venerdì 16 ottobre 2020

Due opinioni per un unto

 Già l'unto! Anche questa definizione può avere diversi significati: il prescelto, lo svincolante dai propri impegni assunti, il ruffiano. 

Ma questo blog lascia al lettore la scelta, la possibilità di farsi un'opinione. Ed ecco allora due articoli di oggi, uno di Repubblica cà - cà e l'altro del Fatto Quotidiano. 

A voi la scelta! 

Da Repubblica 

Calenda, il secchione che studia da sindaco “A Roma deve tornare un po’ di buongoverno”

di Francesco Merlo

Sembrano la pupa e il secchione, Virginia Raggi e Carlo Calenda. Ma almeno una cosa in comune ce l’hanno. Sono entrambi candidati per “auto incoronazione”, come Napoleone che prese la corona di ferro e se la mise sulla testa. Di sicuro sono entrambi in opposizione al mondo che li esprime: “dentro e contro” il populismo grillino lei, “dentro e contro” il centrosinistra lui. Tutto il resto li divide. La sindaca la conosciamo: è la maledizione dell’inadeguatezza, bella e onesta come Ofelia. E invece lui, il famoso Calenda, come candidato sindaco non lo conosce ancora nessuno. Sappiamo solo che, dopo gli ultimi tre sindaci che sembrano uno solo, promette la competenza. E mi corregge: «Un solo sindaco con tre nomi? A me sembra invece che, per tre sindacature, Roma non abbia avuto nessun sindaco».
Dunque ripartendo dal 2008 di Alemanno, il secchione dice che da sindaco vorrebbe cedere soldi e potere ai 15 Municipi, una specie di federazione di quartieri autonomi. «Le famose periferie, trattate come terre di frontiera, come agglomerati di vite marginali, sono in realtà i quartieri dove vive il 70 per cento dei romani. E sono disomogenee. Non è possibile che la maggioranza degli abitanti di Roma siano invisibili ». Calenda conosce anche la Roma dei Casamonica, «una Las Vegas senza alberghi né casinò da San Giovanni sino a Ostia», più che quartieri sono staterelli criminali senza un centro urbano che hanno sostituito le vecchie periferie delle incisioni di Renzo Vespignani con i suoi gasometri abbandonati, e delle baracche dei ragazzi di vita di Pasolini. «Ridare il territorio ai suoi municipi significa ridarlo ai romani per bene». Calenda pensa anche di stimolare l’apertura di cantieri sfidando l’ironia di Petrolini che diceva che «a Roma i cantieri sono i posti in cui si va a cantare».

Considera la sua Roma il quartiere africano «dove sono nato e cresciuto sino a 14 anni e dove si è formato il mio carattere, segnato dal metodo Montessori. Le elementari alla Santa Maria Goretti, le medie in una sperimentale a villa Ada». Non gli dico che la mitica signorina Pini, allieva diretta di Maria Montessori e direttrice per decenni alla Santa Maria Goretti, dopo avere tessuto le lodi di Paolo Gentiloni fece una smorfia al nome di Calenda. Cosa deve al metodo Montessori? «La fiducia in me stesso ». Il difetto? «La mancanza di disciplina». Anche l’instabilità? «Ma io non sono instabile. Come può essere instabile un monogamo di 47 anni che vive da trent’anni con la stessa donna? Al contrario, io sono testardo, un vero capoccione». 

E l’aggressività sul Twitter? «Sono il solo che risponde direttamente sul twitter. E se qualcuno twitta una scemenza, io lo dico». Perciò litiga con tutti, soprattutto con i suoi amici. E litiga pure con i giornalisti. «Anche ai giornalisti capita di scrivere sul Twitter le scemenze che magari non scrivono sui loro giornali». Il Twitter «è la finestra sul cortile». Un altro quartiere? «Un altro quartiere».

