DEVIAZIONI
Gaza, i molti buchi del piano Trump
DI
LUCIO CARACCIOLO
Il piano Trump è come il formaggio svizzero: pieno di buchi
che ognuno cercherà di tappare o ignorare a modo suo.
Nell'infinita e forse infinibile contesa israelo-palestinese è
sempre stato così. Perché né gli israeliani né i palestinesi
rinunciano all'idea che lo spazio conteso fra Mediterraneo e
Giordano sia casa loro. Tutto. Per entrambi qualsiasi
concessione è provvisoria.
La catastrofe in corso è l'effetto imprevisto e indesiderato della
rinuncia di Israele a considerare il fattore umano
nell'equazione di Gaza. La ferocia esplosa il 7 ottobre, che ha
sorpreso lo stesso Hamas, era anche figlia di decenni di
vessazioni subite dai gaziani costretti in gabbia quali "bestie
umane". Molto di più: esprimeva la rivolta delle masse
palestinesi che non ragionano secondo i parametri della
diplomazia internazionale ma della propria storia e dei propri
sentimenti.
Sull'altro fronte, altro che guerra di Netanyahu. Fino agli
ultimi mesi, quando l'evidenza del genocidio è parsa
innegabile anche a buona parte degli ebrei in patria e in
diaspora, la grande maggioranza degli ebrei di Israele ha
appoggiato la campagna militare voluta da Bibi anche contro
l'opinione di capi dell'Idf e del Mossad. Per i quali una
vendetta non è una strategia e può vendicarsi di chi l'azzarda.
Decine di migliaia di terroristi, tra cui donne, vecchi e
bambini, sono stati uccisi dall'Idf a Gaza, mentre i coloni,
protetti dai militari che dovrebbero controllarli, ne hanno
profittato per accelerare l'espansione degli insediamenti
cisgiordani. Caso mai qualcuno ancora pensasse a uno Stato
palestinese.
Un sobrio bilancio evidenzia che a oggi Israele ha perso. Ha
voluto perdersi. Perché ha accettato la guerra di Hamas, così
elevato a marchio globale. Nel sentiero stretto che divide il
genocidio dal suicidio, ovvero la guerra esterna contro i civili a
Gaza dalla guerra civile fra tribù e poteri israeliani. Non si
torna al pre-7 ottobre. La questione palestinese è diventata
mondiale in odio a Israele. Trump lo ha detto a Netanyahu:
«Bibi, Israele non può combattere il mondo». E il premier
israeliano: «Sì, lo capisco». Non ci scommetteremmo.
Tre punti sembrano acquisiti. Primo. Hamas, che Bibi
prometteva di liquidare sapendo di non poterlo fare, esiste e
resiste a Gaza. Né intende disarmare. Perfino Trump ha
invitato gli orfani di Sinwar a fungere da provvisori poliziotti
nella Striscia. Prossimamente affiancati dai turchi, protettori
di Hamas e "alleati" degli americani (ovvero di sé stessi), che
dovrebbero avere il privilegio di muoversi nei tunnel tuttora in
mano ai miliziani islamisti.
Secondo. Israele ha seriamente indebolito "l'asse della
resistenza" gestito da Teheran per ritrovarsi alle porte di casa
un avversario ben più potente. Altro che il "caro nemico"
persiano. I turchi sono a distanza di cannone dalle
avanguardie israeliane penetrate in Siria. Dalla moschea
damascena degli Omayyadi a Damasco i più disinibiti fra gli
artefici del nuovo impero turco guardano alla gerosolimitana
al-Aqsa (parola di Bilal Erdogan, figlio del reis).
Terzo e decisivo. Israele sta cominciando a pagare il prezzo
dell'errore compiuto elevando Hamas a minaccia strategica.
Contro ogni logica, Netanyahu ha imposto a sé stesso e alle
sue Forze armate di rispondere al 7 ottobre come se fosse un
super-Kippur, l'ultima volta che Israele ha davvero rischiato la
pelle. Quasi Sinwar potesse conquistare lui al-Aqsa. Quindi
mano libera per trucidare tutti i gaziani che capitino a tiro.
Così non solo ha compromesso la sua reputazione
(sopportabile), ma il vitale sostegno americano
(insopportabile). E lo sta pagando caro.
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