giovedì 15 maggio 2014

Quel che eravamo


Spiace essere considerati così dal partito che in teoria dovrebbe occuparsi dei ceti deboli, ma non per questo rimbambiti.

La vicenda Genovese ha in sè i connotati della classica presa per il culo, della reputazione che l'elettorato ha nel Partito Democratico. 
Sono mondine dell'inizio del secolo le donne elettrici, agricoltori del basso Po i maschi che voteranno alle Europee, con tutto il rispetto per quei lavoratori e lavoratrici che si spaccarono la schiena per portare a casa la pagnotta.

Mister ventimila preferenze, accusato di truffa e peculato nell'ambito di un'inchiesta sui finanziamenti alla formazione professionale, non sarà giudicato dall'Aula di Montecitorio prima delle elezioni, bensì dopo. 
Perché chiederne l'arresto prima presuppone una perdita di voti, come se Tv e giornali non esistessero, come se fossimo tutti compari del Fiorentino, ossia Grulli. 
Come se non avessimo già compreso da lustri che il consociativismo, la pratica occulta degli accordi sottobanco, la cura degli affari segreti, la distribuzione delle parcelle omogenea non sia di casa anche nel partito discendente da quello guidato da Enrico che dell'onestà e della correttezza faceva il proprio cameo più bello e fonte di orgoglio per tutti.
E' meglio non decidere, non sbattere in galera uno che lucrava sui finanziamenti, sui fondi prima di una tornata elettorale, perché il popolo bue potrebbe scappare dalle stalle! 
E' questo il ragionamento dei soloni simil sinistrorsi?
Sorge però un dubbio: non è che oltre a quanto sopra vi sia anche un'insano terrore tra i compagni di partito che Genovese una volta avviato alla gattabuia, decida di parlare? 
Non è che si corra il rischio di generare un'enorme cloaca? 
Dubbi e incertezze, che non mi sfiorano minimamente.
Tanto non li voto!

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