L’Africano, a Roma, è il quartiere dove le strade si chiamano come le ex colonie, viale Somalia, viale Etiopia, viale Eritrea, viale Libia. Attratti dal nome che accarezza la nostalgia, proprio qui alla fine degli anni 60 si sono rifugiate circa tremila famiglie ebree libiche perseguitate da Gheddafi. Hanno edificato 4 sinagoghe e hanno ricostruito la Tripoli ebraica. «È un quartiere molto identitario». È un quartiere residenziale in decadenza, ci sono ancora le portinerie, ma quasi sempre vuote. E c’è un immaginario nostalgico-mitologico che si annette per esempio il Piper di via Tagliamento e soprattutto Piazza Mincio, per via di quella fontana dove fecero il bagno i Beatles. «Per me quel quartiere sono i piccoli negozi, le drogherie per il panino, il pallone a villa Ada, la pasticceria Cavalletti». Quella della millefoglie filologica? «Pensi che stava per chiudere. E allora ci siamo mobilitati tutti». 

A Roma Cavalletti è venerato più che a Napoli Stanislao che inventò il babà al rhum. «Anche il piccolo parco segnava il quartiere. Allora era pieno di drogati con l’ago nel braccio…». Lei è antiproibizionista? «Sì. Sono per la legalizzazione della droghe leggere perché sottrarrebbe 7 miliardi al crimine organizzato. Ma non sono per lo sballo». Si è mai drogato? «Droga pesante, mai. Qualche canna quando ero al liceo Mamiani». Fuma? «Sì. Malboro light». Beve? «No. Non sono astemio, ma non bevo».
Calenda sa che la droga a Roma è una brutta bestia, che giovanissimi pusher portano cocaina ed eroina sino a casa, durante le feste da sballo. «Ho qualche idea. Penso che un sindaco debba fare qualcosa, ma è troppo presto per dirlo». La droga è legata alla sicurezza, al decoro urbano: «Io non sono buonista. Il decoro a Roma significa per esempio non sorridere di compiacimento per l’inventiva del ristoratore sotto casa mia che ha disegnato le strisce pedonali davanti alla sua trattoria». È la città che stimola e premia la fantasia dell’illegalità o la fantasia è sempre un po’ illegale? «Decoro significa non solo raccogliere la monnezza, organizzare e obbligare alla raccolta differenziata, impiantare il termovalorizzatore, ma anche ripulire i muri che sono già monnezza: una città pulita produce cittadini puliti. I graffiti non sono fantasia. Lo erano ai primi del Novecento. Li hanno eliminati in tutte le capitali d’Europa, tranne a Roma dove usano persino l’acido. A Roma gli imbrattatori si spacciano per artisti e restano impuniti».

Ha mai imbrattato un muro? «No, mai. Ho imbrattato le pizze quando, nei miei due anni di giovane comunista , facevo il pizzaiolo alla festa dell’Unità. Alle elezioni avevamo perso il 4 per cento e allora sulle pizze scrivevo con la mozzarella “- 4 per cento”». Calenda racconta come un’epica il suo anno terribile, quando al Mamiani si faceva le canne e fu pure bocciato: «Ero scapestrato o, se preferisce, ero nell’età della sperimentazione». Dunque il sedicenne di prima liceo sperimentò l’amore di una signora che ne aveva 26 e nacque Tay, che in vietnamita significa popolo. «Andai a vivere con loro, in casa di lei». Due anni dopo «mi innamorai di mia moglie e torna i da mia madre, ma ogni sera andavo a dare la buona notte a Tay».
La mamma di Calenda, e questo si sa già, è Cristina Comencini. Il nonno era Luigi Comencini, il regista di Tutti a casa . Il padre di Calenda ha lavorato nei centri studi della Banca di Roma e poi della San Paolo. E collaborava pure con il nostro “Affari e Finanza” al tempo della coppia Scalfari-Turani ( Razza padrona è il loro libro). Ora papà Calenda, in pensione, fa lo scrittore e vive nel Salento, anche lui legatissimo al figlio: «Ha perso tutti i soldi, vittima del Madoff dei Parioli che nel 2016 riuscì a truffare 300 milioni di euro a migliaia di romani». «Papà e mamma erano molto di sinistra, militanti di Lotta continua, poi iscritti al Pci» . Religione? «Nonno e mamma valdesi, la famiglia di mio padre era invece repubblicana e dunque laica, una famiglia di diplomatici, ma di quelli sorridenti. Tanto che per un po’ pensai di fare l’ambasciatore. Un mestiere tristissimo ». È stato battezzato? «Sì, perché la moglie di nonno Luigi era cattolica. Feci anche la prima comunione. E ho battezzato i miei figli. A quello grande, Giulio, che è il più a sinistra della famiglia e a 14 anni dice di non essere - parola grossa - “credente”, ho trasmesso la passione per lo studio del Cristianesimo. Giulio ha avuto il telefonino come premio di lettura, anche se le letture lo hanno fatto diventare comunista ». I ragazzi, ci sono pure Giacomo, 11 anni, e Lidia, 7. frequentano la scuola francese, lo Chateaubriand.

