mercoledì 2 marzo 2016

Fobie


Tra le molteplici fobie che mi posseggono, accudendomi e vegetando alla grande grazie alla mia innata accondiscendenza, ve ne è una particolare, meglio conosciuta come "differenziata".
Riguarda infatti la sfera dell'immondizia. Sono letteralmente psicotico riguardo alla produzione di rifiuti, non per ambientalismo bensì per smaltimento. 
Ad esempio al supermercato evito imballaggi ingombranti solo perché una volta a casa, devo pensare al successivo immagazzinamento negli appositi scomparti. Il mio condominio non è attrezzato con recipienti esterni ove posizionare gli scarti, pertanto tralasciando i sacchetti neri del residuo e la plastica, carta e umido dovrebbero essere portati alla sera fuori dal portone inseriti negli appositi contenitori, bianco per la carta e marrone per l'umido.
Ed ecco scattare la fobia: odio visceralmente solo pensare a lasciare tutta la notte fuori alla mercé di chicchessia, fosse umano o roditore, qualcosa che successivamente riporterò in casa. 
Pertanto appena vedo qualcosa di cartaceo prossimo all'eliminazione, mi agito e cerco in qualche maniera di eliminarlo. Soprattutto con l'umido: la raccolta viene fatta tre volte alla settimana, ma non sopporto ad esempio se a cena mangio pesce, lasciare i resti dentro il sacchettino per due giorni. So di essere strampalato ma ho intrapreso questo discorso partendo appunto dalla fobia. Ammetto la mia scellerataggine, la mia discrepanza con la ragione. Mettilo sul terrazzo, mi dicono. Madama Fobia però m'allerta: "Guarda che se lasci tutto il giorno i resti del pesce all'aria aperta, potrebbero salire topi o gabbiani!"
Allora adotto uno stratagemma che ammetto essere ambiguo: ficcare a sera inoltrata il mio umido dentro un recipiente di qualcun altro, evitando di esporre il mio ai pericoli della notte! Oppure, in alternativa, uscire al far dell'alba e recarmi in un contenitore apposito di qualche altro palazzo e lì, furtivamente, lasciare il mio. 

Trattandosi di fobia conclamata, dovrò vincerla attraverso un processo mentale psicologico, che comporta tempo e fatica. 
Se qualcuno mi vedesse con il sacchetto in mano, mi scambierebbe per un massone appena uscito da una riunione organizzativa o ad un demoniaco arso dalla voglia di organizzare qualche messa nera! 
Fingendo indifferenza, come un pusher abituale d'atavica esperienza, rasento muri e sfioro pensiline per appropinquarmi nelle vicinanze del totem marrone, simbolo purificatorio e detergente, guardando con fare circospetto tipico di un artificiere scafato che s'avvicini ad un pacco misterioso; il lancio del rifiuto umido (già il nome mi provoca reazioni allergiche) è simile al colpo di lingua sibilante di un cobra combattente con una mangusta ed il successivo allontanamento dalla location, accompagnato da un motivetto fischiato per comprovare normalità, è unito all'accensione di una paglia liberatoria, simile a quella che si spara il neo padre alla notizia della nascita del pargolo. 
Dovrò cercare di guarire da questa mescolanza di umori, da questa fissazione che ritengo subdola e insensata. 
Rimpiango comunque i tempi in cui da piccolo udivo il netturbino suonare la tromba nelle scale (non la tromba delle scale!) annunciando la raccolta dei rifiuti, che al tempo erano quantità esigua al confronto di quella odierna, basti pensare a tutta la plastica e polistirolo odierna, avvolgente esili fette di formaggio o microscopiche fette di prosciutto cotto (cosa questa fantastica visto che molte volte l'involucro protegge da pericoli esterni prodotti che al loro interno contengono fosfati, coloranti e schifezze varie, nuocenti alla salute, come se s'incartassero mitra e lanciarazzi per evitare che le loro spigolosità feriscano gli arti di militari e non).
Su tutto quanto detto poi, resta il mistero di come vengano gestite le suddette raccolte differenziate. Ma questo è un altro discorso.

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