Quando Masianello entra nella City
di Michele Serra
Da quanto se ne capisce, non si direbbe che la politica economica di Meloni si discosti dal classico tran tran al quale ogni governo è più o meno costretto: cercare di tenere sotto controllo il deficit pubblico, tirare un pochino di qua o di là una coperta sempre troppo corta, limare il Welfare, elargire qualche briciola a questo o quello spacciandola per una torta intera. Il tutto avendo alle spalle l’innegabile, clamoroso vantaggio del Pnrr, una montagna di miliardi che sono serviti a rammendare parecchie ferite; e l’innegabile svantaggio di quella avventurosa elargizione che fu il 110 per cento.
Al netto di tutto questo, nell’affaticata gestione di una affaticata situazione economica non ci sarebbe niente di particolarmente biasimevole; non fosse che la propaganda populista che ha ingrossato il partito di Meloni fino a portarlo al governo era tutta un vociare contro i poteri forti, le banche sanguisughe, il ricatto delle agenzie di rating, lo Stato strozzino (roba che i grillini, al confronto, parevano funzionari della City). Poi, d’un tratto, ecco che le agenzie di rating diventano preziose alleate, lo Stato un sapiente amministratore, le banche un bene pubblico da tutelare, e le nozze con i fichi secchi (così fan tutti) una prova di sapiente realismo, con il Giorgetti che sa fare due più due né peggio né meglio di precedenti ministri.
Infastidisce questo doppiogioco permanente, demagogico, puerile, non rispettoso di un rapporto adulto tra elettori ed eletti, in virtù del quale quando sei all’opposizione tutto è una vergogna, un furto, un sopruso, e quando sei al governo tutto diventa una onorevole presa d’atto di come stanno le cose. Masaniella in campagna elettorale, prudente contabile al governo, Meloni non solo non fa eccezione, ma è una campionessa indiscussa di quel brutto gioco di ruolo.
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