Per chi ha votato la prima volta? «Sempre Pd. C’erano Berlusconi e Prodi. L’ho votato e mi piace ancora, anche perché è un uomo di industria». Come il suo amico Montezemolo? «Non so se amico è la parola giusta. Io gli do ancora del lei. Di sicuro ho lavorato bene con lui. È molto bravo, ma è cattivissimo. Nel senso che si arrabbia molto ». Si è sposato in chiesa? «Si. Mia moglie è cattolica. Abbiamo fatto un matrimonio di tradizione, a San Lorenzo in Lucina, con ricevimento al Circolo della Caccia». Testimoni? «I due amici di sempre, Bonifacio Roascio e Andrea Selvaggi, un banchiere e un assicuratore». Come si vede, il romanzo di formazione di Calenda, di cui ancora non sappiamo l’esito, sembra “l’infanzia di un capo” ma in versione democratica, la nascita non del dittatore ma del leader, nella borghesia romana delle professioni intellettuali, niente palazzinari e niente marchesi di baldacchino, salotti eclettici di confronto e disincanto che riflettono su se stessi. Se non ci fosse il cinema, sembrerebbe un pezzo di Milano. Si sa che Comencini- nonno e Comencini-mamma vollero Carlo a 11 anni nella parte di Enrico Bottini che nel Cuore interpreta se stesso, il bimbo di buona famiglia appunto. E così è rimasto Carlo, una speranza di buona famiglia sinora, maestro nell’arte della conversazione, napoleonico ma in versione Rascel, che “diventato” romano scrisse Arrivederci Roma , ma non fu mai romanesco, imperioso ma garbato. E Calenda è risolto con se stesso, non fa il giovanilista, è in pace con il corpo rotondo, non ha l’ossessione della pancia che tormenta Renzi.
«La nascita di Tay mi ha salvato la vita». Oggi è una Calenda di 31 anni «ed è più grande di mio fratello». Fotografa precaria a Parigi «è stata ingaggiata dalla candidata dei verdi alle elezioni presidenziali». Papà e mamma lo aiutarono a mantenere la bambina «ma per il resto mi misi a lavorare, promotore finanziario: vendevo polizze e fondi di investimento porta a porta. E non guadagnavo male». E il liceo? «Ho recuperato l’ anno perduto in una scuola- esamificio che si chiamava Centro Studi Flaminio e poi ho completato al Manieri Copernico. Quindi mi sono iscritto a Giurisprudenza alla Sapienza e mi sono laureato con una tesi di Diritto internazionale. Il relatore era Andrea Giardina. E il voto non ricordo se fosse 105 o 107. Ricordo che non era 110».
Sarà una campagna elettorale lunghissima, «lo stipendio di sindaco è meno della metà di quello dell’ europarlamentare, e fare il sindaco è un sport estremo visto i rischi giudiziari che si corrono». Calenda aspira al voto dei moderati, somiglia all’uomo del fare berlusconiano e non prenderà mai scorciatoie ideologiche: «È ovvio che sono antifascista, ma non sopporto la mania di dare del fascista a chiunque sia di destra. E neppure di dare del razzista a chiunque vorrebbe limitare l’accoglienza agli immigrati. Anche perché a furia di dir loro “fascista!” e “razzista!” quelli lo diventano”. Infine Calenda non sopporta lo sciocchezzaio saputo che dà al romano la colpa del degrado di Roma: «È un pericoloso pregiudizio questo del bruttissimo cittadino della città bellissima. Non esiste l’antropologia del maleducato con pochi pensieri e solo una decina di parole per esprimersi: anvedi, mortacci tua, le piotte, i sacchi, er capoccione…». E se sindaco diventasse Massimo Giletti? «Io propongo un ritorno al buon governo. Se invece vogliono divertirsi e restare con le metropolitane rotte, facciano pure».

