Putin temeva Aleksej più di ogni altro e si è sbarazzato di lui come di mia madre
Ora i Paesi occidentali protesteranno e chiederanno un’inchiesta seria Poi si placheranno E resteranno in pochi a cercare la verità
DI VERA POLITKOVSKAJA
In Russia si è verificato l’ennesimo omicidio di matrice politica. Aleksej Navalny, il 47enne prigioniero politico più famoso di Russia, è stato ucciso. Lo scorso 16 febbraio, dopo una passeggiata, si è sentito male e, dopo aver perso coscienza, nel giro di poche ore è morto. Questa almeno è la versione ufficiale dell’accaduto. Quello che è realmente successo là, negli spazi sterminati del nord artico della Russia, molto probabilmente non lo sapremo mai.
Aleksej Navalny rimane a oggi, fuori dalla Russia, il più famoso oppositore politico ad aver pubblicamente e duramente preso posizione contro Putin. Quando ancora era libero si era occupato di inchieste di corruzione, che lo avevano reso a dir poco inviso a molti funzionari e politici di cui aveva svelato molti aspetti della loro attività criminale.
Sulla sua vita, ne sono sicura, scriveranno molti libri, gireranno film e a lui saranno dedicate vie e strade.
Guardando tuttavia l’accaduto in maniera sobria, dobbiamo ammettere che il suo nome non farà altro che rimpolpare la lista di chi ha tentato di lottare contro il regime putiniano… ma ha perso.
Gli ultimi suoi tre anni di vita Aleksej li aveva trascorsi in un istituto penitenziario, dove il sistema russo di esecuzione della pena si è lentamente sbarazzato di lui. In maniera sottile, ma “nel rispetto delle leggi”. Ventisette sono le volte in cui Navalny era stato trasferito in una cella di isolamento, nel cosiddetto carcere nel carcere. Una delle punizioni più severe per i detenuti in Russia. Chi c’è stato, così così come lo stesso corpo di polizia penitenziaria, riconosce che la cella d’isolamento costituisce una modalità di tortura. Come finire in un sacco di cemento armato, due metri per due, dove fa freddo e umido, cresce la muffa e la ventilazione è carente. Una realtà in cui il detenuto è completamente tagliato fuori dal mondo esterno. È vietato portare con sé effetti personali, incontrare persone e farsi mandare qualcosa da fuori. Il malcapitato trascorre la maggior parte del tempo seduto sul pavimento gelido.
Questa tortura, che figura come una delle modalità penitenziarie previste per i carcerati particolari, anche in un sistema cannibalistico come quello russo, ha dei limiti. Il medico del carcere, ad esempio, deve confermare che il detenuto è idoneo a essere soggetto alla cella di isolamento; esistono inoltre limiti di tempo massimo da trascorrere in quelle terribili condizioni, ossiaquindici giorni. Ma le guardie carcerarie sono sempre autorizzate a considerare la condotta dei detenuti come violazione del codice di condotta e a mandarli nuovamente in isolamento. Esattamente come è successo con Navalny.
Dall’inizio di agosto 2022 l’oppositore russo ha trascorso in totale trecento giorni in queste condizioni. Navalny era, fra le altre cose, reo di: aver dimenticato di allacciare tutti i bottoni dei suoi vestiti, aver citato le decisioni della Corte europea per i diritti dell’uomo, essersi rifiutato di lavare lo steccato del carcere, aver tentennato troppo a lungo nel mettere le mani dietro la schiena per essere ammanettato. La lista sarebbe ancora lunga.
Il mondo e - come amano definirlo in Russia l’“Occidente collettivo”, come al solito, fagociteranno questo cannibalismo. È già lunga la lista di personaggi pubblici e politici che hanno preso posizione, dicendosi “preoccupati”, alcuni addirittura “inorriditi” per l’accaduto. Chiedono a gran voce alle autorità russe di svolgere un’inchiesta affidabile circa le circostanze della morte di Navalny. Molto presto, come di solito avviene in queste fattispecie, qualcuno dei funzionari di alto rango o di chi sta nei ministeri del potere “si assumerà la responsabilità dell’inchiesta” e prometterà che la verità verrà a galla.
