Social club. Colpo di scena: scoperta la proprietà privata dell’informazione
di Alessandro Robecchi
C’è chi si incontra e si abbraccia, come vecchi amici che si ritrovano al confino sulla stessa isoletta, chi cerca i parenti, chi tenta di ricostruire la vecchia rete di contatti, chi esulta quando rintraccia qualcuno. I grandi esodi hanno un po’ sempre gli stessi meccanismi, e l’esodo da Twitter – che adesso si chiama X – non fa eccezione. Il social di Elon Musk vive giorni agitati, tra annunci di fuga, intolleranze e grandi rifiuti. Tutti gli esuli guardano con timore e speranza il numero dei follower, per vedere se ne recuperano un po’ sulle nuove macchine social, Thread, che è di Zuckerberg, o Blue Sky, che è la creatura del vecchio fondatore di Twitter, Jack Dorsey. Cercano di ricostruire il loro parterre, la loro audience di amici e seguaci. È l’orgia delle nuove password, delle foto-profilo, del primo timoroso post sulla nuova piattaforma.
Non si conosce la quantità dei fuggitivi, ma dev’essere consistente: forse per la prima volta in modo visibile, una massa imponente di persone si interroga su una cosuccia su cui i giornalisti democratici si interrogano da sempre, forse dai tempi di Gutemberg: la proprietà dei mezzi d’informazione. Colpo di scena per i non vedenti e i non udenti: i social non sono un posto neutro, un secchio infinito in cui riversare pareri, invettive, riflessioni, articoli e approfondimenti, foto di gattini e tutto il resto. No. Sono uno strumento di guadagno e di consenso in mano a quattro-cinque soggetti che monopolizzano la circolazione planetaria delle informazioni, soggetti miliardari, per la precisione, e quindi, diciamo così, una specie di ufficio stampa planetario dell’oligarchia (soprattutto americana), che si avvale di alcuni miliardi di collaboratori a titolo gratuito: noi.
Un algoritmo vi seppellirà, insomma, e basta una minuscola modifica di codici, un soffio informatico, a cambiare limiti e margini di libertà, a stringere o aprire, a consentire o vietare, a dirigere il flusso. Molti hanno fatto finalmente questa riflessione e qualcuno è giunto alla conclusione che scrivere su X oggi significa partecipare al meccanismo di consenso di uno dei padroni del mondo, e non dei più affidabili. Bene, benvenuti sulla Terra. Chi si occupa seriamente di informazione sa che la proprietà dei mezzi su cui scrive non è un dettaglio, e ora quel “dettaglio” lo scoprono milioni di persone, scendendo dal pero di Elon Musk e cercando di salire su altri peri, che al momento sembrano più liberi, chissà, vedremo.
Per ora, in attesa di capire se davvero un social ruberà clienti all’altro, e quanto, e come, è divertente osservare il meccanismo psicologico dei fuggitivi: un po’ scettici, un po’ esploratori. Su una cosa sono tutti d’accordo, si direbbe: serve un posto dove dire, comunicare, sottolineare, esporsi ed esporre il proprio parere, fosse anche la foto del diploma o del cane. E quindi c’è, come dire, la ricerca di un posto libero dove poter esercitare il proprio diritto di espressione, con il retropensiero un po’ tetro che quel posto non c’è. Il sogno democratico della rete, dove il contadino boliviano, il professore della Sorbona e il presidente degli Stati Uniti hanno la stessa possibilità di esprimersi era, appunto, un sogno, un po’ irreale, come sono i sogni. Molti lo sapevano, ovvio, molti lo scoprono ora, meglio tardi che mai. I più cinici e sgamati sanno di non essere in un posto libero e cercano di piazzarsi negli interstizi, ma alla fine la domanda è sempre quella: e tu, per quale miliardario produci contenuti?
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