Dal Fatto Quotidiano 

Tra Ue, Mise e interessi: l’uomo del fare (nulla)

di Giacomo Salvini

L’annuncio arriverà a breve, forse già nel fine settimana. E la strategia è chiara: correre a sindaco di Roma presentandosi come “l’uomo del fare” come l’ha definito pochi giorni fa Il Messaggero, il giornale di Caltagirone che, dopo aver fatto la guerra a Virginia Raggi, ormai tifa apertamente per la sua discesa in campo nella Capitale. Insomma Carlo Calenda si presenterà nella veste dell’imprenditore di successo (“Ha lavorato in Ferrari” si vantano i suoi) e del politico che si è sporcato le mani nelle istituzioni. Un mix tra Adriano Olivetti e Charles de Gaulle de’ noantri. Peccato che la realtà sia ben diversa.

Da quando ha deciso di lasciare la poltrona di dg dell’Interporto Campano per abbracciare la politica “come servizio”, Calenda ha cambiato più partiti che mutande accumulando una serie infinita di poltrone. Coordinatore della lista di Montezemolo “Italia Futura”, candidato (non eletto) con Scelta Civica di Mario Monti, poi renziano ma non iscritto al Pd, quindi anti-renziano iscritto al Pd, infine candidato (eletto) con il Pd al Parlamento Europeo prima di uscire dal Pd per fondare il suo partitino “Azione”. Sicuramente avrà cambiato molte volte idea – “Per 30 anni ho detto cazzate sul liberismo” ha ammesso – ma certo, le poltrone sono state un bello stimolo: sottosegretario allo Sviluppo economico del governo Letta, sottosegretario del governo Renzi che a sua volta lo nomina ambasciatore dell’Italia in Ue e poi ministro con Renzi e Gentiloni. Dopo le elezioni del 2018, in cui il Pd renziano crolla, Calenda sta un anno senza poltrona prima di essere eletto come capolista del Pd alle Europee del 2019. Eppure, probabilmente scordando il suo passato, lui continua ad accusare gli altri di “trasformismo”: “Conte è un trasformista privo di valori. Potrebbe governare con chiunque pur di governare” twittava il 6 ottobre. Chissà cosa avrebbe pensato di se stesso quando saltava da una poltrona all’altra.

Un altro mantra del Calenda “uomo del fare” è quello di dileggiare chiunque non la pensi come lui arrogandosi il diritto di mandare gli altri “a lavorare”. “Vai a lavorare Anna” twittava Calenda contro la viceministra alla Scuola Ascani il 10 giugno scorso, mentre il 20 agosto se la prendeva con il commissario Domenico Arcuri che doveva “andare a lavorare, possibilmente in silenzio”. Peccato che lui a lavorare ci vada ben poco. Secondo la piattaforma Vote Watch Europe che analizza il lavoro del Parlamento europeo, Calenda è il quartultimo europarlamentare italiano per presenze nei voti chiave con l’86%: è 72esimo su 75 e peggio di lui fanno solo Aldo Patriciello, Franco Roberto e Silvio Berlusconi. Considerando tutta l’Assemblea Calenda è messo ancora peggio: è 661esimo su 701 europarlamentari. Non proprio uno stakanovista.

E anche quando lavora, i risultati di Calenda sono tutt’altro che positivi. A Bruxelles diversi colleghi hanno storto la bocca per un ipotetico conflitto d’interessi: Calenda è relatore del Rapporto sulla Politica Industriale dell’Ue ma allo stesso tempo “Azione” è finanziata dai più grandi gruppi industriali italiani: gli Arvedi che controllano uno dei più importanti poli siderurgici ma anche Gianfelice Rocca di Techint, Luca Garavoglia di Campari e Almberto Bombassei di Brembo. Anche quando si è occupato di crisi industriali non è andata benissimo: nei due anni in cui è stato ministro, i tavoli al Mise sono aumentati da 148 a 165 a fine 2017 prima di tornare a 144 nel 2018, quando aveva già lasciato il ministero. Sua è l’eredità della crisi di Embraco (data per risolta) mentre dalla sua scrivania sono passate Mercatone Uno (fallita con 1.600 dipendenti cacciati), Alcoa (in vertenza da 11 anni), Alitalia (sull’orlo del fallimento) e l’Ilva di Taranto: Calenda ha aperto la strada ad Arcelor Mittal che non ha mai rispettato gli impegni.

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