La vita di tormenti della vedova Pinelli morta senza giustizia “Ma io so cosa successe”
Lui, anarchico, ingiustamente accusato per la strage di piazza Fontana precipitò da una finestra della questura di Milano nel 1969 Lei ha passato i successivi 55 anni a cercare di far emergere la verità
DI STEFANO CAPPELLINI
È morta a 96 anni a Milano Licia Pinelli, la vedova dell‘anarchico Giuseppe Pinelli accusato ingiustamente della strage di Piazza Fontana.
Era nata nel 1928 a Senigallia, in provincia di Ancona, ma si era trasferita quando aveva due anni a Milano dove ha sempre vissuto.
Lascia le due figlie Silvia e Claudia.
Da quasi 60 anni alla ricerca della verità sulla morte di suo marito, Licia Pinelli era stata nominata nel 2015 commendatore al Merito della Repubblica da parte del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
AMilano è circa l’una di notte del 16 dicembre 1969 quando il suono del campanello rimbomba nell’appartamento dove stanno dormendo Licia Pinelli, le sue due figlie e la madre di suo marito, Giuseppe Pinelli detto Pino, ferroviere e militante anarchico del circolo Ponte della Ghisolfa, che manca da casa ormai da più di 72 ore. Sta in Questura. L’hanno fermato, insieme a molti altri, dopo la bomba esplosa il 12 dicembre nella filiale della Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana: 13 morti sul colpo, 17 alla fine, e quasi 90 feriti.
La signora Pinelli si rassetta, va ad aprire e si trova davanti due uomini affannati per essersi fatti quattro piani a piedi, l’ascensore non c’è. Si qualificano come giornalisti e, dopo essersi guardati come per darsi forza, uno dei due le dice: «Sembra che suo marito sia caduto da una finestra». Licia non dà loro il tempo di dire altro. Chiude la porta, quasi sbattendola in faccia a entrambi, e si precipita al telefono. Conosce il numero della Questura. Al marito capita spesso di averci a che fare per via della sua attività politica. La polizia è convinta della matrice anarchica della strage di piazza Fontana. È una falsa pista, anzi si tratta di un vero e proprio depistaggio, ma questo ancora non può saperlo nessuno. La signora chiede del commissario Luigi Calabresi, ci ha parlato altre volte, e il commissario, ovviamente, conosce bene il marito. Glielo passano e gli racconta cosa è appena accaduto. È sconvolta, chiede: «Perché non mi avete detto nulla?». Risponde Calabresi: «Sa, signora, noi abbiamo molto da fare». Licia Pinelli butta giù la cornetta. Non avrà altre informazioni dalla Questura che, anziché informarla, convoca la conferenza stampa nella quale il questore Marcello Guida sostiene che Pinelli si è suicidato («Improvvisamente ha compiuto un balzo felino verso la finestra socchiusa per il caldo»). Movente del presunto suicidio: la vergogna per aver scoperto che gli autori della mattanza sono compagni anarchici come lui. Balle, il suicidio quanto la pista.
Più tardi, sempre quella notte, Licia Pinelli riceve la visita della giornalista Camilla Cederna e di un medico dell’Università Cattolica per il quale aveva lavorato. Viene a sapere che Pino è stato portato in ospedale. La mamma di Pinelli si precipita al Fatebenefratelli. Non le fanno vedere il figlio e capisce presto che c’è poco da sperare. Giuseppe Pinelli detto Pino,41 anni, è morto. Le sue figlie, Silvia e Claudia, hanno 9 e 8 anni. Licia e Pino si erano sposati nel 1955, dopo essersi conosciuti durante un corso di esperanto, la lingua che nei sogni del dopoguerra doveva diventare universale. Appena capisce che non rivedràpiù il figlio, la madre telefona alla nuora e le dice: «Vedrai, da domani daranno a lui la colpa di tutto». La singora Licia risponde: «Va bene, ma ci siamo anche noi e ci dovranno fare i conti». Una frase cui ha tenuto fede per il resto della vita, cioè fino a ieri,quando è morta a Milano all’età di 96 anni.
Il racconto della notte del 1969 che ha incrociato per sempre la storia del Paese e quella della famiglia Pinelli è contenuto in un’intervista che la vedova del ferroviere anarchico rilasciò a nel 2008 a Francesco Barilli e Sergio Sinigaglia, pubblicata poi inLa piuma e la montagna (Manifestolibri). Intervista preceduta e seguita da anni di riserbo e dignità. Nel 1982 aveva scritto insieme a Piero Scaramucci un libro dal titolo bellissimo: Una storia quasi soltanto mia . La vedova Pinelli, che da sposata batteva a macchina le tesi di laurea per arrotondare il magro stipendio del marito, ha cresciuto le figlie e ha chiesto invano verità, senza cedere al rancore. Le rarissime uscite pubbliche non erano segno di incertezza, anzi.
Non ha mai cambiato idea su cosa sia accaduto al marito in stato di fermo presso la Questura di Milano. Queste le sue parole: «L’hanno picchiato, creduto morto e buttato giù. Oppure l’hanno colpito al termine dell’interrogatorio, facendolo poi precipitare incosciente, e questo spiegherebbe anche il suo volo silenzioso, senza neppure un grido, e spiegherebbe pure perché dei cinque agenti solo uno, il carabiniere, si precipita giù per accertarsi delle sue condizioni. Di questo racconto sono convinta». La stessa convinzione espressa a Gerardo D’Ambrosio, il magistrato che si era occupato dell’istruttoria, mai arrivata a individuare i colpevoli e chiusa con la famigerata ipotesi che il volo dalla finestra fosse effetto di un “malore attivo”. Quell’archiviazione, però, restituì alla vedova almeno una certezza ufficiale: Pinelli non si era suicidato. Quel pezzo di Stato che ne aveva raccontato così la morte aveva mentito. Non l’unica menzogna. Tutta la prima fase delle indagini su piazza Fontana fu inquinata: apparati infedeli, uffici affari riservati, servizi deviati. Da una parte si armò la mano dei fascisti di Ordine Nuovo, dall’altra si indirizzarono le indagini sugli anarchici. Si chiamava: strategia della tensione. Creare caos per invocare ordine, non nuovo in questo caso: molti dei protagonisti di questa strategia erano ex funzionari fascisti, e la parola ex spesso valeva per la carica, non per le idee politiche.
C’è un’altra data chiave in questa storia: 9 maggio 2009. Al Quirinale nella giornata della memoria per le vittime del terrorismo l’allora presidente Giorgio Napolitano si spende affinché siano presenti sia Licia Pinelli che Gemma Calabresi, vedova del commissario, ucciso nel 1972 da un commando di militanti di Lotta continua perché considerato il responsabile dell’uccisione di Pinelli. Quel giorno le vedove si stringono la mano e si siedono vicine. Non era scontato. Solo un anno prima Pinelli aveva escluso una riconciliazione: «A voltepenso che c’è stato un momento in cui se avessi incontrato per strada la vedova, con i bambini, forse avremmo potuto parlarci, avere un rapporto. Ma così, con tutto quello che è successo, no». Per una volta lo Stato ha ricucito ciò che aveva strappato. C’è stato un secondo incontro, dieci anni dopo. Resta, per Licia, la negazione di una verità giudiziaria. Pinelli e la prima delle stragi della strategia della tensione condividono un destino non casuale: nessun colpevole.
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