lunedì 28 marzo 2016

Scoperta


Da quando ho conosciuto Marcel Proust (e non vi dico quanto si sia incazzato al conoscere l'età in cui, da vero ed indomito sprovveduto, ho aperto il suo libro) tutto è cambiato in aere, spirito e cabeza.
Come alla partenza di una scalata sul K2, dove appena il terreno iniziante ad inclinarsi, lascia presagire il mazzo che dovrai farti per raggiungere gli 8mila, così la prima pagina del Libro ed il suo inizio "Per molto tempo mi sono coricato presto la sera" ti fanno emozionar non tanto per le parole, quanto per lo scoccar dell'inebrio per qualcosa di speciale, mastodontico, inconcepibile, dovendo vivere in una specie di luna park sempre funzionante.
Ti verrebbe da domandarti ove troverai il tempo per leggere le migliaia di pagine di Marcel, se non fosse che già dal titolo t'agghiaccia la risposta (non trovo tempo ma lo sto perdendo a cateratte) ed avvinghiato allo scorrere lento, profondo, fantasticamente preciso, puntuale, meravigliante della narrazione, scocca l'esigenza di sparigliare tutto, di concentrare la labile attenzione per fagocitar pagine di un'eccitazione inusuale non prevedibile, in quanto apparentemente il romanzo è di una lentezza cosmica, come se Proust avesse incontrato Sassi e Vitaletti e con loro sperimentato il primo libro moviola della storia. Solo apparenza, al solito distogliente dal nocciolo.
Il riemergere di sentimenti simili a quelli minuziosamente descritti, shoccano oltremodo, mettendoti nella situazione anomala che ti porta a dubitare di essere solo in stanza e ahimè trasparente.

E l'uso delle virgole, un magistrale ed artistico spargimento di punteggiatura che sobbalza e rende sveglio ogni sinapsi in cabina di regia, richiudendo Morfeo in qualche scantinato occluso. Come possa un uomo sviscerar ed analizzar ogni azione metodica, con particolari tanto infinitesimali da sopire voglie pennicose per la meraviglia, descrivendo l'ambiente al punto di dubitar di essere ancora in casa propria, tanto la perfezione tende a trascinarti nella Francia di allora, resta un mistero e la conferma che tra un alveare di tomi come quelli di Marcel e una Pietà michelangiolesca, non vi siano in fondo differenze sostanziali: il marmo che parla attizzando lo spirito e lo scritto che scolpisce lo stesso, modellandolo ad arte.    

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