La religione dellla morte
di Michele Serra
È una fortuna, nonché un elemento di timida speranza: a ogni fanatico corrisponde quasi sempre uno stupido, e questo lascia qualche spazio ai ragionevoli. Sentite questa: Ben Gvir, ministro per la sicurezza nazionale di Israele, uno che deride e minaccia i prigionieri politici in catene (per dire il livello di viltà), ritiene ultimativa, per le sorti del governo Netanyahu, l’approvazione della pena di morte per i terroristi. Dice che servirebbe a scoraggiarli.
Possiamo sorvolare sul fatto che da giovane Ben Gvir venne bollato a sua volta di terrorismo dalle autorità del suo stesso Paese. Fu tra coloro che minacciarono Rabin, poi assassinato da un giovane esaltato, della stessa risma di Ben Gvir: coloro che si sentono autorizzati dalla Bibbia a conquistare e uccidere. Ma a parte questo, come si fa a pensare che la pena di morte (comminata, per giunta, da Israele) possa minimamente incidere sulla mentalità, sulle azioni, sulle strategie di Hamas e più in generale del radicalismo religioso islamista, che da almeno un paio di decenni ha fatto della morte un’arma bellica, un sacrificio “patriottico” e una missione religiosa?
L’attentato suicida e la morte in combattimento sono da molti anni una specie di prova di valore per migliaia di disgraziati, abbagliati dalla promessa di un riscatto ultraterreno dopo una vita sottomessa. Ovvio che Ben Gvir non lo capisca, ma la pena di morte, ai bombardati, ai segregati, agli scacciati, gli fa un baffo. Semmai è una conferma, per loro, che non esiste vita pacifica, vita piena, vita degna, esiste solo la morte. Darla e riceverla, ovviamente sempre nel nome di Dio. Che è il Dio della morte, lo stesso di Ben Gvir e dei suoi nemici. Il loro corpo a corpo travolge persone, case, bambini, vita quotidiana. Se ne fregano, loro, della vita.
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