vogue era “un pugno in faccia a chi ha cercato di umiliarla”. Facebook ci protegge dall’uso spregiudicato delle metafore, evidentemente. Poi mi è stata cancellata la condivisione di un post della pagina sovversiva “Cuore micioso Fanpage”, in cui si proponeva l’adozione di un gatto. Facebook mi ha accusata di “traffico di animali vivi”. La prossima volta proverò a far adottare gatti morti, vediamo come va.
Su Instagram mi è stata poi ridotta la visibilità di un post in cui sottolineavo la gravità della sospensione dei fondi a Unrwa perché 12 dipendenti su 13.000 erano stati accusati da Israele di aver avuto un ruolo negli attacchi del 7 ottobre. Avevo osato dire che “in Ucraina, paese in cui la corruzione è pratica frequente e ben lontana dall’essere estirpata, alti funzionari ed ex funzionari del ministero della Difesa sono stati accusati di aver preso milioni destinati alle armi. Non è neppure la prima volta, ma l’ennesima dall’inizio della guerra. Nessuno ha mai pensato di sospendere invio di aiuti e armi. Perché gli ucraini non vanno lasciati soli, i gazawi vanno semplicemente lasciati morire”. Insomma, avevo scritto la verità, ma a qualche fact checker di Meta non era piaciuta. Anche quando ho semplicemente ripostato su Instagram la foto del titolo di giornale “L’Aja processerà Israele per genocidio” Meta ha ridotto la visibilità del mio post, mandandomi una sorta di cartellino giallo. Della serie “La prossima volta che scrivi la verità ti cancelliamo l’account”. Ma ha eliminato anche mie storie con i video degli incendi nei campi profughi di Gaza, mentre l’algoritmo di Instagram continua a spammarmi ovunque i video degli incendi di Los Angeles con le immagini strazianti delle piscine dei milionari americani annerite dal fumo e dalla cenere.
Insomma, anche io – come avrete capito – sono tra coloro che rimpiangeranno lo strumento efficace e chirurgico dei filtri “verità e politicamente corretto” di Zuckerberg. Quello stesso strumento che riteneva pericolosi i contenuti di “Cuore micioso Fanpage” ma consente l’utilizzo spregiudicato dei minori sui social, con tanto di algoritmi che hanno sempre favorito la diffusione di contenuti discutibili o pericolosi sui bambini. E questo è solo uno dei tanti esempi che potrei scomodare su come la verità o la giustizia sociale o ciò che è bene o male siano stati sempre concetti così elastici per Zuckerberg che forse lo preferisco adesso, nella versione “capitalista senza maschere”. E forse preferisco perfino Meta senza più l’ipocrisia del fact checking, dal momento che non mi hanno mai convinta i verificatori e gli oggetti verificati.
La disinformazione governata – quella che adesso tutti sembrano temere – era già una realtà. Rimuovere sistematicamente i contenuti su Gaza è disinformazione governata molto più che lasciare che chiunque scriva quello che vuole su Gaza o Israele. Fa infine sorridere che i primi a preoccuparsi della decisione di Zuckerberg di abdicare al controllo sulla veridicità delle notizie siano i giornalisti. La figura del fact checker – va ricordato – è nata soprattutto per accertare la veridicità delle notizie riportate dai giornali. In pratica, quella che deve essere la missione del giornalista – verificare la verità di una notizia – è stata un tale fallimento da favorire la nascita di una figura che sostituisca (o integri) quella del giornalista. Oggi abbiamo colleghi che si stracciano le vesti all’idea che @orsetto56 possa diffondere fake news indisturbato, quando i primi grandi fabbricanti di fake news sono proprio quelli che dovrebbero scovarle. Insomma, il primo vero problema – quello a monte – è che Zuckerberg non ha tradito se stesso: fa l’imprenditore e il capitalista. Della verità non gliene frega niente. È l’informazione ad aver tradito se stessa: non si assume responsabilità dei contenuti, ma chiede a Zuckerberg che vigili su quelli di @Orsetto56. O, peggio, che vigili sui contenuti indicati dal presidente del momento. Non so voi, ma io, al momento, faccio fatica a orientarmi in questo groviglio di torti e ragioni. Di sicuro so che chiedere a chi trae profitto dal caos di arginare il caos, non è una grande idea.

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