La “diversità” grillina ha retto pochi anni È la disfatta meritata della presunzione
di Michele Serra
Per una (modesta) vicenda di fondi pubblicitari non chiari destinati al suo blog, Beppe Grillo è sotto inchiesta. Il nome stesso del reato, “traffico di influenze illecite”, lascia intendere la zona d’ombra sulla quale la Procura di Milano indaga. Si tratta di quel vischioso viluppo di rapporti tra economia, politica e media che oscilla tra il lobbismo, il vassallaggio, la compravendita di favori e simpatie. Stabilire dove è il reato, dove la mollezza etica, non è mai facile.
Per utile paradosso, lo strale destinato a Grillo rimbalza anche da un’altra inchiesta, quella della Procura di Firenze sulla fondazione Open di Matteo Renzi. Questo per dire che non conviene mai imputare agli altri ciò che potrebbe essere imputato a te stesso. E anche per dire che finalmente, con generale sollievo (forse anche dei grillini), la storia del grillismo approda al suo esito naturale, che è la politica come bene comune e al tempo stesso come male comune. In una parola sola: come problema comune.
Quando si va alla guerra, è difficile conservarsi innocenti. Troverete in altra parte del giornale ampio resoconto tecnico-giudiziario dell’accaduto. Qui posso solo riferire ciò che mi ha maggiormente colpito nella vicenda. Il finanziatore illecito, o comunque non trasparente, è un armatore, il signor Onorato, boss della Moby, compagnia di navigazione in fallimento. Degli undici milioni, diciamo così, di elargizioni amichevoli, solamente due erano destinati alla politica.
Oltre che al blog di Grillo, i soldi sarebbero andati alla Casaleggio Associati, alla fondazione di Matteo Renzi e alla fondazione di Giovanni Toti, più qualche briciola al Pd e a Fratelli d’Italia. Gli altri nove milioni erano destinati ad attività di rappresentanza, appartamenti costosi e auto di lusso: il signor Moby avrebbe dunque speso in Aston Martin e in Maserati molto di più di quanto stanziato per ingraziarsi il ceto politico, compreso il capo carismatico del partito di maggioranza della diciottesima legislatura.
Tangentopoli, almeno quantitativamente, fu davvero un’altra cosa. Questo la dice lunga sulla perdita di peso, e di potere, della politica. Con un paio di convention aziendali, ai tempi d’oro, Grillo portava a casa gli stessi quattrini che il signor Moby oggi avrebbe elargito al suo blog, secondo l’accusa, in cambio di una buona parola presso i suoi gruppi parlamentari (sarebbe questo il “traffico di influenze illecite”).
È molto dubbio che l’interessamento parlamentare dei cinquestelle avrebbe portato giovamento alla causa della navigazione marittima. Non è in dubbio, invece, la perdita di indipendenza, di prestigio, in fin dei conti di potere, che il passaggio di Grillo dallo show business alla politica gli ha inferto, fino a trascinarlo nella fangosa routine giudiziaria, come un qualunque sottosegretario o assessore, di quelli che pigliava per i fondelli ai tempi d’oro.
L’aggravante è che proprio sulla intemerata battaglia alla corruzione, al malaffare, alla connivenza, Beppe Grillo aveva fatto leva per avviare la sua clamorosa parabola politica.
Due erano i cavalli di battaglia del suo movimento, entrambi difficilmente criticabili: la lotta contro la corruzione (onestà! onestà!) e la virtuosa selezione “dal basso” di una nuova classe dirigente immacolata e di vigorosi ideali. Molti di costoro sono andati a ingrossare le fila del gruppo misto, enorme agglomerato di fuorusciti di tutti i partiti, e sono tra i maggiori indiziati nella campagna acquisti di Berlusconi – speriamo in via di fallimento – per il Quirinale.
Di altri, rimasti nel folto esercito grillino in Parlamento, è lecito sospettare una lealtà molto labile alle indicazioni dei vertici: potrebbe prevalere, dicono le cronache, il bisogno di conservare il seggio, chiamato con spregio “poltrona” quando il potere era solo un nemico da abbattere, e oggi sudato posto di lavoro per carneadi di ogni regione e ceto sociale.
Si chiude un cerchio, dunque: ed è bastata una sola legislatura per chiuderlo. La “diversità” grillina ha retto pochi anni, a differenza dei decenni occorsi, per auto-sopprimersi, alla “diversità” comunista, più sostanziosa perché più sudata, studiata, istruita.
È puro cinismo compiacersi del fallimento dei tentativi di moralizzazione. Ma è pura stupidità non leggere, nel disfacimento strutturale del grillismo, la meritata sconfitta dell’improvvisazione e della presunzione. Che alla politica non fanno meno danni dell’immoralità.
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