Non è la prima volta che sento parole simili. Dopo la morte di mia madre, Anna Politkovksaja, dopo la morte di Boris Nemtsov, lo scenariofu analogo. Anche adesso posso affermare con certezza che le dichiarazioni di queste ore non significano e soprattutto non garantiscono nulla. Per i politici europei e americani, l’omicidio di Navalny è solo l’ennesimo pretesto per prendere la parola e ancora una volta “dare uno schiaffo” alla Russia di Putin. Ma la cosa non sorprende più nessuno. La realtà dei fatti è che il dialogo e le dichiarazioni non potranno in alcun modo dare un contributo ad acclarare cosa sia realmente accaduto. È tutto nelle mani della famiglia e dei compagni di lotta di Navalny, la maggioranza dei quali, per loro fortuna, non si trova in Russia. Solo loro saranno eventualmente in grado di stabilire almeno la verità.
L’oppositore russo è stato in qualche modo il prigioniero personale di Vladimir Putin che lo temeva talmente da non osare pronunciare il suo nome ad alta voce, offrendo così il fianco ai giornalisti che glielo hanno fatto notare a più riprese. Navalny, dal canto suo, trovandosi già dietro le sbarre, non ha mai avuto paura a definire il capo di stato russo un omicida, un farabutto e un ladro. Con il sorriso sarcastico sul suo volto, in più di un’occasione ha schernito il presidente russo e tutto il sistema da lui costruito. Le numerose cause penali intentate ai suoi danni non facevano altro che dargli il pretesto per farsi una risata. La sua uccisione nelle camere di tortura, a prescindere dalla reale causa del suo decesso, però differisce dalla modalità con cui erano stati liquidati altri oppositori nella storia recente della Russia: le persone che si sono occupate di eliminare Navalny sono ufficialmente “a servizio dello stato” nei tribunali, nelle procure, nelle carceri e nelle case circondariali. Si tratta di persone che non per forza occupano posizioni di rilievo. Ma tutte loro, in un modo o nell’altro, sono complici e, qualora il caso relativo all’omicidio di Navalny dovesse arrivare in tribunale, sul banco degli imputati ci sarebbero decine di persone.
Al netto di tutto ciò, il corpo dell’oppositore russo si trova ancora nelle mani di chi l’ha ucciso, dal momento che i parenti non ne sanno nulla. Allo stato delle cose, oggi è impossibile stabilire con chiarezza cosa sia accaduto. Il Comitato investigativo della Russia, che si sta occupando delle opportune verifiche circa la morte, può decidere di non consegnare la salma alla famiglia fino a trenta giorni dalla data del decesso.
Ma comunque, anche quando i familiari di Aleksej potranno avere il corpo del loro caro, sarà molto complicato trovare la verità, così come sarà un’impresa poter trasportare la salma al di fuori della Federazione russa e poter contare su una perizia medica affidabile e indipendente.
Ad ogni modo, la morte di Navalny ha fatto molta impressione alla popolazione russa. Ha impressionato anche chi non lo aveva mai sostenuto: iniziative spontanee per commemorarlo ci sono state in tutto il Paese. La gente porta fiori, fa fotografie e accende candele per onorare la sua memoria. Ma anche in questi luoghi di commemorazione sta intervenendo la polizia che, al momento in cui scrivo, ha già arrestato più di trecento persone (e sono sicura che il numero aumenterà).
Da questo punto di vista non ci sono dubbi: le cose si svolgeranno come si erano svolte fino all’esecuzione di Navalny. Con l’aiuto delle forze dell’ordine, degli arresti e dei processi, metteranno il bavaglio a tutti quelli che oseranno pronunciare la verità sulla fine dell’oppositore. I politici occidentali si indigneranno ancora un po’, esprimeranno il loro orrore rispetto a quanto accade in Russia, salvo poi tornare subito a occuparsi delle loro vicende quotidiane. Succederà così perché non possono fare nulla, non hanno mai avuto e non hanno neanche ora delle reali possibilità per fare leva sulla situazione in modo da cambiarla.
Qualcuno pensa che possano essere adottate ulteriori sanzioni? È ridicolo. Ai vertici del potere russo non farebbero né caldo né freddo.
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